DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

C’è un’evidente continuità che lega la guerra di oggi contro l’Afganistan (cui l’Italietta potrà ora dare il suo bravo contributo, scodinzolando felice per… la grazia ricevuta!) a quella dei Balcani e, ancor prima, a quella del Golfo, nel 199091. Ed è una continuità prodotta dalla crisi economica apertasi a metà anni ’70. Ma, in realtà, in guerra la società del capitale è stata sempre: anche solo a volerci limitare a questo secondo dopoguerra “pacifico”, esso ha voluto dire ben 125 conflitti più o meno estesi, con una trentina di milioni di morti! Il capitale è guerra: nella fabbrica e nella società civile (lo dimostrano i 100 e più morti al Petrolchimico di Marghera di cui tanto si parla in questi giorni) come sul fronte bellico. Finché esiste la legge del profitto, finché la società si basa su di essa, la guerra – più o meno guerreggiata – sarà inevitabile e perenne. All’epoca della Guerra del Golfo, scrivevamo che “per il capitalismo nella sua estrema fase imperialistica, la guerra è comunque periodicamente necessaria per reagire alla caduta tendenziale del saggio medio di profitto distruggendo le eccedenze di capitale (di plusvalore capitalizzato e capitalizzabile) rimasto inoperoso, cioè non valorizzabile e, come tale, in crisi di accumulazione, un po’ come nei grandi crack di borsa susseguentisi a ritmo sempre più vertiginoso si distruggono montagne di ‘capitale fittizio’ (azioni, obbligazioni, ecc.) di origini non sempre e non necessariamente speculative; condizione sine qua non perché il ciclo riprenda a tassi d’incremento ‘decenti’ anche se non tali da impedire che, prima o poi, il meccanismo torni a incepparsi”1. E ricordavamo quanto Lenin scriveva in “Zimmerwald al bivio” (1/1/1917): “I pacifisti borghesi e i loro imitatori e portavoce ‘socialisti’ hanno sempre concepito la pace come un qualcosa di distinto nel suo stesso principio, nel senso che l’idea ‘La guerra è la continuazione della politica di pace, e la pace è la continuazione della politica di guerra’ è rimasta sempre incompresa per i pacifisti delle due sfumature. Tanto i primi quanto i secondi non hanno mai voluto convenire che la guerra imperialistica 19141917 è la continuazione della politica imperialistica del periodo 18981914, se non di un periodo più lungo. Tanto gli uni quanto gli altri non vogliono convenire che, se i governi borghesi non saranno rovesciati mediante la rivoluzione, la pace potrà essere soltanto una pace imperialistica in quanto continuazione della guerra imperialistica”2. Fate i conti, e troverete la continuità che collega il 2001 al 1898 (se non prima)! La crisi economica apertasi a metà anni ’70 (su cui tanto abbiamo scritto, anche perché da noi individuata fin dagli anni ’50) ha prodotto un’accelerazione e acutizzazione di questa irresistibile tendenza alla guerra. E proprio gli ultimi dieci anni, con i tre gravi e sanguinosi conflitti che li hanno contrassegnati (Golfo, Balcani, Afganistan), ne sono la dimostrazione drammatica. Quest’ultimo decennio ha dunque visto la crisi economica (una crisi strutturale, di sovrapproduzione: troppe merci e troppi capitali prodotti, caduta sempre più netta del saggio medio di profitto, capitali inoperosi che non riescono ad autovalorizzarsi con la necessaria velocità e intensità) trasformarsi a più riprese, con maggiore frequenza e virulenza, in guerra guerreggiata – in guerra avente come obiettivi: a) di distruggere il sovrapprodotto (e passare poi a ricostruire), b) di imporre il controllo su aree strategicamente ed economicamente vitali da parte del capitalismo più forte (in questo caso, gli USA contro tutti gli altri, altrettanto fetenti ma non altrettanto forti), c) di colpire ulteriormente, dividere e disorientare il proletariato internazionale, ricacciandolo in braccio al suo nemico più temibile: il nazionalismo, in tutte le sue forme, democratiche, fondamentaliste, liberali, dittatoriali. A questa realtà che si ripete drammaticamente oggi, per riproporsi ancora domani e dopodomani, fino a scatenare un nuovo conflitto mondiale, noi dobbiamo rispondere nell’unico modo possibile per dei marxisti rivoluzionari degni di questo nome: con il d i s f a t tismo rivoluzionario. Può sembrare una prospettiva lontana, irrealizzabile. E certo il disastro compiuto dalla controrivoluzione staliniana e democratica è talmente profondo da averla resa, oggi, poco credibile e praticabile. Ma da un lato altra via non c’è e, dall’altro, si tratta comunque di prepararla, quella prospettiva, nell’oggi, con pazienza e con dedizione. Ancora all’epoca della Guerra del Golfo, scrivevamo: “I lavoratori si rifiuteranno sempre più, DEVONO rifiutarsi, di subordinare la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro, e della vita stessa dei loro figli, ai dettami del buon funzionamento dell’economia, della compatibilità delle loro richieste con gli obiettivi perseguiti dall’azienda e dal governo, del mantenimento della pace sociale come leva dello sforzo di guerra. E’ nella resistenza quotidiana, costante e incondizionata, all’attacco del capitale e del suo Stato – una resistenza condotta con mezzi e metodi di classe fino allo sciopero generale senza limiti di spazio e di tempo – , è nel rifiuto di servire la ‘patria’ a scapito dei propri interessi anche i più elementari in quanto classe, che si forgiano le condizioni di un disfattismo rivoluzionario di cui, in tutti i casi, ogni lotta operaia in intransigente difesa di sacrosante rivendicazioni immediate getta, anche non volendolo, i primi semi. Nello stesso tempo, se condotta con coerenza, è questa l’unica forma di lotta che, in date circostanze, possa almeno contrastare e perfino impedire ulteriori coinvolgimenti […] ad opera delle classi dominanti e del loro governo. No alla guerra, dunque, no alla solidarietà nazionale, no agli scioperiburletta; contro le invocazioni governative, partitiche e sindacali alla pace sociale, alla disciplina del lavoro, all’accettazione dei ‘sacrifici imposti dalla situazione’ […]. E’ attraverso una simile battaglia – la nostra battaglia – che si preparano due condizioni necessarie della vittoria rivoluzionaria finale: un grande, impetuoso movimento di massa contro l’ordine sociale borghese, responsabile, fra le tante infamie, del massacro imperialistico; il Partito rivoluzionario di classe, indispensabile arma della trasformazione dell’istinto di classe in azione cosciente di attacco al cuore della dominazione borghese, lo Stato, in tutta la varietà delle sue articolazioni. ‘Se non è oggi, sarà domani; se non sarà nel corso di questa guerra, sarà nel corso della prossima’ [Lenin, ‘La situazione e i compiti dell’Internazionale socialista’, 1/11/1914]. Non v’è soluzione al problema delle guerre imperialistiche fuori dalla rivoluzione proletaria. In funzione di essa si tratta di lavorare, tenacemente, ogni giorno” 3. Questo è ancora e sempre il nostro grido di battaglia, questa è ancora e sempre la nostra continuità: con il 1991, con il 1939, con il 1914, con il 18981914: nel dire no alla guerra imperialistica, comunque essa venga dipinta per renderla accettabile e farne digerire le conseguenze alle vittime dirette, i proletari mandati a scannarsi gli uni contro gli altri sugli opposti fronti.

 

Note:

1.  “No alle guerre e alle paci imperialistiche!”, febbraio 1991, Supplemento al n.1/1991 de Il programma comunista.
2.   Cit. in idem.
3. Idem.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2002)

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