DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

 

Il nome “neoliberismo”, con cui si è circoscritta una politica economica della borghesia a partire dalla fine degli anni settanta del ‘900, non ha ovviamente nulla di nuovo. La pratica e l’ideologia, che hanno accompagnato l’ascesa e lo sviluppo del capitalismo e che finiranno per accompagnare la sua attuale fase finale di vecchiaia e morte, sono le stesse. Così si sono sempre espressi gli ideologi della classe dominante senza cambiare una virgola da parecchi secoli: “Il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio” [1].

Per smascherare la logora impalcatura della frase, basta sostituire al “benessere dell’uomo” quello della classe dominante, “all’individuo” il borghese, alla “struttura istituzionale” i rapporti di produzione borghesi e alla “liberazione delle risorse e delle capacità” lo sfruttamento fino all’annientamento della natura e del proletariato. Non basta. Il ruolo dello Stato borghese nell’ideologia neoliberista deve permettere che quei rapporti si conservino: “deve garantire la qualità e l’integrità del denaro, deve predisporre le strutture e le funzioni militari, difensive e poliziesche e legali necessarie per garantire il diritto alla proprietà privata e assicurare, ove necessario con la forza, il corretto funzionamento dei mercati […] Laddove i mercati non esistono (amministrazione del territorio, risorse idriche, assistenza sanitaria, sicurezza sociale, inquinamento ambientale) devono essere creati tramite l’intervento dello Stato. Al di là di questi compiti gli interventi dello Stato non dovrebbero avventurarsi, gli interventi nei mercati devono mantenersi sempre a un livello minimo…” [2].

Vecchia questione, come i comunisti rivoluzionari sanno. Nel “Discorso sulla questione del libero scambio”, Marx deride questo cosiddetto “trionfo della libertà” e scrive: “Per riassumere: nello stato attuale della società, che cosa è dunque il libero scambio? E’ la libertà del capitale. Quando avrete lasciato cadere quei pochi ostacoli nazionali che raffrenano ancora la marcia del capitale, non avrete fatto altro che dare via libera alla sua attività[3].

I liberoscambisti (neoliberisti, oggi, di destra e di sinistra) ci hanno rintronato le orecchie dicendo, come allora, che “l’impiego più vantaggioso del capitale farà scomparire l’antagonismo fra i capitalisti industriali e i lavoratori salariati”. Al contrario, scrive sempre Marx, “il risultato sarà che l’opposizione fra le due classi si delineerà più nettamente ancora. Ammettete per un momento che non vi siano più leggi sui cereali, più dogane, più dazi, che insomma siano interamente scomparse tutte le circostanze accessorie, cui l’operaio può ancora imputare la colpa della situazione miserevole, e avrete strappato altrettanti veli che attualmente coprono ai suoi occhi il vero nemico. Egli vedrà che il capitale divenuto libero non lo rende meno schiavo del capitale vessato dalle dogane. Signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta libertà. Libertà di chi? Non è la libertà di un singolo individuo di fronte ad un altro individuo. E’ la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore”. E continua: Abbiamo mostrato che cosa sia la fraternità che il libero scambio fa nascere fra le varie classi di una sola e medesima nazione. La fraternità che il libero scambio stabilirebbe fra le varie nazioni della terra non sarebbe molto più fraterna. Designare con il nome di fraternità universale [oggi, più di ieri, la civiltà, la “democrazia universale”, da esportare urbi et orbi con le armi, ndr] lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale, è un’idea che poteva avere origine solo in seno alla borghesia. Tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere all’interno di un paese si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato mondiale. […] Non crediate, signori, che facendo la critica della libertà commerciale abbiamo l’intenzione di difendere il sistema protezionistico. Si può essere nemici del regime costituzionale senza per questo essere amici dell’assolutismo. D’altronde, il sistema protezionista non è che un mezzo per impiantare presso un popolo la grande industria, ossia per farlo dipendere dal mercato mondiale, e dal momento che si dipende dal mercato mondiale, si dipende già più o meno dal libero scambio. Oltre a ciò, il sistema protezionista contribuisce a sviluppare la libera concorrenza all’interno di un paese. […] Ma in generale ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo tra borghesia e proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. E’ solamente in questo senso rivoluzionario, signori, che io voto per il libero scambio[4].

 

La falsa antitesi tra neoliberismo e statalismo

 

Uno stato confusionale coglie coloro che cercano di analizzare le differenze tra neoliberismo e statalismo. Le divergenze sistematiche non si trovano nemmeno a cercarle con i più potenti microscopi: anche il più tipico stato neoliberista è infetto di statalismo e quello “statalista”, per così dire, ha come suo dogma lo sviluppo “senza vincoli” del capitale. Uno stato neoliberista, si dice, creerebbe “le condizioni favorevoli all’attività economica o agli investimenti”, e in caso di conflitto del lavoro “si schiererebbe contro i diritti collettivi (e la qualità della vita) dei lavoratori”; inoltre, “gli stati neoliberisti tendono ad anteporre l’integrità del sistema finanziario e la solvibilità delle istituzioni finanziarie al benessere della popolazione o alla qualità dell’ambiente” [5]. Montagne di dati ci mostrerebbero che lo Stato “economista” ha saputo fare altrettanto. Poi, si scoprono pratiche di dominio pubblico che farebbero sobbalzare il più puro dei neoliberisti: i dazi doganali sull’acciaio di Bush, la riduzione delle quote alle importazioni straniere (quelle dei paesi più poveri), l’agricoltura europea e giapponese protetta per ragioni politiche e sociali, il sostegno statale al commercio delle armi, i crediti ingenti ad altri Stati per consentire l’accesso alle materie prime o per averne il consenso in aree strategiche, le spese in armamenti per sostenere le guerre proprie e per interposta attività statale... Dunque? Allora, disinvoltamente, per rimediare si torna a ribattere il chiodo sul “capitalismo renano” e su quello “svedese”, in cui sarebbero sottratti al mercato settori chiave dell’economia come l’assistenza sanitaria, l’istruzione, l’edilizia pubblica ecc., settori tradizionalmente in mano allo Stato borghese fin dalla sua nascita; oppure si torna a cianciare dei programmi keynesiani del capitalismo anglosassone, in cui lo Stato dovrebbe “porsi come obiettivi la piena occupazione, la crescita economica dei cittadini, e […] agire liberamente accanto ai meccanismi del mercato, se necessario addirittura sostituendosi ad essi, al fine di conseguire tali obiettivi” [6] – da cui il benessere e il consenso sociale (“dalla culla alla bara”), lasciando “libero campo al libero mercato” di esercitare l’accumulazione pura del capitale: lasciandolo, cioè, fuori da un ambito troppo complesso da gestire.

Una divisione del lavoro consensuale, dunque, tra politica ed economia, e due modi di essere del Capitale? In realtà, una leggenda. E tuttavia ci si scrivono sopra interi trattati: la transizione sarebbe avvenuta a cavallo degli anni settanta-ottanta con la Thatcher, con Reagan, con Teng Hsiao-ping, e con Volker a guida della Federal Reserve...

Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’economia, ci conferma quanto il capitalismo sfugga alle ideologie, che esso stesso diffonde, e come accechi i suoi stessi portabandiera. Il costo della guerra in Irak complessivamente, scrive, “si aggirerà attorno ai 3.000 miliardi di dollari, mentre il costo per il resto del mondo sarà pari a circa il doppio.[…] l’America pagherà il conto per diversi decenni […] Il rischio non è che mille, duemila o tremila miliardi di dollari ci mandino in bancarotta. Il punto è un altro: che cosa avremmo potuto fare con questi dollari? Che cosa abbiamo dovuto sacrificare?” Con i grani del rosario tra le dita, il grande economista (intransigente, dicono, contro il neoliberismo) ci manda a dire che “avremmo potuto sistemare i conti della previdenza sociale per i prossimi cinquanta anni. […] Con mille miliardi avremmo potuto costruire otto milioni di unità abitative, assumere 15 milioni di insegnanti nella scuola pubblica per un anno […], fornire l’assicurazione sanitaria a 530 milioni di bambini per un anno o ancora garantire a 43 milioni di studenti una borsa di studio quadriennale presso le università pubbliche” [7].

Quali pietose idiozie non si direbbero per salvare il capitalismo! Ci si rimanda al protezionismo di Roosevelt e all’autarchia produttiva e finanziaria, fascista e nazista. Ci si rinvia al battesimo di sangue proletario, da cui è sorta la socialdemocrazia di Weimar nel 1919 con la sua “ideologia del benessere” statalista fin dai tempi di Lassalle o ancora al Breviario Economico stalinista, libro cult per gli stakanovisti della “patria socialista” La centralizzazione dell’economia nelle mani delle istituzioni statali equivarrebbe alla “fascistizzazione della democrazia” e la travolgente avanzata della macchina schiacciasassi del libero mercato, in ogni angolo della terra e nel cuore delle stesse istituzioni, equivarrebbe invece alla “democratizzazione del fascismo”? Grande confusione regna sotto il cielo!

Marx serenamente ci ricorda che le forme del libero scambio sono “distruttive” e quelle stataliste “reazionarie” e non ha dubbi sulla forma migliore per accelerare la catastrofe rivoluzionaria: quella distruttiva del neoliberismo. Strano?

Come non ammirare allora i “favolosi trenta” anni del dopoguerra in epoca keynesiana: la guerra di Corea e quella del Vietnam sono ascrivibili al cosiddetto neoliberismo o allo statalismo? e quanto è valutato il “costo economico di quelle due guerre” che insieme hanno avuto una durata di quasi quindici anni? Il bilancio globale nella sola guerra del Vietnam fu di quasi 2 milioni di morti, di cui 55.000 americani. In confronto, la guerra irakena (quella neoliberista, dal 1991 ad oggi) fu una semplice passeggiata sui corpi di civili e militari (600.000 morti). La massima crescita del debito pubblico americano e la trasformazione degli Usa da creditore a debitore universale è un prodotto della transizione neoliberista, non della stagione precedente (all’insegna di... “burro e cannoni”). “Un debito ascrivibile ad armamenti, guerre, speculazioni finanziarie, delocalizzazioni, e non a programmi civili (sanità, pensioni, scuole)”, insiste il becero riformista, dimenticando che il massimo sforzo statalista (keynesiano) sostenuto negli Usa dal ’32 al ’58 metteva al primo posto la spesa per gli armamenti e la guerra.

In realtà, la contrapposizione è falsa. Nessuna teoria guida la prassi economica borghese: si tratta di politiche economiche dettate dagli imperativi categorici del capitale – una miscela di provvedimenti e di comandi che presto o tardi si saldano alla dinamica capitalistica, perché è essa “a dettar legge”.

Politiche antioperaie sono state adottate nel neoliberismo, scrive disinvoltamente l’opportunismo d’ogni colore. Non mette in conto la repressione operaia in tutta Europa nell’immediato secondo dopoguerra in nome delle ricostruzioni nazionali, quando i ritmi di sviluppo a due cifre avrebbero consentito un possibile riformismo. Chi ha impedito ai braccianti, agli operai d’Europa, di spingere a fondo le rivendicazioni sugli orari, sui salari, mentre si apriva una nuova stagione di lotte negli anni sessanta e settanta, se non proprio gli adoratori politici e sindacali di mr. Keynes, in amorevole combutta con il socialismo nazionalborghese del “compagno” Stalin? In quegli anni, i movimenti di lotta, per quanto spontanei e confusi (e non certo l’“operaismo”!), hanno dovuto riconoscere, sulla propria pelle, nelle organizzazioni politiche (di sinistra) e nei sindacati (resistenziali), alcuni dei pilastri storici della conservazione sociale nel dopoguerra. Non è stata la Thatcher a inventare la repressione operaia (minatori, ferrovieri, ecc) in Gran Bretagna, come non è stato il solo Reagan a reprimere il movimento dei proletari (neri e bianchi) d’America.

La transizione dal nazionalcomunismo all’“economia socialista di mercato” cinese fu liberista o statalista? E la transizione dalla Russia sovietico-centralista a quella “democratico-mafiosa”, in quale “classificazione darwiniana” va messa? Si dice che, dagli anni ottanta in avanti, l’aumento della mobilità internazionale dei capitali, il passaggio dai cambi fissi a quelli fluttuanti, il passaggio dei prestiti da tassi fissi e di lungo periodo a tassi variabili e a breve, dipendenti dal mercato e offerti da banche private e non solo dagli istituti finanziari preposti, avrebbero, proprio loro!, imposto un nuovo carattere ai processi economico-finanziari: sarebbero stati i prodotti dell’ideologia neoliberista, del monetarismo, dunque, a cambiare lo scenario economico. Insomma, la variopinta spazzatura del credito avrebbe determinato una mutazione genetica nel capitalismo, non più statalista, ma finalmente libero di scorazzare per il mondo.

Per avallare la nascita di una nuova leva di reggitori dello Stato (Thatcher, Reagan, ecc) al comando dell’economia e della politica, con in testa “nuove idee di libertà”, ci si scorda bellamente della crisi economica di metà degli anni settanta. Per noi, essa, e solo essa, e la paura che il mondo borghese stesse per crollare tra stagnazione e inflazione, hanno spinto e indirizzato la regia sociale o il comitato d’affari della borghesia: il materiale ideologico di cui ci si è serviti era lo stesso vecchio ciarpame di sempre, messo alla rinfusa, ma sempre disponibile, nei magazzini stracolmi di sovrapproduzione.

Il neoliberismo e lo statalismo non sono due entità contrapposte, l’alternanza di due fasi del capitalismo. Carattere economico e carattere politico della gestione statale non sono separabili proprio perché è il Capitale a guidare le danze e non il maggiordomo di casa, lo Stato. Il Capitale, proprio in quanto il modo di produzione è sociale, è indifferente ai canovacci teatrali. Già quasi un secolo fa il carattere del capitalismo, forgiato nell’Ottocento, fu descritto da Lenin come imperialismo (nome preso in prestito dall’economista borghese Hobson, dopo averlo liberato da ogni possibile incrostazione ideologica nazionale e soggettiva).

 

Il capitalismo secondo Marx e la globalizzazione

 

Oggi, è la stessa paura per la crisi profonda che devasta le fondamenta dell’economia capitalistica (sovrapproduzione di merci e di capitali) a spingere la borghesia a cambiare livrea. Così, il neoliberismo lascia le sue cattedre rimettendole nelle mani delle nuove teste d’uovo, ipercritiche col senno di poi, che tuttavia non sanno da che parte cominciare: aspettano, com’è ovvio, che il Capitale indichi la via. “Neostatalismo”, cominciano a chiamarlo. Intanto, il paesaggio si fa spettrale: oltre alle banche, crolla l’economia reale, crolla quell’industria dell’auto che ha visto gli Usa dominare ogni angolo del mondo, mentre la disoccupazione cresce verticalmente. E lo Stato borghese, divenuto tipografo, seduto su una montagna di debiti, ricomincia a stampare cedole di carta senza valore, dopo aver permesso che le banche e le aziende ingoiassero masse tossiche di credito, di cui nessuno aveva letto le “istruzioni per l’uso”, preparandosi, se funziona la ripresa dietro le tecnologie di guerra, a darci qualche altra levata inflazionistica. Ricomincia a stampare denaro, perché il valore di scambio e il valore d’uso delle sue industrie, che si vanno svuotando di proletari, stanno precipitando; e prende su di sé le spese di questa bancarotta chiedendo al proletariato di salvarlo. “Socialismo!”, gridano, presi dallo sconforto, i guru delle banche e gli speculatori. Nessuno può rassicurarli al momento: credono davvero di avanzare dietro il carro del funerale del libero mercato, guidato dal becchino proletario! Colpevole il neoliberismo? Suvvia!

La rassegna di economisti della cattedra e dei promotori finanziari che Il Sole - 24 ore chiama da alcuni mesi all’appello per farsi dire le cause del disastro è in realtà una batteria di polli che starnazzano, ancora dignitosamente, beccandosi ma non troppo, in attesa di sapere da che parte tira il vento. La causa di tutto sarebbe stata la “globalizzazione”, spiega uno: crollati gli ultimi statalismi dopo la caduta del Muro di Berlino in Russia e in Cina, in India e Giappone, allentata la vigilanza da parte della socialdemocrazia europea, il capitalismo anglosassone si è messo a rimorchio della manifattura asiatica, finendo dentro il crogiuolo dell’economia capitalistica asiatica potentemente in ascesa, pensando di trovarvi il nuovo Eldorado con il basso costo della manodopera, portandosi dietro in cambio la spazzatura monetaria, e indebitandosi fino al collo (2.000 miliardi di dollari). E la soluzione a tale debito? Allargare il mercato! Più debiti, dunque, più mercato, e per logica conseguenza il rovescio dialettico: più mercato ergo più Stato, e viceversa, scoprendo che Stato e mercato non si contrappongono, ma si rafforzano a vicenda sotto il diktat del Capitale. Ardentemente hanno voluto allargarlo, il mercato, e così pure la circolazione di merci, di capitali e di proletari, per poi scoprire che hanno bisogno dello Stato: ma i due miliardi di proletari che in questi ultimi venti anni nei loro paesi asiatici sono entrati nel mondo dei senza riserve non sono riusciti a risvegliare il corpo senza vita dell’economia dei vecchi colonizzatori. Il plusvalore estorto alla manodopera cinese, indiana, africana, ha solo rallentato la “caduta della divinità capitalistica” (il saggio medio di profitto), e nello stesso tempo ha spinto sempre più all’insù l’accumulazione del capitale orientale. Non è bastata e non basterà tutta la spazzatura finanziaria a saldare il conto tra una vera produzione manifatturiera e il credito inesigibile. La forza economica occidentale è una tigre di carta: il “pugno di riso” dei salari asiatici crea profitto, mentre i redditi occidentali creano solo il gigantesco parassitismo (della ricchezza) e il piccolo parassitismo (del ceto medio) divenuto mucillagine, che va prosciugandosi nella palude in cui si è costituita.

I redditi del ceto medio, dell’aristocrazia operaia, e il riformismo forte, che si alimentano di carte di credito, di bancomat, di buoni del Tesoro, sotto la concorrenza dei bassi salari, hanno cominciato a franare; l’azione di smottamento dei salari verso il basso è andata avanti; le attività precarie, flessibili e disposte a tutto sono entrate in strade senza uscita. Ma meno salari e redditi avrebbero dovuto creare un effetto positivo sui profitti, e più profitti avrebbero dovuto consentire con costi di produzione sempre più bassi, per effetto dell’Asia in marcia, un rilancio straordinario dell’economia occidentale. E invece niente! Meno salari e redditi più bassi significa meno consumo, e allora tutti in prima fila a suggerire crediti in tutte le forme, nuovi strumenti finanziari e dunque nuovi debiti, nuovi mutui per le case… fino a scoppiare. Niente, il capitalismo occidentale, allo stato di sovrapproduzione, non si autoalimenta e crolla insieme al denaro fittizio che ha creato.

Globalizzazione, mondializzazione, neoliberismo, neostatalismo? Ecco lo scenario reale descritto da Marx (la trama è già lì dal 1857): “Una condizione della produzione basata sul capitale è la produzione di un circolo della circolazione continuamente allargato, o direttamente, oppure creando in esso più punti di produzione. Se dapprima la circolazione si presentava come grandezza fissa, qui essa si presenta come grandezza variabile, che si espande attraverso la produzione stessa. Per conseguenza, la circolazione si presenta essa stessa come un momento della produzione. Il capitale perciò, se per un verso ha la tendenza a creare perennemente più plusvalore, per l’altro ha la tendenza supplementare a creare più punti di scambio; ossia qui, dal punto di vista del plusvalore o del plusvalore assoluto, la tendenza ad attirare a sé, in via supplementare, maggior plusvalore; au fond, la tendenza a propagare la produzione basata sul capitale, o il modo di produzione a esso corrispondente. La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto stesso di capitale. Ogni limite si presenta qui come un ostacolo da superare.[…] D’altra parte la produzione di plusvalore relativo, ossia la produzione di plusvalore basata sull’aumento e sviluppo delle forze produttive, esige la produzione di nuovi consumi; esige cioè che il circolo del consumo nell’ambito della circolazione si allarghi allo stesso modo in cui precedentemente si allargava il circolo della produzione.[…] In virtù di questa sua tendenza, il capitale spinge a superare sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, la soddisfazione tradizionale, orgogliosamente ristretta, entro angusti limiti, dei bisogni esistenti, e la riproduzione del vecchio modo di vivere. Nei riguardi di tutto questo il capitale opera distruttivamente, attua una rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito.

“Ma dal fatto che il capitale pone ciascuno di questi limiti come un ostacolo e perciò idealmente lo ha superato, non ne deriva affatto che esso lo abbia superato realmente, e poiché ciascuno di tali ostacoli contraddice alla sua destinazione, la sua produzione si muove tra contraddizioni continuamente superate ma altrettanto continuamente poste. E c’è di più. L’universalità verso la quale esso tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livello del suo sviluppo faranno riconoscere nel capitale stesso l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono alla sua soppressione attraverso esso stesso”.[8]

Neostatalismo e neoliberismo sono solo sovrastrutture, e nient’altro, di una dinamica reale, quella economico-sociale del Capitale, la cui trama è scritta, come il suo finale, nella sua stessa natura: la sua nascita, il suo sviluppo, il suo invecchiamento provengono dal suo “programma genetico”, ma ad un dato momento della sua esistenza le sue forze sempre più deboli si convertiranno in “eccessi vitali parassitari”, da cui non potrà trarre alcun giovamento. E tuttavia la sua vita può essere artificialmente allungata o abbreviata dai suoi stessi becchini: che il proletariato si decida finalmente ad eseguire il testamento biologico del Capitale, come lo redasse Marx.

 

 

Note


 

 

1. D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Ed. Il Saggiatore, p.10.

2. Idem, pag 11.

3. K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, in Appendice a Lavoro salariato e capitale, Editori Riuniti, pag. 106

4. Idem, pp 106-108

5. D. Harvey, op. cit., p.85

6. Idem, p. 20

7. Stigliz-Bilmes, La guerra da 3000 miliardi di dollari, Ed Einaudi, p.XII-XIII

8. K. Marx , Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-58, Ed. La Nuova Italia, pp. 8-12.
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2009)

 

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