DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nonostante l’ottimismo di facciata dei commentatori ufficiali – che si ostinano a proclamare imminente (se non addirittura già in corso!) la ripresa – , la crisi economica mondiale continua ad approfondirsi e a ramificarsi, come una di quelle crepe sul muro che si allargano e diffondono sempre più. Senza paura di ripeterci e di annoiare, ricordiamo in maniera molto sintetica i termini della questione. Intorno alla metà degli anni ’70, s’è chiuso il ciclo espansivo del capitalismo mondiale, apertosi grazie alle immani distruzioni (di merci ed esseri umani) prodotte dalla Seconda guerra mondiale. Il motore s’è ingolfato e, ai piedi del vulcano della produzione, la palude del mercato ha preso a gonfiarsi giorno dopo giorno. Si sta verificando cioè la situazione descritta dal Manifesto del partito comunista nel 1848: “Nelle crisi si diffonde un’epidemia, che sarebbe apparsa come un controsenso a tutte le epoche precedenti: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente risospinta in uno stato di barbarie momentanea: sembra che una carestia o una guerra di sterminio generalizzata l’abbiano privata di tutti i mezzi di sostentamento. L’industria, il commercio sembrano distrutti: e perché? Perché la società possiede troppa civilizzazione, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive, che sono a sua disposizione, non servono più a promuovere la civiltà e i rapporti di proprietà borghesi: al contrario, esse sono diventate troppo potenti per tali rapporti, ne vengono ostacolate e non appena rimuovono tale ostacolo mettono in subbuglio l’intera società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere la ricchezza da essi prodotta” (Cap.I: “Borghesi e proletari”). S’inaugura dunque a metà anni ’70 un ciclo recessivo. Che si è sviluppato fra alti e bassi, utilizzando tutte le valvole di sfogo a sua disposizione, scaricando le punte acute della crisi sulle periferie, scatenando guerre e guerricciole, gonfiando bolle speculative il cui scoppio non ha poi fatto che aggravare la situazione, ricorrendo finché possibile all’enorme massa di profitti incamerati nel periodo precedente per distribuire briciole e nutrire così ogni genere d’illusione e ricorrendo a quegli ammortizzatori sociali di cui il capitale ha fatto in tempo a dotarsi, in un secolo di alterne vicende fra regimi liberali, fascisti e democratici (lo Stato in veste di dispensatore di welfare, abbondantemente assecondato dalle forze politiche e sociali della socialdemocrazia d’ogni sfumatura). Ma, pur fra alti e bassi, il ciclo recessivo non ha fatto che procedere per la sua strada: il capitale non riesce a valorizzarsi con la stessa velocità e intensità di prima. E questo, per il capitale, è un incubo . Come reagisce? Nell’unico modo che conosce: intensificando la produzione attraverso l’introduzione di tecnologie sempre più sofisticate e un acbrigliato e deviato ogni reazione operaia, svuotandola, disperdendola, indirizzandola verso falsi obbiettivi. Ma nelle periferie del capitalismo (periferie sempre più vicine al centro!) i sommovimenti, le vere e proprie sommosse, non sono mai mancati, come abbiamo rivoluzionario che può solo essere rappresentato da un forte e compatto, anche se minoritario, partito comunista internazionale. Da parte sua, la classe dominante, interprete ed esecutrice delle necessità vitali del capitale mondiale, non sta certo con sono stati tre i massicci interventi bellici: la Guerra del Golfo, la Guerra nei Balcani, la Guerra in Afghanistan, variamente presentate come “guerre giuste e democratiche”, della parte buona del mondo contro il cattivo di turno. Nel modo in cui le abbiamo lette (e ogni sovrapproduzione di merci (la sovrapproduzione della merce forzalavoro). Colpirlo, nel senso di disorientarlo, di dividerlo e di legarlo a interessi non suoi, a interessi nazionali. La grande mobilitazione che accompagna la preparazione di qualunque guerra e in particolare di un nuovo macello mondiale è una mobilitazione economica, materiale, e ideologi c a: è la retorica patriottarda, è il nazionalismo più o meno esplicito, è l’affasciamento ideologico che annega ogni distinzione di classe in una melma popolare, è l’argomentazione sciovinista che individua in questo o quel paese, in questo o quel popolo, il nemico da sconfiggere. Questa mobilitazione non attende la vigilia dello scoppio della guerra per materializzarsi. Si prepara molto prima: per esempio, esaltando l’economia nazionale e i sacrifici per essa, la difesa del “made in …” contro “l’invasione delle merci straniere”, la comunanza d’interessi fra lavoratori e imprenditori (e le divisioni fra manodopera vecchia e giovane, indigena e immigrata, rigida e flessibile, ecc.). O anche solo suonando inni nazionali alle manifestazioni operaie e sventolando le bandiere nazionali al posto della bandiera rossa… Ma c’è poi un’operazione anche più sottile che viene compiuta a danno della classe operaia mondiale, ed è quella – tipica della politica imbelle degli strati piccoloborghesi, di quelle “mezze classi” che infestano lo spazio vitale del proletariato – dell’“antiimperialismo di maniera”. Questa autentica porcheria ideologica (presente in quantità industriale in tutti quei settori “di movimento” come i Centri sociali, i social forum, i Terzomondisti più o meno riverniciati, i Verdi sopravvissuti, oltre che nel “guevarismo nostalgico” di formazioni come Rifondazione Comunista composte di un’accozzaglia indegna di exstalinisti, exmaoisti, extrotzkisti) riduce sostanzialmente tutto allo slogan vetusto “Yankee Go Home” e, all’e saltazione idiota degli USA come “paese della libertà” propria di certi settori dell’ideologia dominante, contrappone l’altrettanto idiota visione degli Usa come “impero del male”. Ora, è evidente che, essendo quello statunitense l’imperialismo più potente, il ruolo di gendarme gli… spetta di diritto, e con quel gendarme dovrà inevitabilmente scontrarsi qualunque ripresa classista. Ma l’“antimperialismo di maniera” non fa altro che introdurre – secondo uno schema proprio dello stalinismo più becero – una serie di distinzioni di gradazione: esistono un imperialismo forte e uno debole, un capitalismo cattivo e uno buono, e siccome noi, ohibò, siamo per i deboli contro i forti, ecco che risulta chiaro da che parte stiamo. La guerra in corso, allora, non è più “guerra del capitale” – guerra che scaturisce da un sottosuolo economico dominato dalle leggi del modo di produzione capitalistico – , ma diventa, molto semplicemente, “guerra degli Usa”. E nella storia di quel paese si va a trovare il DNA guerrafondaio: lo sterminio delle popolazioni native, la schiavitù e il razzismo, l’oppressione di altri popoli. Tutti “episodi” veri, non c’è dubbio: ma o si comprende che essi sono parte della s toria del capitalismo oppure ci si condanna a schieramenti puramente sciovinisti. Perché quegli “episodi” rientrano in sviluppi storici, economici, sociali, che hanno visto all’opera tutte le nazioni in quanto espressioni politiche di un dato modo di produzione: la Spagna in America Latina, la Gran Bretagna in India, la Francia in Africa e Indocina, la Germania e l’Italia in Africa, il Giappone in Cina, ecc. ecc., un intrico di rapporti, in cui non solo è vano, ma è sbagliato, cercare il motore primo, la responsabilità iniziale. Se non riconoscendo una volta per tutte che questo è il segno del capitalismo, modo di produzione superiore a quello feudale e a quello classico, ma che – in quanto proprio di una società divisa in classi – ha portato l’arte del delitto di massa a livelli mai prima raggiunti.

 

Di nuovo, è la “dottrina dell’energumeno”, che – come dimostravamo alcuni numeri fa su questo stesso giornale, ripubblicando un nostro testo del 1949 – si rifiuta di comprendere le dinamiche profonde e individua la causa delle guerre, delle sofferenze, dello sfruttamento di masse enormi, nella… cattiveria o follia di questo o quell’individuo. Ragione per cui, tutto si riduce a una questione di “onestà”, di “bontà d’animo”, di “correttezza”, di “amore per gli altri”… padroni buoni contro padroni cattivi, governanti onesti contro governanti corrotti, nazioni amanti della pace contro nazioni guerrafondaie… e poi, quando sarà il momento, il proprio paese (invariabilmente “minacciato”, “aggredito”) contro questo o quell’altro paese, il proprio Stato (naturalmente, “papà di tutti”) contro lo Stato altrui, il proprio esercito (composto della “migliore gioventù nazionale”, i “figli delle mamme della patria”) contro l ’eser cito altrui (composto in egual misura di “bestie stupratrici, belve assetate di sangue”)… Ecco a dove approda la “dottrina dell’energumeno”: non a un quieto pacifismo, ma a un cinico e aggressivo sciovinismo militarista ! Scambiare la guerra in corso (e quelle che inevitabilmente seguiranno) per una “guerra degli Usa” senza comprendere che di “guerra del capitale” si tratta (di guerra condotta dal capitale per la propria sopravvivenza) significa oggi prendersi la criminale cantonata di appoggiare questo o quel regime in funzione puramente antiamericana e porre le premesse per schierarsi domani a difesa del proprio Stato contro l’invasore o aggressore di turno. Significa porsi già da oggi in un prospettiva aperta mente nazionalista, patriottica, sciovinista. Significa essere fuori da qualunque prospettiva classista e rivoluzionaria.

Significa essere dei burattini nelle mani del capitale nazio nale e mondiale. Quella crepa sul muro si allarga sempre più e il nostro sguardo non deve cessare di seguirne le millimetriche variazioni. Non per intervenire con calce e cazzuola o puntelli e impalcature, ma per eliminare un edificio ormai condannato dalla storia: dunque, con una buona squadra di addetti alla demolizione, che non si lascino abbindolare dalle sirene del nazionalismo, comunque mascherate.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2002)

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