DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La società del capitale non ha più “terre promesse” da offrire, ma solo precarietà, bassi salari, incertezza per il futuro

Sono cronaca quotidiana i naufragi di poveri cristi sulle “carrette del mare”, lo stillicidio di morti rinchiusi in containers per migliaia di chilometri, viaggi disperati alla ricerca di un impiego irregolare, di un posto qualunque nella bengodi metropolitana, anche a costo di affrontare pericoli estremi. E’ un dramma su scala planetaria, le cui proporzioni si intuiscono a tratti, come la punta di un enorme iceberg sommerso, ma sfuggono alle statistiche. Nel maggio 2001 il ritrovamento dei corpi di 150 persone in un camion ha rivelato l’esistenza di un traffico di clandestini del Sahel attraverso il deserto. Da Agadez, nel Nord del Niger, ogni anno 50.000 emigranti dal Niger, dal Ghana e dalla Nigeria, partono alla volta dell’Algeria o della Libia a bordo di camion stracolmi, in condizioni impossibili e con rischi enormi. Raggiunta la meta, molti tentano di approdare sulle coste italiane, attraversando un braccio di mare dove i naufragi sono frequenti (ai primi di dicembre è affondato un peschereccio con 120 africani a bordo). Circa 100.000 persone, per l’80% marocchini, tentano di attraversare ogni anno lo Stretto di Gibilterra; sulle sue sponde, tra il 1997 e il 2001 sono stati recuperati 3300 cadaveri; le stime danno la cifra di 10.000 morti nello stretto in cinque anni. Ai confini tra il Messico e la California un cartello riporta i nomi di 400 morti nel tentativo di attraversare la frontiera. Quando non possono fame, sete e sfinimento, a volte sono le armi delle guardie di confine a colpire. Solo nel 1998 sono stati abbattuti 89 clandestini lungo la frontiera più militarizzata del mondo [ Dati tratti da Le Monde Diplomatique di giugno 2002 (“Il miraggio di Shengen”), dicembre 1999 (“Una questione di frontiera”), settembre 2001 (“Viaggio ai margini della paura con i clandestini del Sahel”)].

Noi leggiamo in questi drammi un effetto del carattere antisociale e distruttivo del capitalismo, uno spreco di uomini in eccesso rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale, non episodi da piangere o condannare come frutto solo di responsabilità individuali. Le migrazioni moderne si collegano all’origine stessa del modo di produzione capitalistico e alla sua incessante evoluzione. Allo scioglimento dei seguiti feudali in Inghilterra, alla fine del XV sec., che “gettò sul mercato del lavoro una massa di proletari eslege”, seguirono tre secoli di progressiva espropriazione ed espulsione della popolazione dalle campagne, in un processo che, accompagnato da legislazioni brutali contro il vagabondaggio (1),si completò nel XVIII sec. con l’usurpazione delle terre comuni, le recinzioni, la scomparsa della classe degli yeoman. La crescita della grande industria fornì le macchine per la trasformazione capitalistica dell’agricoltura e le condizioni per l’espropriazione della stragrande maggioranza della popolazione rurale. Alla radice del modo di produzione capitalistico c’è dunque la riduzione di masse enormi alla condizione di nullatenenti, messi nella necessità di vendersi come forza lavoro, e la migrazione dalla campagna inglese alle città della nascente rivoluzione industriale, da cui ebbe origine il moderno proletariato d’industria, si pone come modello originario di tutte le migrazioni successive.

 L’eccedenza di popolazione nelle campagne fu effetto della violenza di classe, prima privata, poi legittimata dallo Stato che legiferava per accelerare i processi di espropriazione e di espulsione (es. le Bills of enclosures del XVII se.), e favoriva in tal modo l’affermazione dei nuovi rapporti di produzione capitalistici. Questa eccedenza, e la povertà che ne derivava, lungi dal costituire un male d’origine destinato a risolversi con la piena affermazione del nuovo modo di produzione, se ne rivelò un elemento strutturale e necessario. Diversamente dalle forme produttive precedenti, basate sulla riproduzione semplice e con una popolazione tendenzialmente stabile, il modo di produzione capitalistico genera sovrappopolazione perché ad esso è connaturato lo sviluppo incessante delle forze produttive (2). Contro quel “babbeo” di Malthus, per il quale la sovrappopolazione costituisce un fatto naturale e sovrastorico, Marx dimostra che la sovrappopolazione non solo è un rapporto storicamente determinato dalle condizioni di produzione, ma che “l’invenzione di lavoratori eccedenti, ossia di uomini senza proprietà che lavorano, appartiene all’era del capitale” (3). D’altra parte, proprio la tendenza del capitale a sviluppare le forze produttive e ad aumentare la produttività riduce progressivamente la quota di lavoro necessario in rapporto al pluslavoro, con il risultato di rendere superflua una parte crescente delle forze di lavoro.

 L’esistenza di una sovrappopolazione relativa svolge per il capitale due funzioni irrinunciabili: tiene bassi i salari (“la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale”) e agisce come controtendenza alla legge della caduta del saggio del profitto. La grande disponibilità di manodopera a basso costo, infatti, rende vantaggiose anche le produzioni a bassa composizione organica, che fanno elevare il tasso medio di profitto (4).

Questa “popolazione in eccesso” “è una delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico” e nello stesso tempo ne rivela la contraddizione insuperabile: è la dimostrazione vivente che il capitale non può affermarsi e non può esistere senza generare costantemente povertà e bisogno (5).

Se è vero che laddove c’è “popolazione in eccesso” in proporzioni crescenti c’è capitalismo, ciò significa che nello stadio attuale la legge generale dell’accumulazione capitalistica agisce a scala planetaria. L’ esistenza di una sovrappopolazione mondiale è il risultato della mondializzazione dei rapporti capitalistici e della progressiva liquidazione ovunque delle forme tradizionali di produzione. All’incontrollabilità dei flussi finanziari, al movimento internazionale dei capitali in molteplici forme, corrisponde l’incontrollabilità dei flussi migratori; all’eccesso di capitale rispetto alle possibilità di valorizzazione corrisponde una sovrappopolazione eccedente le possibilità del capitale di offrire prospettive di esistenza decenti a una parte sempre più consistente dell’umanità.

 Fino agli anni Settanta – Ottanta i flussi migratori si erano verificati a scala nazionale o verso aree con carenza di manodopera in rapporto alle necessità di sistemi produttivi sviluppati che erano in grado di assorbire quei flussi e di assimilare nel tempo, anche se non senza conflitti, i nuovi arrivati. Nella fase attuale di sviluppo di questo modo di produzione la questione della sovrappolazione non si pone più a scala nazionale o internazionale, ma mondiale. I migranti del nuovo millennio, proprio perché parte di un proletariato mondiale in un sistema capitalistico mondiale, per la gran parte non vedranno realizzata la speranza di una integrazione nelle ricche metropoli, ma dovranno piegarsi ad una condizione di precarietà estrema che, oltretutto, riguarda settori crescenti dello stesso proletariato occidentale. Il capitale non ha più “terre promesse” da offrire.

Trattando delle varie forme di sovrappopolazione relativa, Marx scrive che chi emigra “in realtà non fa che seguire il capitale migrante”. Se il polo di attrazione dell’emigrante è dunque sempre il capitale, vicino o lontano che sia, in un’epoca in cui i capitali viaggiano liberamente per tutto il pianeta, alla ricerca delle migliori condizioni per la propria valorizzazione, non c’è da stupirsi che altrettanto avvenga per il fattore base della valorizzazione stessa: la forza lavoro. Ma il massiccio flusso migratorio verso le metropoli occidentali riflette anche la tendenza degli investimenti a rifluire verso le aree di origine e la fragilità dello sviluppo delle aree emergenti. In effetti, le illusioni sulle magnifiche sorti della globalizzazione sono cadute a partire dalla cosiddetta “crisi asiatica” del 1997, che si è poi estesa all’America Latina e alla Russia. Da allora “il capitale non fa che fuggire dalla periferia” (G.Soros, “La crisi del capitale globale”), i cosiddetti “paesi emergenti” non offrono più condizioni così favorevoli ai capitali in cerca affannosa di valorizzazione. Nemmeno il capitale trova più con facilità “terre promesse” dove impiantarsi con profitto, e se ne torna a casa.

Dal punto di vista delle necessità individuali, l’immigrato fugge dalla povertà, ma in una visione generale l’immigrazione non è un prodotto del sottosviluppo, cioè di società non ancora pienamente capitalistiche: il pauperismo e l’esistenza di una sovrappopolazione relativa sono figli dello stesso sviluppo capitalistico che genera in primo luogo migrazioni interne, l’abbandono delle campagne e l’inurbamento. Nel 2002 i tassi di crescita della popolazione urbana in Asia orientale sono stati dell’1,9%, in Asia meridionale del 3% (fonte ONU). Se le città del Terzo mondo esplodono, è perché nell’agricoltura sono in crisi le forme di produzione tradizionali, il capitale si è applicato alla terra, si è accentuato il divario di reddito tra città e campagna.

La spinta alla base degli attuali flussi migratori è data dagli stessi fattori alla base della mondializzazione dell’economia: le società multinazionali, le aree produttive rivolte all’esportazione create per attirare capitali internazionali, gli accordi di libero scambio, le stesse ricette di austerità del Fondo Monetario Internazionale. Nei Paesi del terzo mondo, gli incentivi allo sviluppo di un’agricoltura d’esportazione vanno a detrimento delle coltivazioni di sussistenza e trasformano i coltivatori indipendenti in salariati agricoli, proiettandoli in una dimensione produttiva internazionale; la creazione di manifatture e fabbriche di montaggio in Paesi a basso costo di manodopera attira flussi migratori verso le nuove aree produttive, dove l’immigrato entra in contatto con imprese occidentali. In alcuni Paesi dell’America Centrale questo tipo di operai, rurali e industriali, costituisce “la principale avanguardia dei futuri gruppi di emigranti” diretti in USA (“Ma perché emigrano?”, Le Monde Diplomatique, nov.2000).

Tipico, al riguardo, il caso dei “parchi industriali” nel Nord del Messico, ai confini con gli USA, uno spazio economico creato con gli accordi NAFTA, in regime di agevolazione fiscale, dove multinazionali americane, giapponesi e coreane hanno creato massicci insediamenti produttivi, soprattutto industrie di assemblaggio di televisori, le cosiddette “maquiladoras”, che impiegano un milione di dipendenti e che producono a costi dieci volte inferiori che in USA. La regione attira masse di diseredati da tutta l’America Centrale, dove la disoccupazione è costantemente in crescita (ogni anno in Messico scompaiono un milione di posti di lavoro). I salari sono bassi, i turni di dieci ore per sei giorni, non c’è attività sindacale. In caso di proteste la repressione è brutale, le fabbriche chiudono e si trasferiscono. La caratteristica principale di queste zone economiche è la provvisorietà, tanto del lavoro quanto del capitale. L’emigrante che trova lavoro qui, raramente si stabilizza e spesso tenta la via dell’ingresso illegale negli USA. Nonostante le severissime leggi antiimmigrazione entrate in vigore dal 1996 e la militarizzazione della frontiera , il passaggio illegale negli USA è sì rallentato, ma ancora massiccio (solo nel 1998 sono entrati clandestinamente 500.000 emigranti). Nel 2001 il Messico contava 100 milioni di abitanti più 35 milioni negli USA; tra questi 10 milioni di clandestini. ( Le Monde Diplomatique , dicembre 1999, “Una questione di frontiera”)

In Cina, dopo che lo Stato ha esercitato per decenni un controllo autoritario sui processi economici che ha frenato lo sviluppo del capitalismo nelle campagne, si stanno verificando grandiosi fenomeni di inurbamento, migrazioni interne le cui proporzioni sovrastano quelle del movimento di uomini che da Asia e Africa ha come meta l’ Europa. Non solo le grandi città costiere (Shanghai) attraggono capitali internazionali, ma anche città dell’interno come Chengdu, capitale del Sichuan (sud est della Cina) dalla metà degli anni ’80 sono meta di un vero esodo dalle campagne. Il Sichuan è stato il laboratorio delle riforme rurali promosse da Deng Xiao Ping per decollettivizzare le campagne e favorire il ritorno alla piccola proprietà famigliare. Da allora alla fine del decennio si calcola che tra i 50 e i 60 milioni di cinesi abbiano abbandonato la terra. Negli anni ’90 il fenomeno è continuato massicciamente e i tentativi del governo di controllarlo con la creazione di piccoli centri industriali che intercettassero l’afflusso della manodopera migrante verso i grandi centri non hanno dato grandi risultati. Oggi dagli 80 ai 100 milioni di cinesi sono coinvolti nell’esodo verso le città industriali, soprattutto costiere, e verso Pechino. La migrazione assume anche carattere stagionale o temporaneo, ma, a causa della crisi della piccola produzione rurale, porta sempre più spesso ad un inurbamento stabile. Nel 1980 la popolazione urbana era solo il 16%; oggi le stime danno un 30%, ma le proporzioni dell’inurbamento hanno dimensioni tali da sottrarsi al controllo e alle statistiche. Nella sola Shanghai, la vetrina del capitalismo cinese, dove grattacieli futuristici nascono come funghi, si contano tre milioni di immigrati, ma molti di più se si considerano quanti non si sono dichiarati alle autorità. Sottoposti ad un rigido controllo basato sui permessi temporanei di residenza, vivono in una sorta di apartheid, separati dai cittadini “legali”. Solo uno su dieci è così fortunato da ottenere un’occupazione stabile. Il fenomeno dell’inurbamento è destinato probabilmente ad assumere dimensioni incontrollabili in conseguenza dell’ingresso della Cina nel WTO. La concorrenza della produzione agricola estera provocherà la scomparsa di almeno 15 milioni di piccole imprese rurali a conduzione famigliare; la disoccupazione, che fino al 2000 cresceva soprattutto nelle città industriali, anche a causa dei milioni di licenziamenti nella funzione pubblica, è destinata ad espandersi a macchia d’olio nelle campagne. (Dati tratti da “Le Monde Diplomatique” dicembre 2000: L’impero celeste nella tana della tigre e Il prezzo da pagare).

Quanto si è detto per la Cina e per il Messico vale per qualsiasi area del mondo che attiri immigrazione: precarietà, bassi salari, alloggi di fortuna, lavori poco qualificati (agricoltura stagionale, fabbriche a bassa composizione organica, edilizia, ristorazione, servizi vari, commercio ambulante...) e controlli polizieschi sempre più severi. Probabilmente le lotte future del proletariato avranno come protagonisti proprio questi settori di classe, come già oggi avviene negli Usa, dove le grandi battaglie sindacali della fine del XX secolo non sono state condotte dagli operai metalmeccanici o dell’industria, ma da lavoratori delle pulizie e della ristorazione, che sono riuscite a strappare fondamentali conquiste sindacali (Il bianco non abita più qui, in “il manifesto” dell’1.11.2002 ).

Precarietà del lavoro e bassi salari sono i caratteri che Marx attribuisce a quella parte della sovrappopolazione relativa che egli chiama stagnante; essa costituisce per il capitale un inesauribile serbatoio di forza lavoro disponibile che cresce parallelamente al volume dell’accumulazione e “in proporzione partecipa all’aumento complessivo della classe operaia in misura maggiore che non gli altri suoi elementi” (6).

In generale, la forza lavoro mobile e precaria costituisce dunque sovrappopolazione relativa anche quando si trova temporaneamente occupata ed è il settore del proletariato che cresce proporzionalmente rispetto ai settori più “garantiti”. La tendenza si realizza con evidenza nelle trasformazioni che interessano ormai da anni il mercato del lavoro nelle metropoli del capitale. Secondo le statistiche ufficiali UE, l’incidenza del lavoro temporaneo sul totale è salita dal 12,8 del 1996 al 15% nel 2001; nello stesso periodo, gli impieghi temporanei hanno rappresentato il 45% dei nuovi posti di lavoro nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni , il 12% per la fascia tra i 25 e i 49 anni (Bollettino BCE, novembre 2002, pag.74- 75). Gli economisti della BCE, bontà loro, considerano la tendenza non abbastanza forte e consigliano “una regolamentazione sulla protezione del lavoro meno restrittiva, la flessibilità dell’orario di lavoro e l’aumento della mobilità del lavoro” (Bollettino BCE, marzo 2002, pag. 49).

 Con l’immigrazione aumenta l’esercito industriale di riserva in Paesi demograficamente declinanti, si rende disponibile manodopera più flessibile che si adatta a condizioni retributive e di lavoro considerate inaccettabili dal proletariato residente. Ciò esercita sul mercato del lavoro una pressione che spinge verso la diffusione di rapporti di lavoro precari e verso la riduzione dei salari. Tuttavia la borghesia è ben consapevole che gli equilibri sociali non possono reggere indefinitamente ad una simile tendenza. La ripresa della lotta di classe, quella vera, diventerebbe inevitabile. D’altra parte, per contrastare la caduta del saggio del profitto il capitale non può rinunciare all’immigrazione e alla disponibilità di forza lavoro a basso prezzo. Ecco allora le oscillazioni tra fasi di apertura, come all’inizio del nuovo secolo, quando un rapporto delle Nazioni Unite calcolava in 700 milioni il fabbisogno di immigrati nella vecchia Europa dal 2000 al 2050, 1,7 milioni ogni anno (“Dall’immigrazione zero alle quote”, Le Monde Diplomatique, novembre 2000), e fasi di irrigidimento, come quella attuale, di rafforzamento dei controlli e delle limitazioni. Alla politica il compito di escogitare realistiche mediazioni tra le contrastanti esigenze dell’economia e della gestione degli equilibri della società. L’obiettivo è quello di impedire il radicamento della nuova immigrazione, garantendo nello stesso tempo il suo sfruttamento economico. È l’ottica della separatezza dell’immigrato rispetto alla società ospite che abbiamo visto applicata in Cina, con i permessi di soggiorno temporanei, e nei parchi industriali ai confini tra Messico e USA, che permettono lo sfruttamento della manodopera immigrata senza consentirne l’ingresso nella cittadella metropolitana.

In Italia, la recente legge Bossi-Fini (7) ratifica la condizione provvisoria dell’immigrato, di cui si tollera la presenza fin tanto che può dimostrare di lavorare. Tutta la legislazione precedente si basava sul presupposto di un arruolamento di forza lavoro emigrante nei paesi d’origine, con la stipula di contratti di lavoro che avrebbero regolarizzato la posizione dell’immigrato per lo Stato ospite. Ma la merce forza-lavoro ha una particolare natura che la rende impaziente e non può essere congelata in attesa di giungere al consumatore finale. D’altra parte anche il capitale ha fretta e non può permettersi di assecondare meccanismi troppo lenti e selettivi. Ben vengano i clandestini, che hanno il vantaggio di essere più ricattabili e non sindacalizzati. La conseguenza di quella legislazione era che la maggioranza degli immigrati, almeno inizialmente, era clandestina. La logica della nuova legge è di consentire una permanenza dell’immigrato fin tanto che dura il contratto di lavoro (il 40% degli immigrati lavora con contratti a tempo determinato) e di ricacciarlo nell’illegalità qualora non provveda a rimpatriare alla scadenza del contratto stesso. Condizione, questa, che impone alla manodopera immigrata la precarietà, la sottopone alla discrezionalità del datore di lavoro per il rinnovo o la conferma del contratto, la rende solo un po’ meno ricattabile del clandestino occupato in nero. Senza contare che un ricambio frequente di manodopera evita all’azienda di dovere affrontare una classe operaia stabile e radicata.

Ad una regolarizzazione imposta dalla realtà del fenomeno si accompagna una intensificazione dei controlli e delle espulsioni in tutta Europa. A fine anno è stato chiuso il centro di accoglienza francese di Sangatte, sulla Manica, considerato un esempio di eccessiva permissività nei confronti dei clandestini, ed è stata rispedita a casa la gran parte dei suoi ospiti. L’immigrazione, a cui viene spesso associato il rischio terrorismo, è usata come pretesto per una crescente militarizzazione del territorio, un sempre più sofisticato trattamento dei dati personali, esteso anche alla popolazione residente. Questo aspetto è strettamente collegato non tanto allo spauracchio del terrorismo e alla demenziale teoria della “guerra di civiltà”, quanto alla coscienza della borghesia che l’immigrazione apre una breccia nelle mura difensive della roccaforte del capitale mondiale e la contamina delle contraddizioni esplosive che maturano nel pianeta.

L’immigrazione da Paesi esteri, particolarmente per i caratteri che assume oggi, rappresenta un aspetto della classica contraddizione tra il carattere mondiale del capitale e la natura nazionale della borghesia, ed è perciò che i tentativi di gestione e controllo dei movimenti migratori sono di corto respiro. La sanatoria della legge Bossi-Fini è la presa d’atto che gli arrivi non sono programmabili, se non in caso di accordi bilaterali per la fornitura di forza-lavoro ad alta qualifica. Il tentativo di controllare il flusso di immigrati in entrata e in uscita è altrettanto velleitario. Per quanto la normativa non preveda il radicamento dei migranti nella metropoli del capitale, saranno sempre più numerosi gli uomini e le donne che cercheranno di stabilirvisi in modo definitivo, reclamando sempre nuove sanatorie e regolarizzazioni. Già ora 35 milioni di messicani risiedono negli Stati Uniti, e su 70 milioni di abitanti del Maghreb, 10-15 milioni vivono in Europa… Rimane il fatto, come osservavamo all’inizio, che la società del capitale oggi non può offrire all’immigrato le prospettive di venti, trent’anni fa. Ma non può farlo per le stesse ragioni, interne alla evoluzione e al declino di questo modo di produzione, per le quali non può offrire prospettive decenti al proletariato occidentale. Flessibilità e mobilità del lavoro, bassi salari, incertezza sul futuro legano sempre più strettamente i settori fino ad oggi separati del proletariato mondiale, e questo aspetto del “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti” è fattore potenzialmente rivoluzionario.

Scrivendo a proposito dell’emigrazione irlandese in Inghilterra, Engels descrive l’abbruttimento, la miseria di quegli immigrati ai tempi della rivoluzione industriale e la loro influenza negativa sulla condizione della classe operaia inglese, ne sottolinea la potenzialità rivoluzionaria che ne derivava: “da un lato essa degradò gli operai inglesi, li strappò alla loro civiltà e peggiorò la loro condizione; ma, d’altro lato, appunto perciò contribuì anche ad approfondire l’abisso tra operai e borghesia e ad affrettare così la crisi che si avvicina” (Engels: “La situazione della classe operaia in Inghilterra”).

Accogliamo a braccia aperte i nostri fratelli di classe da qualunque parte provengano, non solo per un sentimento istintivo di solidarietà, ma perché in essi vediamo rinnovarsi e avvicinarsi la prospettiva della rivoluzione sociale. Ci associamo dunque, anche se, ovviamente, con tutt’altre prospettive, all’appello dell’ “Economist” (8) ad “aprire le porte” agli immigrati, nella scientifica certezza che quanto più il capitale declama le sue leggi in tutti i settori della vita sociale, tanto più prepara la sua rovina. Ora che domina incontrastato su scala planetaria, non solo non ha più “terre promesse” da offrire, ma rendendo sempre più invivibile ogni angolo del mondo, costringe ovunque i diseredati a guardare ad altre prospettive di salvezza, e la sola prospettiva praticabile è l’abbattimento rivoluzionario di un modo di produzione storicamente marcio e il passaggio ad una forma sociale superiore.

 

Note

1. Marx, Il Capitale, I, “La cosiddetta accumulazione originaria”, Editori Riuniti, pag.781. “Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a suon di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato” (Marx, Il Capitale, I, cit., pag. 800 ).

2. Scrive Marx (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, II, p. 268 e segg. La Nuova Italia ed.): “È solo nella produzione basata sul capitale che il pauperismo si presenta come risultato del lavoro stesso, dello sviluppo della produttività del lavoro. Ad un certo stadio della produzione sociale può esserci perciò una sovrappopolazione che non esiste ad un altro stadio, e i suoi effetti possono essere diversi.[…] Poiché in tutte le precedenti forme di produzione lo sviluppo delle forze produttive non costituisce la base dell’appropriazione… lo sviluppo della popolazione deve presentarsi… come qualcosa da ostacolare. Le condizioni della comunità sono conciliabili soltanto con una determinata quantità di popolazione”. Ove tali condizioni si modifichino, “si modifica però anche il saggio di sovrappopolazione e di popolazione. La sovrappopolazione che si crea su una determinata base di produzione è perciò altrettanto determinata quanto la popolazione adeguata. Sovrappopolazione e popolazione, prese insieme, costituiscono la popolazione che una determinata base di produzione può generare” (p. 270).

3. Marx, Lineamenti, cit., pag. 273.

4. Affermazione non solo vera, ma quanto mai attuale. Ecco cosa scrive in proposito “Il Sole-24 ore” del 24 dicembre scorso: “Negli ultimi sette anni i salari sono cresciuti, in termini reali, meno della produttività, portando ad una significativa riduzione (attorno al 4%) del costo del lavoro per unità di prodotto. Di qui la propensione delle imprese a utilizzare tecnologie a più forte intensità di lavoro”.

5. Corsivi tratti dal Capitale, I, cit.,“La cosiddetta accumulazione originaria” e “La legge generale dell’accumulazione capitalistica”.

6. Il Capitale, I, cit. “La legge generale dell’accumulazione capitalistica”, pag. 704)).

7. Delle normative in Italia sul controllo dell’immigrazione ci siamo già occupati in un articolo precedente (n. 4, maggio 2002). Ci interessa qui riprendere la questione solo per sottolineare il modo contraddittorio con cui la società borghese e il suo Stato affrontano il fenomeno, stretti come sono tra la necessità del capitale di attingere ad una riserva di braccia a buon mercato e quella di gestirne socialmente gli effetti.

8. La rivista paladina del liberismo ammette volentieri eccezioni protezioniste al dogma della concorrenza pura quando si tratta di banane, acciaio, automobili, ma diventa intransigente quando si tratta della forza lavoro. L’articolista si limita a chiedere una qualche selezione che ammetta preferibilmente “immigranti utili al paese”, allo scopo di persuadere gli elettori che l’emigrazione “non è solo inevitabile, ma anche, a lungo termine, nel loro interesse”. È una conferma che nell’ottica degli interessi immediati del capitale – e il capitale non vede più in là - l’immigrato rappresenta una risorsa irrinunciabile. È lo Stato che deve sobbarcarsi la pegola di gestire il fenomeno evitando che, causa un eccesso di sovrapposizione relativa, si creino condizioni favorevoli ad una ripresa della lotta di classe (Opening the door, in “The Economist”, 2 novembre 2002).

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  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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