DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nel corso di studi decennali, attingendo magistralmente al metodo del Capitale e a fonti etnografiche e archeologiche sempre più ampie e dettagliate, Engels formulò quel capolavoro di sintesi storica che è l’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884). A vigorosi colpi di materialismo dialettico, vi si trovano delineate in modo definitivo le tappe fondamentali del cammino della nostra specie, dalle forme comunistiche più antiche al comunismo superiore, la cui necessità è scritta nelle leggi della concentrazione delle forze produttive, della progressiva inesorabile dissoluzione della legge del valore, della riduzione del tempo di lavoro necessario, che la rivoluzione metterà finalmente a disposizione del pieno sviluppo dell’individuo in quanto membro della specie umana. All’alba dell’umanità, Engels non pone affatto la famiglia, intesa come unità di genitori e figli, in opposizione a tutte le altre unità simili: da un’organizzazione siffatta non avrebbe potuto svilupparsi in alcun modo la nostra caratteristica principale ereditata dal passato animale, che è quella della socialità, della vita associata. Alle origini egli pone invece il potenziamento dell’unione e della cooperazione tra gli individui che all’interno del proprio gruppo riconoscono vincoli di parentela e di discendenza unilineare - discendenza che, nella quasi totalità dei casi oggi noti, è di tipo matrilineare[1]

 

La parentela, in queste antiche tribù, svolge perciò una funzione decisiva nell’ordinamento sociale. Stabilitisi saldi legami di collaborazione tra gli individui, le cui forme vanno cercate all’interno di fattori produttivi, alimentari, biologici, e costituitasi una rete di rapporti di parentela, questi ultimi finiscono col diventare a loro volta altrettante forme entro le quali si svolgeranno i processi lavorativi immediati, condizionandone a tal punto le caratteristiche e il modo da determinare strettamente la struttura economica generale entro cui si muove la tribù - ad esempio, le prime forme di elementare divisione del lavoro e il modo in cui questo viene eseguito: la raccolta del legname, la pesca, la caccia, la ricerca di frutti e radici, di minerali e di pietre da lavorazione, ecc.

In un tale contesto troviamo in Engels la seguente fondamentale affermazione: “La razza stessa è un fattore economico”. Vi è cioè una stretta connessione dialettica tra legame di sangue nelle tribù primitive e l’inizio di una produzione sociale. I primi gruppi, relativamente frazionati e dispersi in un ambiente immenso, sono “a sangue puro”, cioè si tratta di economie isolate e - almeno in un primo e lungo periodo di tempo - la riproduzione avviene all’interno di etnie separate. Per proseguire questa introduttiva analisi della “questione razziale”, apriamo ora il nostro testo del 1953 I fattori di razza e nazione nella teoria marxista e proviamo a riassumere .

1. I processi storici che hanno agito prima della formazione del moderno stato nazionale sono perfettamente indagati dal materialismo storico, nella loro articolazione di famiglia, gruppo, tribù, razza e popolo, in quanto connessi e condizionati allo sviluppo delle forze produttive. Si definisce perciò essere umano chi è in grado, dalle origini, di produrre strumenti utilizzabili in successivi processi produttivi; e, d’altra parte, vi è una stretta connessione nell’evoluzione della struttura familiare e della forma produttiva. Si giunge alla conclusione che l’ambiente fisico, l’incremento delle forze produttive e della tecnica, sono fattori che condiziona - no la funzione del clan, della tribù, della razza.

2. Il fattore razziale e nazionale diventa cruciale per l’affermazione generalizzata del capitalismo; tuttavia esso è presente anche nella storia precedente. Il fattore razziale attraversa le diverse forme produttive (schiavismo, feudalesimo, capitalismo). Con quest’ultimo la forza fondamentale della storia europea diventa, almeno fino al 1871, la sistemazione della nazionalità secondo razza, lingua, tradizioni e cultura.

3. Non è marxista chi sostiene che la base economica si esaurisca nel produrre e nel consumare ciò che serve a tenere in vita l’individuo, escludendo da essa altri fattori, in primo luogo quelli sessuali e riproduttivi. La base è un sistema di fattori fisici e palpabili che avvolgono tutti gli individui e li determinano al loro comportamento anche singolo. Per noi, “economia” comprende tutto il vasto complesso delle attività di specie, di gruppo umano, influente sui rapporti con l’ambiente naturale fisico. La storia dell’umanità noi la concepiamo come un faticoso adattarsi della specie alle esigenze poste dalle circostanze esterne.

4. Astraendo da ogni influenza idealistica, riferiamo la categoria razza al fatto biologico, la categoria nazione al fatto geografico. Ma per nazionalità deve intendersi un raggruppamento che risente dei due fattori, quello razziale e quello politico. La razza è fatto biologico, serve per definire gli ascendenti, e se questi erano dello stesso tipo etnico.

* * *

Queste sono dunque le basi su cui deve poggiare un’analisi materialistica dello sviluppo sociale della storia antica dell’umanità. Non così vanno le cose nel mondo della scienza borghese. Confondendo “razza” con “razzismo”, la razza come fatto biologico con la razza come convenzione sociale (non esiste una “razza italiana” più di quanto esista una “razza greca” o “filippina”), il moderno filisteo piccoloborghese preferisce negare che i massacri di tribù, etnie, popoli interi non ancora soggetti ai tormenti del lavoro salariato, siano scaturiti dalle necessità vitali del capitalismo: li riferirà a eccessi, a storture del passato, che la democrazia borghese gradualmente sarà in grado di correggere, magari grazie al contributo della scienza. Il miglior esorcismo antirazzista, per costui, consiste nel... sopprimere il vocabolo. Oggi parlare di “razze umane” fa storcere i nasi, e perciò, dopo secoli di colonialismo e di persecuzioni razziali sotto ogni cielo e latitudine, a partire dalla seconda guerra mondiale, molti biologi si sono affannati intorno al problema della razza, per dimostrarne l’infondatezza o la fondatezza. La cosa, tuttavia, non è così semplice.

Il biologo statunitense Ashley Montagu, tra i primi antropologi ad affrontare la questione secondo un’ottica “anti-razziale”, afferma chiaro e tondo che “dal punto di vista biologico, naturalmente, esistono razze umane. In altre parole, si può considerare il genere umano come composto di un certo numero di gruppi che in quanto tali spesso si distinguono fisicamente gli uni dagli altri, sì da giustificare che siano classificati come razze separate”[2] Ma ciò che appariva accettabile, per chiare ragioni storiche, nel 1942, non lo è più, per ragioni altrettanto comprensibili, mezzo secolo dopo. Per il noto Cavalli-Sforza, non solo oggi siamo una sola razza, ma lo siamo sempre stati, fin dall’alba dell’umanità. Questi sono infatti i caposaldi della nuova genetica sul problema della razza[3]

 

1. Le categorie razziali, come sono definite nella società, non hanno alcun riflesso nella trasmissione ereditaria. Gli studi sul genoma umano dimostrano che le divisioni razziali non hanno alcun significato biologico.

2. “La razza è un concetto sociale, non scientifico. Noi tutti siamo evoluti negli ultimi centomila anni dallo stesso piccolo numero di tribù che migrarono dall’Africa e colonizzarono il mondo” (Craig Venter). Gli scienziati, dopo aver esaminato l’intero genoma umano, proclamano che c’è una sola razza, quella umana.[4]

3. Le caratteristiche usate nella definizione di razza (forma del naso, colore della pelle, tipo di capelli, ecc.) sono del tutto superficiali, apparenti e ininfluenti, e ciò da ogni punto di vista biologico .

È ben chiaro il procedimento metafisico della biologia borghese. Separata l’identità biologica dell’uomo dal suo essere sociale, e fattone un mero geroglifico genetico, in nome della ritrovata unità o fratellanza (manco il caso di parlare di classi sociali!) si proclama urbi et orbi che “le razze” non sono mai esistite. Allo stesso modo, l’economia volgare ritiene eterno il sistema di produzione capitalistico !

“Razze pure” esistevano certamente in un’epoca della storia umana antica, nella quale la forma familiare imponeva legami matrimoniali all’interno della tribù, tra gentes o fratrie legate da vincoli di sangue. Nella storia dell’umanità, al tempo in cui i legami di sangue richiedevano una particolare forma di produzione (quella del comunismo primitivo), la razza fu un necessario prodotto dell’organizzazione sociale e a sua volta ne condizionava le forme in un rapporto dialettico. Stanno a dimostrarlo gli studi classici di Henry Lewis Morgan (La società antica, 1877), ripresi per l’appunto da Marx ed Engels. Ora, prevedendo le solite obiezioni (“la scienza è andata avanti...”), citiamo da uno dei tanti convegni di biologi contemporanei:

“L’ingresso di una popolazione di ominidi in una nicchia [leggi: ambiente, tecniche di produzione] del tutto nuova potrebbe autorizzare la congettura di un nuovo taxon [leggi: tipo di classificazione], inferiore o pari alla specie. Se Homo erectus segna davvero un evento di rapida speciazione, per esempio, può essere legittimo interpretarlo come un primate nuovo occupante una nicchia nuova: quella della caccia cooperativa ai grandi erbivori”.[5]

Qui si vede come anche gli antropologi contemporanei siano costretti ad ammettere ciò che per noi è evidente da un secolo e mezzo: le forme del lavoro (ciò che con frasario confuso è espresso come “occupazione di una nuova nicchia”: nel caso specifico, la caccia, la raccolta) determinano la forma umana, a livello di specie, o di razza.

Le forme di produzione della preistoria sono dunque anche le forme della riproduzione entro gruppi necessariamente limitati (a causa del basso sviluppo demografico, degli ostacoli creati dall’ambiente, delle stesse leggi che regolano le parentele all’indietro, fino a risalire a un antenato mitico, a un simbolo delle origini comuni, a un totem). Questo è ciò che noi definiamo col concetto di “razza”, in quanto popolazione umana caratterizzata da un ambiente fisico e da un ambiente sociale di scambio genetico su un dato e limitato territorio e, di conseguenza, con tratti somatici facilmente e chiara - mente riconoscibili da tutti i suoi membri. Vi è in questo solo l’esigenza di prendere atto della necessità, per quei popoli antichi, di obbedire alle rigide leggi produttive e riproduttive che sole permisero di mantenere stabili equilibri con il proprio ambiente di vita.

* * *

Il destino delle differenze etniche è segnato con l’espansione irresistibile del capitalismo, che non può tollerare alcuna barriera, sia essa biologica o sociale. Il capitale abbatte ogni ostacolo al proprio sviluppo, poiché il suo fine e il suo principio sono la creazione di plusvalore e l’accumulazione allargata. Con la sua definitiva affermazione, esso si sottomette tutte le condizioni della produzione, prima fra tutte quelle che furono legate agli antichi modi di parentela e di riproduzione della specie.

Se dunque la razza costituì il presupposto biologico e sociale delle prime comunità umane, che significato si deve dare al suo apparente sopravvivere in un’economia capitalistica? La domanda sembrerebbe oziosa, se non fosse che tale problema si è intersecato con altri (ad esempio di tipo religioso e linguistico), nel quadro delle rivoluzioni nazionali dei paesi a economia precapitalistica e talora ne ha mascherato la realtà di classe.

Rimandando allo studio pubblicato su queste colonne in merito alla “questione nazionale” (e a prossimi lavori più concentrati sulle forme di produzione arcaiche), vogliamo qui limitarci a un’analisi della cosiddetta “questione razziale” come si presenta oggi, e in chiave polemica con chi, volutamente o meno, ne ha fatto un surrogato della lotta di classe. La borghesia ha giocato sul “conflitto razziale” come valvola di sicurezza alla lotta di classe. Di contro al riconoscimento odierno dell’inesistenza delle razze - cui purtroppo fa riscontro ben oltre mezzo secolo di inerzia classista – la “questione razziale” non tarderà a essere ripresa in funzione antirivoluzionaria, insieme a tutto l’armamentario ideologico sperimentato dalla borghesia in quest’ultimo secolo, quando il proletariato inizierà a svegliarsi dal suo troppo lungo silenzio.

* * *

Ma da dove e quando sorge la “questione razziale”?

Già l’etimologia del vocabolo non lascia adito a dubbi. Benché della sua origine non si sappia molto, sembra esclusa una sua provenienza latina. Appare più probabile una derivazione medievale centro-europea (haraz), ma solo per indicare varietà di animali domestici: il vocabolo farebbe la sua comparsa in Italia non prima del Trecento.

Primo punto, dunque: i popoli antichi non si posero il problema biologico delle razze umane. Tale problema nasce (e morirà) con la società capitalistica.

In secondo luogo, nelle società precapitalistiche, le diverse forme di violenza non sono mai chiaramente legate a motivi di ordine biologico quali impliciti nelle differenze razziali. L’idea che esistano razze superiori e razze inferiori germoglia dialetticamente proprio nel momento in cui la società borghese inizia un ciclo storico (al cui termine c’è l’annullamento di tutte le differenze razziali) e celebra al tempo stesso i saturnali dell’accumulazione originaria, negando precisamente, in nome della schiavitù, uno dei pilastri su cui tutta la sua economia si basa, il lavoro salariato.

Ma la schiavitù moderna non nasce certamente dall’applicazione di teorie razziste. Al contrario, queste nascono secoli dopo l’inizio della tratta dei neri e si affermano solo con le guerre abolizioniste negli Stati Uniti ( 1861 - 1865 ) .

Quando davanti al capitalismo in ascesa si spalancarono le grandi distese delle pianure americane, vi si precipitò il capitale agrario attratto dal miraggio delle piantagioni di tabacco e di cotone e, più tardi (dal 1850), anche da quello dei ricchi giacimenti minerari di Sonora, di Chihuahua e Coahuila. La tecnologia non metteva ancora a disposizione del capitale macchinari idonei allo sfruttamento intensivo: la coltura richiedeva masse enormi di uomini privi (o deprivati con la forza) di ogni mezzo. Ma in Europa il contadino era legato alla terra e non poteva essere alienato, mentre l’operaio produceva plusvalore a pieno ritmo per il fiorente capitale industriale. Solo alcuni gruppi di disperati, espropriati da ogni forma di lavoro nella madrepatria, furono spediti in Virginia con fondi pubblici; in seguito, Cromwell svuotò le galere mandando oltre oceano i detenuti politici a lavorare in qualità di autentici schiavi (indentur and servants)[6]

 

Ma ciò non poteva bastare. Gli indigeni, di cui perfino i colonizzatori riconobbero le qualità sociali e individuali, erano legati a forme di comunismo primitivo che, come impedivano loro di fare schiavi di guerra, così li rendevano certamente poco utilizzabili in tal senso. Essi, non conoscendo e non concependo la proprietà privata della terra (vedendo anzi in essa la Grande Madre che nutriva le generazioni passate, presenti e future), creavano un ostacolo inevitabile all’espansione del giovane capitalismo su suolo americano e per questo andavano prima rimossi e - se questo non bastava - spazzati via con tutti i mezzi possibili (alcol, malattie, massacri). Secondo l’ideologo razzista E. Ghersi (La schiavitù e l’evoluzione della politica coloniale, 1935), gli indigeni americani erano “bellicosi per natura e dotati di un orgoglio di razza non facilmente domabile, tanto più che dopo un primo contatto con i bianchi finirono col fuggire in maggioranza, ritirandosi nelle foreste interne, e infine poco adatti fisicamente al lavoro, che loro si imponeva: da cui forte mortalità e scarsi risultati”. Massacrati dunque questi (e resa così “libera” l’enorme disponibilità di terra, da mettere sul mercato), si dovette cercare altrove e in altri continenti mano d’opera libera. La schiavitù, Moloch dell’accumulazione originaria, germogliò come fatto puramente naturale e spontaneo, senza che nessun’anima pia trovasse allora ciò contrario a leggi morali o violasse norme umanitarie “in difesa della razza”. Il commercio del cotone su scala mondiale divenne la bandiera dello schiavismo e non vi fu paese cristiano che non ne approvasse i sistemi più bestiali. E laddove la terra non bastava, fu la tratta o l’allevamento degli schiavi a costituire fonte di inesauribile ricchezza. Il primo censimento (1798) contò 697.000 neri su suolo americano; nel 1861 il numero era salito a circa 4 milioni.

Scrive Marx nel Capitale:

“Con lo sviluppo della produzione capitalistica durante il periodo manifatturiero, l’opinione pubblica di Europa aveva perduto ogni residuo di pudore e coscienza. Le nazioni si vantavano cinicamente di ogni infamia che fosse mezzo all’accumulazione di capitale. Si leggano per esempio gli ingenui annali del probo e timorato di Dio A. Anderson. Qui si strombazza come trionfo della saggezza inglese il fatto che l’Inghilterra, nella pace di Utrecht, abbia estorto agli spagnoli […] il privilegio di esercitare la tratta dei negri - che fino allora praticava soltanto fra l’Africa e le Indie Occidentali britanniche - anche fra l’Africa e l’America Latina […]. Liverpool si ingrandì sulla base della tratta degli schiavi, che costituisce il suo metodo di accumulazione originaria. […] Nel 1730 Liverpool impegnava per la tratta 15 navi; nel 1751, 53; nel 1760, 74; nel 1770, 96; nel 1792, 132. L’industria cotoniera, mentre importava in Inghilterra la schiavitù dei bambini, diede impulso alla trasformazione dell’economia schiavistica degli Stati Uniti, un tempo più o meno patriarcale, in un sistema di sfruttamento mercantile. La schiavitù velata dei lavoratori salariati in Europa ha in genere avuto bisogno, come suo piedistallo, della schiavitù sans phrase nel nuovo mondo ” .[7]

Secondo Ashley Montagu, che prendiamo ancora una volta a testimone come biologo non sospetto di marxismo, fu proprio ai tempi della guerra civile americana che, da parte schiavista “incominciò la dolorosa elencazione delle differenze che avrebbero dovuto provare l’inferiorità dello schiavo di fronte al padrone”[8]

. Ha ufficialmente inizio così la storia del razzismo con benedizione scientifica. Quando poi l’industria prese il sopravvento anche negli Stati Uniti e la rinnovata tecnologia agraria rese superfluo l’uso dello schiavo sulla terra, lo schiavista, prima di abdicare, inventò l’ultima giustificazione al proprio ruolo sociale (fetente ma necessario, proprio come tutta la società borghese che lo partorì), ricorrendo a tesi... aristoteliche: lo schiavo è un essere inferiore, è nato per il lavoro e per l’ubbidienza.

La lotta tra Unione e Confederazione fu dunque il riflesso del conflitto tra sistemi sociali diversi, quello della schiavitù e quello del lavoro libero. Ma era ben chiaro ai rivoluzionari che non poteva affatto trattarsi di scegliere il campo di lotta sulla base di considerazioni morali, religiose e, meno che mai, razziali; poiché in questa lotta erano già ben chiare le radici dello schiavismo nella società borghese, che sono le medesime di quelle del lavoro salariato: “Già tra il 1856 e il 1860, i portavoce politici, i giuristi, le autorità religiose e morali del partito schiavista non avevano tanto cercato di dimostrare che la schiavitù dei Neri era giustificata, ma che il colore della pelle non significava nulla, dato che la classe operaia era nata dovunque per la schiavitù” .[9]

 

La scienza borghese non mancò, qua e là, di dare il suo onesto contributo alla tesi razziale per tutto il XVIII secolo (non a caso, in pieno Illuminismo), prima con i suoi biologi che ne definirono il significato scientifico ( Buffon nel 1749) e poi con i suoi geografi-esploratori (Bougainville, Wallis-Carteret, il capitano Cook, ecc.): fu inventato il razzismo nella biologia e nella sociologia, ciò che nessuna società umana del passato – neppure quelle dominate dal modo di produzione schiavistico – aveva potuto o saputo o voluto fare. Lo schiavismo moderno, che accompagna gli orrori dell’accumulazione originaria del capitale, appartiene tuttavia a un modo di produzione antico. Esso non è più indispensabile al capitale, che si nutre di plusvalore estorto a cittadini uguali e liberi davanti alla legge (benché, ovunque possibile, quest’uso torni in auge soprattutto nei periodi di crisi ) .[10]

 

Anche il capitale ha un’etica, e infatti il parlamento inglese “riformato” del 1832, sensibile alla tragica sorte di schiavi d’oltre oceano ormai resi superflui dal pieno sviluppo del lavoro salariato e preso atto che anche il “selvaggio” è, nonostante le apparenze, “buono”, proibiva con effetto immediato lo sfruttamento del lavoro dello schiavo nelle colonie per oltre 45 ore la settimana, mentre autorizzava volentieri quello dei fanciulli condannati alle 72 ore settimanali nelle galere produttive della madrepatria.

Gradualmente il lavoro schiavista venne bandito. L’Inghilterra nel 1833, la Francia nel 1848 (l’anno stesso nel quale il generale Cavaignac massacrava gli insorti di Parigi!), l’Olanda nel 1863 emanciparono i propri schiavi. Da allora, il razzismo come ideologia e prassi ha trovato le sue applicazioni ogni volta che le classi al potere l’hanno ritenuto necessario. Dunque, nella misura in cui si considera la “razza” come una entità astratta e metafisica, affermare “la razza esiste” (o “la razza non esiste”) è frase priva di senso. Più ci si allontana dalle società antiche, più i confini razziali illanguidiscono e si attenuano. Dalla biologia il concetto entra sempre più a far parte della sovrastruttura politica e del sistema storico dato, scaturendo spesso, nelle società divise in classi, dalle forme del conflitto sociale. Gli ideologi borghesi (filosofi, etnografi, antropologi , ecc.) rifiutano in modo coccodrillesco l’uso ideologico del termine “razza”, evocante quello di “razzismo” (un vocabolo che, come s’è visto, è nato e ha trovato piena applicazione soltanto all’interno della società borghese): il termine andrebbe così bandito perché un secolare e niente affatto marginale filone della sociologia borghese ne ha fatto un uso ideologico. Ma l’ideologia nasce e si sviluppa all’interno di una società, e l’uso ideologico del linguaggio va materialisticamente spiegato come conseguenza di forze reali che agiscono nella società. In una società che riconosce parità giuridica nello scambio delle merci, la classe dominante regola i propri rapporti con le altre classi o “razze” proletarizzandole nelle galere del lavoro salariale, o annientandole sulla base di pretesti “scientificamente dimostrati” – è il caso di tutte le teorie razziste adottate nel corso delle guerre di colonizzazione, ecc.

Infine, va sottolineato come il “razzismo” non rappresenti altro che una delle forme ideologiche attraverso le quali si manifesta il sorgere storico delle diverse nazioni, con l’aggregazione di una prevalente cultura, una lingua unica e un unico diritto attorno a un mercato unificato. Fa parte di questo processo storico l’estirpazione di ogni differenza di etnie, di popoli, di costumi. In Italia fu il fascismo ad assumersi questo ruolo, che in Francia e in Inghilterra fu egregiamente svolto da governi retti secondo tradizioni schiettamente “democratiche”: poiché questa è una cruda esigenza di necessità produttive, e non libera scelta tra opzioni egualmente fondate. Sono solo i nuovi ideologi “illuminati” e i pochi superstiti relitti extraparlamentari “di sinistra” a rimestare la vecchia minestra della difesa di “etnie”, di “minoranze”; e lo fanno solo perché hanno sostituito proditoriamente la “cultura popolare” alla lotta di classe rivoluzionaria.

Il capitalismo, che ai tempi del Manifesto del partito comunista (1848) iniziava la sua corsa travolgente nel distruggere ogni barriera economica, culturale, etnica, biologica, oggi sta terminando questo processo di livellamento, di “uccisione del diverso”. Individuare “razze pure” oggi è considerato da tutti una ricerca priva di senso. Ma il fenomeno è stato controllato per secoli da un processo sociale ed economico, non biologico. Come non era “pura” la razza dei colonizzatori europei dell’Ottocento, così non lo è quella degli immigrati che “minacciano” le sacre frontiere delle squallide “patrie” occidentali. E, mentre il processo di omogeneizzazione – fenomeno storicamente inarrestabile, come andiamo dicendo da un secolo e mezzo, oltre che processo indispensabile per l’affermazione della società comunista – è diventato un fatto compiuto, si innalzano tutte quelle forme reazionarie di razzismo alla rovescia che, riscoprendo “dignità culturale”, etnica, razziale, in questo o in quel “gruppo umano”, sostengono che tutte le culture sono ugualmente complesse e necessarie: posizione antistorica che condurrà i sostenitori di questa forma ideologica a fianco della reazione nella lotta contro il proletariato rivoluzionario internazionale.


Alla prossima generazione, che vedrà ovunque divampare le fiamme della rivoluzione, toccherà anche il compito di lottare contro tutti i “razzismi” e gli “anti-razzismi”, partoriti dallo Juggernaut capitalistico stritolatore di popoli d’ogni colore, in nome dell’unica bandiera nota al comunismo: quella della solidarietà e della fratellanza di classe.

 


[1]

Poco importa che oggi gli antropologi si riferiscano a questo gruppo con il nome di clan, o lignaggio; alcuni mantengono il vecchio termine di “orda”, come insieme di gruppi nomadi che si spostano su un proprio definito territorio.

[2]

Ashley Montagu, La razza. Analisi di un mito. Einaudi 1966, pag. 23.

[3]

Citiamo dall’articolo “DNA Research Shows Race Is Only Skin Deep” [Le ricerche sul DNA dimostrano che la razza è solo una questione di superficie]. International Herald Tribune, 24/8/2000.

[4]

Cavalli Sforza è stato uno dei principali ideatori del “Progetto Genoma umano”, ridefinito “Progetto vampiro” dai suoi oppositori, che ha tra i propri obiettivi quello di prelevare campioni di sangue dalle 5000 popolazioni linguisticamente distinte del mondo allo scopo di individuare eventuali geni di qualche interesse applicativo nelle patologie ereditarie - evidentemente brevettabile. Sul medesimo diapason - i suonatori della grancassa genetica sono sempre mossi da… puro disinteresse - troviamo appunto Craig Venter, presidente dell’Istituto per la Ricerca sul Genoma e direttore del Celera Genomics Corp., che voci comuni ritengono interessato fortemente a brevettare l’intero genoma umano ottenendo profitti giganteschi dalle case farmaceutiche e dagli istituti di ricerca.

[5]

AA.VV., Il problema biologico della specie. Modena 1988, pag. 271 .

[6]

È noto il commento anti-inglese di B. Franklin: “Voi ci avete fatto un oltraggio, inviandoci i rifiuti della vostra società. Che direste se noi vi mandassimo i nostri serpenti a sonagli?”. I “rifiuti sociali” sono per la maggior parte quelli stessi di cui il pio abate Raynal diceva: “avevano meritato la morte, ma per uno spirito di politica umana e giusta, furono costretti a lavorare per il bene della Nazione”, di modo che, dopo aver passato “alcuni anni in schiavitù, questi malfattori contrassero il gusto del lavoro”. Si trattava, è inutile ricordarlo, in parte di canaglie più o meno prezzolate spedite in America in appoggio al partito schiavista, ma in parte anche di quei miserabili che, ingrossato per anni l’esercito dei disoccupati, non riuscivano a trovar posto neppure nelle lugubri workhouses inglesi del XVIII e XIX secolo.

[7]

Marx, Il Capitale, Libro I, Cap.XXIV, par.6. UTET, 1974, p. 984.

[8]

A. Montagu, cit., p. 37. Nelle sue corrispondenze al New York Daily Tribune, Marx ebbe buon gioco nel dimostrare che, dietro agli Stati schiavisti del Sud, e dietro al monopolio del cotone, stavano i banchieri di New York, centro del mercato finanziario, che trattavano i prezzi con l’Inghilterra, detenevano le ipoteche sulle piantagioni e partecipavano direttamente alla tratta degli schiavi africani; e che dietro a tutto ciò, stava la civilissima Inghilterra, la cui grande industria poggiava direttamente sul cotone e quindi, indirettamente, sul sistema schiavistico.

[9]

Karl Marx e Friedrich Engels, La guerra civile negli Stati Uniti (“Die Presse”, 26/11/1861; ora in K. Marx-F. Engels, La guerra civile negli Stati Uniti. Del Bosco Edizioni, 1973, p. 74.

[10] Più volte Marx si è occupato dello schiavismo, in quanto si ripresenta non occasionalmente all’interno dell’economia capitalistica e ovunque diffuso alle origini di questo modo di produzione. Benché si tratti di una forma di produzione antica, che sorse all’interno di rapporti di proprietà e di sviluppo tecnico completamente diversi, non vi è contraddizione alcuna nel permanere dello schiavismo in forme successive, in quanto “una volta presupposta la produzione basata sul capitale, la condizione che il capitalista, per porsi come capitale, debba immettere in circolazione valori creati col proprio lavoro o come che sia, purché non col lavoro salariato già esistente, passato – questa condizione appartiene alle condizioni antidiluviane del capitale, ai suoi presupposti storici”. Grundrisse, quad. IV, 363.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2001)

 

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  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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