DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La lotta dei 49 operai dell’INNSE Presse (azienda metalmeccanica alla periferia di Milano) è sufficientemente nota perché ci si debba tornare ancora sopra con una cronaca dettagliata. Basti ricordare che ha voluto dire più di un anno di occupazione della fabbrica contro la minaccia di smantellamento e licenziamento, vari tentativi padronal-polizieschi di sottrarre i macchinari di nascosto, scontri con le forze dell’ordine accorse in tenuta anti-sommossa, e infine l’episodio – presto imitato e ampiamente coperto dai mezzi d’informazione – dei lavoratori saliti e rimasti sul carroponte giorni e notti, fino alla firma di un accordo con una nuova cordata di padroni.

Soprattutto, ha voluto dire una bella prova di compattezza e solidarietà, di decisione e abnegazione, da parte dei 49 lavoratori, che va salutata con entusiasmo, a dimostrazione che – nonostante tutto quel che da decenni avvoltoi di ogni genere (politici e sindacalisti, giornalisti e sociologi, poliziotti e giuslavoristi) dicono e fanno ai danni della classe operaia – , essa non è né scomparsa, né integrata, né tanto meno si sente... in paradiso. La coincidenza, non casuale, con episodi (diversi per entità, ma analoghi per significato) come quelli avvenuti in Francia e Belgio (i ripetuti sequestri di manager, la minaccia di far saltare una fabbrica in caso di licenziamenti) e in Cina (l’autentica rivolta di un migliaio di operai metallurgici, culminata nell’uccisione del direttore dell’acciaieria su cui incombeva la chiusura), dimostra che – di fronte ai colpi di una crisi economica che sta entrando in una fase sempre più acuta – i proletari, per quanto isolati e frazionati, imbrigliati e imbrogliati da decenni di pratiche riformiste e opportuniste, sviati da mille falsi amici, sanno ritrovare, per istinto di classe, la via della lotta. Noi comunisti non ne abbiamo mai dubitato.

Detto questo, va però detto anche altro.

E’ chiaro a tutti che la crisi economica spingerà miseria e disoccupazione verso valori mai riscontrati dalla fine della II guerra mondiale. Di conseguenza, dilaga come una pandemia la paura borghese dell’incendio sociale. Così, i media e le organizzazioni sindacali stanno abilmente montando la “psicosi dell’autunno caldo” (di cui non conoscono né la vera dimensione né i reali pericoli), allertando, se occorre, il Ministro degli Interni (che all’erta sta, come è ben noto!). Di certo, sotto la spinta della crisi, le reazioni proletarie non si faranno attendere, in Italia come negli altri paesi: ma dovranno fare i conti con decenni di abbandono e isolamento, durante i quali è stata letteralmente fiaccata la combattività operaia, distrutta la memoria di una tradizione di lotta ormai più che secolare, ribaltata la prassi dello scontro di classe annegandola nella melassa della conciliazione democratica. Da questo “grado zero” purtroppo bisogna ripartire, senza farsi illusioni di scorciatoie o salti di gradini: il fronte di classe va ricostituito mattone su mattone, ma sempre con lo sguardo ben fisso all’obiettivo finale – che non è la “salvaguardia dei diritti”, o una “più equa ridistribuzione della ricchezza”, o una “più diffusa giustizia sociale”, ma è la presa del potere e l’abbattimento di un modo di produzione ormai da due secoli superato dalla storia stessa e divenuto sanguinosamente distruttivo nella sua lunga agonia.

Si pone dunque il problema della ripresa classista. La lotta operaia tende a uscire talvolta dal puro economicismo per porsi su un livello più avanzato: ma di per sé, da sola, non può andare oltre la difesa delle condizioni di vita e di lavoro. Può usare i mezzi più duri (picchetti, blocchi, occupazioni, manifestazioni, anche scontri frontali): ma ben altra è la lotta politica, che ha come finalità il rovesciamento del potere della classe dominante. E infatti la borghesia ha paura della lotta economica solo quando essa tende a scavalcare i muri dell’azienda, a uscire dal suo ambito locale per diventare lotta generale, sciopero generale, scontro aperto con le istituzioni e la prassi democratica. E, per evitare questo sviluppo, essa utilizza da tempo l’opportunismo, il riformismo (delle cosiddette “sinistre”, politiche e sindacali), facendo loro giocare il ruolo di contenimento e di pompieraggio.

Per “mantenere il posto di lavoro”, per non mandare all’aria “la professionalità acquisita”,  per non doversi cercare “un’altra occupazione” in un momento critico come questo, i lavoratori dell’INNSE hanno occupato la fabbrica. Che potevano fare di più? Con queste premesse (“salvare l’azienda per salvare il posto di lavoro”), è stato inevitabile che tutti i falsi amici (i Rinaldini, i Cremaschi & Co.) si siano fatti avanti come pompieri e come crocerossine, per forgiare catene sempre più pesanti ai piedi di questi “irriducibili”, come li ha abilmente definiti la stampa, evocando i “fantasmi degli anni di piombo”: così, hanno elogiato il carattere etico-individuale della scelta e celebrato l’attaccamento feticistico all’azienda, minimizzando al contempo ogni volontà di estensione della lotta e insistendo sulla possibilità dell'autogestione. E poi: due ore di sciopero sindacale (roba da ridere!), un’interpellanza del PD al Ministro degli Interni con la richiesta di... “spiegazioni (?) sull’uso della forza” (!), un incontro con il Presidente della Regione (in vacanza!), la ricerca di nuovi candidati a svolgere il ruolo di padroni (magari di sinistra! magari ex-lavoratori metalmeccanici, così l’abbraccio fraterno è completo!)... In questo autentico nulla più nulla si riassume il dispiego delle forze di contenimento politiche e sindacali in difesa dei lavoratori: perché questa è la loro funzione.

Ma che altro si poteva fare?

Il limite più grosso di ogni lotta di difesa economica è la sua tendenza immediata (e, per i lavoratori coinvolti, istintiva) a chiudersi entro i limiti dell’azienda, della categoria, della località – a presidiare un perimetro noto e familiare. Ed è una tendenza che naturalmente viene alimentata e incoraggiata dall’opportunismo sindacal-politico: il quale sa bene, per esperienza storica, che finché i lavoratori se ne stanno chiusi dentro a quest’autentica gabbia il potere li tiene in pugno – basta solo attendere, perché tutto opera contro di loro. L’esperienza (ben più complessa e radicale) dell’occupazione delle fabbriche in Italia nel 1919-20 sta a dimostrarlo. E’ solo quando i lavoratori spezzano e si lasciano alle spalle queste catene, irrompendo nelle strade e nelle piazze, puntando sulle Camere del Lavoro (da rioccupare cacciandone a pedate e bastonate i traditori opportunisti, per tornare a farne veri luoghi di organizzazione della lotta sul territorio) e sui nodi nevralgici e simbolici del potere – è solo allora che la classe dominante ha davvero paura.

“Non ci fermeranno, continueremo a lottare fino alla fine, siamo pronti a compiere gesti estremi per difendere le nostre condizioni di vita e di lavoro”, hanno affermato con forza gli operai dell’INNSE. Ma la lotta di fabbrica non è tutto: a dare una direzione autenticamente di classe è invece la finalità non locale, non immediata, non fabbrichista. E, purtroppo, quella finalità era del tutto assente.

Oggi, con la crisi che incalza e le nere previsioni per l’autunno, esistono le condizioni per ampliare il fronte di lotta, spingendolo fino allo sciopero generale ad oltranza e a tempo indeterminato. Sono migliaia i lavoratori che si trovano (e sempre più si troveranno) nelle medesime condizioni: ma restano isolati dentro le proprie aziende, tenuti in cattività come bestie da circo. La Fiom-CGIL, con i suoi esperti mandati in avanscoperta, ha dato la santa benedizione alla resa, mobilitando i suoi scagnozzi e mettendo le transenne all’azione isolata dei 49 lavoratori. La solidarietà esterna (i telegrammi, le dichiarazioni, gli striscioni, le delegazioni) non ha alcun significato reale, se non si trasforma in fattiva solidarietà di classe. La ragione della bassa tensione di solidarietà riscontrata in quelle settimane (e presa, come sempre, a pretesto per svuotare la lotta delle sue potenzialità) stava invece proprio in questa auto-reclusione, in questa separazione dal resto della classe.

A questa tendenza, immediata e istintiva, a chiudersi entro i limiti dell’azienda, della categoria, della località, va poi ad aggiungersi (spesso come sua logica conseguenza) un pericolo altrettanto grande: il mito disastroso dell’autogestione, cioè di voler dimostrare (a chi, poi?) di essere in grado di gestire l’azienda in proprio, anche senza un padrone, magari anche... meglio del padrone (privato o pubblico che sia). Un mito che ha anch’esso una storia lunga, dall’anarchismo ottocentesco fino ai giorni nostri (ricordate l’ubriacatura spontaneista per le fabbriche autogestite dagli operai argentini, pochi anni or sono?). E che dimentica (o finge di dimenticare) che una fabbrica autogestita produce comunque per il mercato capitalistico; che, padrone o non padrone, si lavora comunque per il capitale; che, diventati “padroni diffusi”, “padroncini di se stessi”, si deve poi fare i conti con le leggi del profitto, della concorrenza, della produttività, ecc. ecc. In perfetta buona fede, non c’è dubbio, questo hanno fatto gli operai dell’INNSE: hanno salvato l’azienda per il capitale, per un nuovo padrone, ma né l’uno né l’altro li ricompenserà. Così facendo, hanno finito per trascurare l’unica strategia che può essere vincente sul lungo periodo: quella dell’allargamento del fronte di lotta e della creazione di stabili organismi in grado di sostenere quella lotta anche nei momenti di riflusso.

Si dice: la lotta istruisce. Sì, la lotta istruisce più di quanto si possa credere: crea organizzazione, permette di ricostruire una memoria perduta. Ma, per non essere puro attivismo fine a se stesso, ha bisogno della sua finalità di classe. Che il titolare della proprietà rivendichi il diritto di vendita dell’intera massa dei mezzi di produzione (macchinari di grande pregio per la costruzione di altre macchine, che per anni e anni hanno schiacciato i lavoratori sotto l’imperio del profitto e dell’accumulazione di capitale e arricchito un’intera filiera di imprenditori, banche, piccoli e medi padroncini, ceti medi, intellettuali, avvocaticchi, sindacalisti e quaquaraquà), che il titolare speculi in questa transizione economica e che dal suo canto la speculazione edilizia cerchi di avventarsi sull’intera area, una volta risolto il problema, con la forza o con qualche compromesso, dove sta lo scandalo? La proprietà privata dei mezzi di produzione non è forse sacra per la borghesia? Che il compratore dei macchinari li destini poi al suo uso naturale o li invii alla rottamazione, è qualcosa di nuovo? Il film non è stato visto infinite volte? Eppure, ci sono degli imbecilli della cricca del gazzettume di sinistra e delle vecchie corporazioni sindacali (pompieri alla grande!) e delle più giovani parrocchie sindacali (senza idee, e non per caso, che chiacchierano a vuoto di “sindacato di classe”), che continuano a blaterare di “difesa della professionalità” e del “territorio”, di “fabbriche da salvare”, di “ autogestione”, di “difesa del reddito operaio”, quando sanno benissimo che la crisi è crisi di sovrapproduzione, crisi di valorizzazione di merci e di capitali, che il profitto si è ridotto all’osso e che ciò che si prospetta agli operai è un’epoca di lacrime e sangue. Questi venditori di fumo chiamano “professionalità” l’annientamento psicofisico dei lavoratori, chiamano “diritto al lavoro” la schiavitù salariata, fanno credere che le macchine producano profitto per... virtù propria (ma i più imbecilli sono quei “sinistri” caduti fuori del Parlamento, che agitano... la Costituzione e, comunisti a parole e nazionalisti nei fatti, avanzano la proposta della “gestione operaia dell’azienda” o della “nazionalizzazione piuttosto che la rottamazione”... per un posto nella cloaca parlamentare, che cosa non farebbero?).

A costo di passare per le solite Cassandre, noi comunisti diciamo agli operai dell’INNSE: Non illudetevi! I termini dell’accordo sono tali per cui nulla, assolutamente nulla, potrà impedire al nuovo padrone (sì, padrone, e non “ex operaio come loro”: e che oltre tutto controlla la vita e la morte di 1850 lavoratori sparsi nel mondo!) di fare marcia indietro su questo o su quel punto (cassa integrazione, licenziamenti, assunzioni parziali, delocalizzazione, ecc.), prendendo a pretesto la “congiuntura sfavorevole del mercato”, e magari condendo il tutto con le molte lacrime che mandano in brodo di giuggiole i giornalisti. I termini dell’accordo sono vuote parole, se non c’è un rapporto di forze favorevole a imporli. E questo rapporto di forze favorevole si può costruire solo attraverso la mobilitazione di altre categorie, attraverso il ricorso a metodi incisivi che colpiscano davvero la controparte e non risultino soltanto in un drammatico sacrificio personale, attraverso la creazione di un vero fronte proletario in grado di sostenere tutti gli aspetti di una vertenza (delle tante vertenze che sono già aperte e che si apriranno), prima, durante e dopo, e di esercitare una reale, costante vigilanza dei proletari.

Si può costruire, questo rapporto di forze favorevole, solo attraverso il ricorso non puramente retorico o demagogico all’arma dello sciopero generale, senza limiti di tempo e di spazio, ogni qualvolta un settore, una categoria, un gruppo di operai sia minacciato (“un’offesa a uno è un’offesa a tutti!”): la lotta implica organizzazione e direzione, e lo sciopero generale, per essere efficace, implica la messa in campo di quello che dovrà tornare a essere quell’esercito proletario che da troppo tempo – per l’azione congiunta dei suoi nemici e dei suoi falsi amici – manca dalla scena. Allora sì, le diverse forze si disporranno secondo il loro ruolo storico e dimostreranno da che parte stanno: e così, nei fatti piccoli e grandi della lotta, i proletari comprenderanno che non si tratta solo di vincere questa o quella battaglia, di strappare questa o quella concessione (vittorie e concessioni che sono sì possibili, ma che vengono presto svuotate e rimangiate), ma che è tutto un sistema sociale che va distrutto – quello del profitto, della concorrenza, della guerra... in una parola, del modo di produzione capitalistico in quanto tale.

E comprenderanno anche la necessità vitale e irrinunciabile del partito rivoluzionario, l’unica forza in grado di dirigerli verso quello sbocco, preparando nel presente di lotte anche parziali, anche di difesa, le condizioni per il futuro.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2009)

 

 

 

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