DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

 

Sezione VII
II – L'ACCUMULAZIONE ORIGINARIA O PRIMITIVA
 

43. Forme storiche della proprietà ed origini del capitale

Il denaro diviene capitale, il capitale produce plusvalore, questo diviene capitale addizionale, dunque il capitale si produce dal meccanismo stesso del capitalismo. Tuttavia perché questo facesse la sua comparsa nella storia un primo capitale ha dovuto formarsi in ambiente non capitalistico.

L'economia classica considerando il capitale come valore accumulato ossia prodotto di lavoro accumulato afferma che i primi capitali si formarono col lavoro e col risparmio dei loro possessori.

Ora se è vero che ogni valore sorge da lavoro umano, non è vero però che il valore prodotto dal lavoro resti nelle mani di chi ha lavorato. In generale nelle epoche storiche fin qui svoltesi il frutto del lavoro è stato sempre tolto dalle mani del lavoratore e la sua accumulazione da parte del proprio diretto artefice è sempre stata un caso affatto eccezionale.

Contro l'idillio che dovrebbe regnare nei manuali di economia, nella storia vera regna la conquista, la tirannia, la rapina, ossia la forza bruta.

L'esistenza di un potere statale e delle forme giuridiche, anche facendo astrazione dalle palesi ed occulte violazioni, non ha mai significato la garanzia che il prodotto rimanesse attribuito al produttore. Anzitutto epoche di convulsioni sociali e politiche costituiscono bruschi trapassi tra un regime legislativo e l'altro, e le guerre civili o nazionali rappresentano o comportano sempre vaste espropriazioni, ma escludendo pure queste parentesi al diritto nel senso storico come abbiamo escluso quelle nel senso personale (delinquenza), noi non riconosciamo affatto ai vari sistemi giuridici che hanno finora dominato il carattere di assicurare al produttore il pacifico godimento di tutto il frutto del lavoro.

Il diritto è garantito nella sua applicazione dalla forza materiale dello Stato. Noi non vediamo nello Stato il rappresentante imparziale di interessi collettivi, ma invece l'organo del dominio di una parte della società, ossia di una classe.

Per conseguenza il diritto è volta a volta la codificazione delle norme che valgono a far rispettare gl'interessi di quella classe. Esistono quindi lo Stato e la legge proprio quando una classe ha bisogno di esercitare sulle altre una continua pressione coattiva, e poiché alla base di tali rapporti stanno gli interessi economici, di realizzare appunto la sistematica espropriazione in parte più o meno larga delle energie produttive delle classi sottomesse. Stato e diritto, dunque, significano appunto un sistema che vale a trasmettere il frutto del lavoro dai lavoratori ai non lavoratori.

Per intendere la struttura sociale e le vicende politiche di una data epoca noi ci domandiamo quali sono le classi in contrasto, quale di esse detiene il potere ossia lo Stato, e prima ancora ci domandiamo quali rapporti o forme della proprietà stabilisce e conserva il sistema in vigore. A loro volta i rapporti di proprietà si spiegano analizzando le forze di produzione, ossia le risorse tecniche di cui il lavoro dispone e la sua organizzazione e ripartizione fra gli uomini. Le forze produttive sono in ogni epoca le risorse materiali e fisiche utilizzate e i gruppi di uomini adibiti al lavoro. Queste forze produttive sono contenute in un determinato schema di rapporti di proprietà di cui stanno a guardia la legge e la forza statale. Ma per complessi motivi, come il crescere delle popolazioni, il trasformarsi della tecnica produttiva, per effetto di nuove invenzioni, per l'aprirsi di vie di comunicazioni e così via si creano delle condizioni per cui le forze produttive, e, prima tra esse, la classe che fornisce il lavoro, vengono in urto con le vigenti forme di proprietà. Di qui un'epoca di rivoluzione sociale, con la lotta tra la classe che beneficiava del vecchio sistema ed una classe fino ad allora dominata, la infrazione delle forme di proprietà, cioè l'abbattimento dello Stato, e il sorgere di un nuovo Stato con un diritto diverso.

Ritornando al quesito della prima accumulazione capitalistica, è attraverso un'analisi di tal genere che ne va cercata la soluzione, e non già nell'ingenua e tendenziosa asserzione che il lavoro e l'astinenza crearono il capitale originario. Tuttavia sarà bene prima ricapitolare l'applicazione più elementare d quanto abbiamo detto alla storia della società.

Agli inizi dell'attività lavorativa e della vita economica e sociale gli uomini sono pochi, mentre la terra disponibile è vastissima. I popoli sono divisi in piccole tribù vaganti che esercitano un'agricoltura e pastorizia primitiva, coltivando in comune una zona di terra occupata sotto la direzione di un capo che è dapprima il padre di famiglia. La proprietà individuale e la divisione in classi non fanno ancora la loro apparizione in questo periodo di comunismo primitivo.

La mobilità stessa delle tribù comporta il loro incontro, l'estendersi delle risorse produttive e dei bisogni, i conflitti, e l'imprigionamento dei vinti. Appaiono caste militari e sacerdotali; attraverso un lungo processo che siamo ben lungi dal trattare passiamo all'epoca della schiavitù. Una classe di uomini viene obbligata a lavorare al servizio di altri, senza possibilità di rifiutarsi o allontanarsi, e può essere posseduta ed alienata come bene privato, essendo ormai avvenuta la suddivisione della terra, del bestiame e di ogni altro bene tra i membri della classe dominatrice, o uomini liberi.

Tuttavia nelle stesse società antiche non tutti gli uomini liberi sono proprietari di terre o di schiavi; solo una minoranza di essi finisce con l'avere tale proprietà da poter vivere senza fare nessun lavoro, gli altri sono possessori di poco suolo che coltivano con le proprie mani e senza schiavi, o sono piccoli artigiani che producono e vendono oggetti manufatti. A questa epoca la legge e con essa l'ideologia filosofica e morale giustificano lo sfruttamento del lavoro degli schiavi, la loro vendita e perfino la loro uccisione. La classe dei grandi proprietari (patriziato) detiene per lo più lo Stato, in lotta con la classe dei piccoli coltivatori ed artigiani (democrazia greca - plebe romana). Il fondamento della produzione resta l'agricoltura malgrado il diffondersi della navigazione e dei commerci e l'apparizione di possessori di denaro e perfino di un embrione di capitalismo.

Con le nuove condizioni succedute alla caduta dell'Impero Romano al cristianesimo e alla abolizione della schiavitù, la base della produzione resta quella agraria e la terra resta divisa a grandi proprietari feudali.

Gli antichi schiavi sono liberati agli effetti del diritto e della nuova morale cristiana e non possono essere venduti. Tuttavia sono trasformati in servi della gleba ossia in lavoratori agricoli che non possono abbandonare il luogo, mentre il signore feudale usufruisce in larga parte dei prodotti del loro lavoro. Scompaiono però in gran parte, ridotti anche essi a servi della gleba, i piccoli coltivatori liberi e soltanto alcuni nuclei di artigiani cittadini possono darsi un regime di relativa indipendenza dalla nobiltà feudale organizzandosi in corporazioni professionali nei cosiddetti comuni.

In questo quadro della società feudale la classe dominante è quella della nobiltà terriera, suoi alleati e suoi strumenti sono il clero, l'esercito e lo Stato monarchico assoluto (malgrado i conflitti che hanno condotto dal decentramento feudale primitivo alla formazione di grandi unità statali).

In queste varie forme sociali non solo non troviamo in vigore lo stesso diritto e la stessa ideologia morale, ma nemmeno potremmo stabilire alcuni principi giuridico-morali comuni a tutte che costituirebbero il preteso diritto naturale. Gli stessi rapporti fra gli uomini sono a volta protetti a volta condannati sia dalla legge scritta che dal senso morale. Adunque non rinveniamo in vigore il famoso principio che ad ognuno appartiene il prodotto del suo lavoro, principio che dovrebbe spiegare in maniera onesta e pacifica la prima accumulazione di capitale.

Quasi sempre troviamo il lavoratore posto in condizione di non poter disporre dei mezzi di produzione che adopera e del suo prodotto. Ne è separato per effetto della forza legale tanto lo schiavo antico che il servo della gleba medioevale che l'operaio moderno. Troviamo il lavoratore non separato da strumenti e prodotti solo nel comunismo primitivo e nell'artigianato delle varie epoche come nel piccolo coltivatore proprietario; il che non esclude che anche questi ceti sociali sotto forme varie di tributi, tasse, usura, diritti diversi non debbano cedere ad altri parte del proprio prodotto subendo una estorsione di plusvalore.
 

44. Condizioni per la formazione del capitalismo

È alla società feudale terriera che succede direttamente l'ordine capitalistico. Perché questo possa funzionare occorre che da una parte vi sia accumulazione di denaro (e questa condizione è realizzata da antico tempo nelle mani di proprietari terrieri, commercianti, usurai, finanzieri, negrieri, ecc.) e dall'altra parte che vi sia una massa di lavoratori separati dagli strumenti di produzione e quindi obbligati alla vendita della forza lavoro.

La chiave dell'accumulazione primitiva è dunque il movimento storico che ha creato questa separazione. L'ordine feudale la impediva doppiamente: con la servitù della gleba che vietava al contadino e ai suoi figli di lasciare il feudo di origine; col sistema corporativo che obbligava con regolamenti complicatissimi e apposite magistrature gli artigiani e i loro figli a lavorare in una determinata arte e in piccole botteghe con un limitato numero di garzoni apprendisti. Le leggi dello Stato feudale sancivano questa situazione ed impedivano il prorompere dell'economia capitalistica, vessando inoltre la nascente classe borghese, formata di commercianti e banchieri della città o da antichi contadini divenuti artigiani emancipandosi dalla servitù e creando nei "borghi" contrapposti al castello del signore piccoli opifici per la produzione di manufatti. Questa classe formò una ideologia rivoluzionaria che condannò i vincoli e le restrizioni feudali in nome di tutta una teoria filosofica sulla libertà e l'eguaglianza giuridica, ma questa campagna per la liberazione del popolo rappresenta solo l'equivalente ideologico della necessità economica di mettere a disposizione della produzione una massa di venditori "liberi" di forza lavoro. D'altra parte le esigenze produttive premevano in modo irresistibile per le intensificate comunicazioni mondiali, il cresciuto commercio ed il crescente bisogno di prodotti sempre più complessi del lavoro. I capitalisti imprenditori ebbero non solo a prendere il posto dei maestri d'arte corporativi ma altresì dei detentori feudali delle sorgenti di ricchezza; il loro avvento si presenta come il risultato di una lotta vittoriosa contro il potere dei signori e le sue esorbitanti prerogative, contro il regime corporativo e gli ostacoli che esso poneva al libero sviluppo della produzione e alla libera speculazione dell'uomo sull'uomo. I cavalieri dell'industria hanno soppiantato i cavalieri della spada, essi hanno vinto con mezzi altrettanto vili (il testo vuol dire: conducendo alla lotta rivoluzionaria le nascenti masse del proletariato inconsce che il tempo della democrazia e del regime rappresentativo politico significasse trionfo del regime libero sfruttamento dei salariati) di quelli cui si servì il liberto romano per farsi padrone del proprio signore (Cap. XXIV, 1). «Lo sviluppo che ci spiega la genesi del capitale e quella del salariato ha per punto di partenza il servaggio dei lavoratori; il progresso che compie consiste nel cambiare la forma della schiavitù, nel sostituire alla speculazione feudale la speculazione capitalistica».

Naturalmente vi è anche il progresso sostanziale di aver spezzato i vincoli che si opponevano all'introduzione del lavoro collettivo e avere introdotto un'alta divisione tecnica del lavoro.

La nostra critica butta da lato tutta l'apologia democratica della rivoluzione borghese, e questo ne è aspetto fondamentale; tuttavia negando la presentazione filosofica e giuridica di tale ideologia essa non nega il valore storico e il carattere rivoluzionario della introduzione del capitalismo, creatrice delle condizioni per gli ulteriore sviluppi. «Quantunque i primi passi della produzione capitalistica siano stati fatti fin dai secoli XIV e XV in alcune città del Mediterraneo, l'era capitalistica non data tuttavia che dal XVI secolo; ovunque essa nasce l'abolizione della servitù della gleba è da lungo tempo un fatto compiuto e il regime dei comuni è di già in piena decadenza».

In questo periodo ogni rivoluzione politica rispecchia l'avanzarsi del capitalismo. È una vittoria di questo ogni atto che espropria masse di piccoli produttori, siano essi artigiani o contadini.

Il processo assume aspetti. In generale l'abolizione della servitù della gleba permette la formazione di una diffusa piccola proprietà rurale. Ma il capitalismo ha bisogno che gli antichi servi feudali divengano non produttori indipendenti, bensì salariati, e quindi appoggia ogni misura che privi della terra i piccoli contadini.

In Italia il processo assume forme speciali. All'uscita dal medioevo l'Italia settentrionale e parte della centrale è all'avanguardia in fatto di tecnica produttiva (come di scienza e cultura). Il capitalismo non solo bancario e commerciale ma anche manifatturiero vi si sviluppa prima che altrove soprattutto a Firenze, Genova, Venezia, Pisa ecc. Il feudalesimo quindi vi scompare più presto e i servi della gleba sono attirati nelle fiorenti città. Gli artigiani maestri d'arte sono divenuti veri borghesi (popolo grasso) e i numerosi garzoni si trasformano in vere maestranze proletarie, tanto che la lotta fra le due classi suddette fa la sua apparizione (tumulto dei Ciompi ecc.). Poi le scoperte geografiche della fine del XV secolo cambiano completamente le correnti del mercato universale, le manifatture capitalistiche decadono, la classe borghese è fiaccata sul nascere, quella feudale manca di energie capaci di confluire in una creazione politica unitaria, i lavoratori rifluiscono nelle campagne ove si diffonde la piccola coltura, il paese cade in uno stato prolungato di marasma sociale e politico.
 
 

[Prometeo, n. 15, agosto 1949]

 

45. L'espropriazione dei contadini

Ben diverso è l'esempio dell'Inghilterra. Ivi la servitù della gleba scompare di fatto verso la fine del XIV secolo, la grande maggioranza della popolazione si trasforma in piccoli contadini indipendenti, benché il loro possesso giuridico della terra sia giustificato sotto vincoli feudali. Ai feudatari rimane bensì molta terra ma essi la gestiscono a mezzo di un fittavolo indipendente (in questo caso uno dei primi tipi di capitalisti a cui fanno da salariati gli antichi servi della gleba, parte giornalieri nullatenenti, parte piccoli proprietari cui rimane tempo libero dalla cultura del proprio terreno). Ma agli stessi giornalieri si concedevano in uso campi di quattro acri con una piccola casa rustica, inoltre costoro partecipavano al godimento di vasti beni di proprietà comunale e talvolta demaniale. Intanto prosperavano le città e si formava il capitalismo manifatturiero e industriale; questo aveva fame di braccia e non tardò ad ottenere. La rivoluzione politica fece del potere regio uno strumento borghese e la nuova borghesia fu alleata ad una nuova aristocrazia fondiaria (landlords) la quale, appoggiata in ciò dal capitalismo, intraprese la espropriazione dei piccoli coltivatori, riversando braccia nelle città. Con l'ausilio della legge i grandi proprietari rivendicavano gli antichi feudi, espellendone i contadini, e trasformandoli in aziende per l'allevamento dei montoni, cui bastava poco personale salariato. Successivamente i lords usurpavano anche immensi parchi di caccia ove prima erano terreni coltivati. Tutto ciò aveva per conseguenza la sparizione della piccola proprietà rurale e la trasformazione dei contadini in proletari. Nella parte montagnosa della Scozia si conservò lungamente il possesso in comune della terra (fino alla fine del XVIII secolo). Anche qui i signori, dapprima capi puramente nominali, con la complicità dello Stato borghese espropriano e scacciano i disgraziati montanari. La spoliazione dei beni della chiesa, l'alienazione fraudolenta dei domini dello Stato, il saccheggio dei terreni comunali, la trasformazione usurpatrice e terrorista della proprietà feudale e patriarcale in proprietà moderna e privata, la guerra alle capanne, ecco i processi idilliaci dell'accumulazione primitiva. Essi hanno conquistato la terra all'agricoltura capitalistica, incorporato il suolo al capitale ed abbandonato alla industria della città le docili braccia di un proletariato senza fuoco e senza tetto (cap. XXIII).

Momenti caratteristici dell'intervento dello Stato a favore della borghesia nascente, oltre alle misure espropriatici dei contadini, sono la legislazione ferocissima contro i mendicanti e vagabondi che non volessero darsi al lavoro, a base di torture, fustigazioni, marchi col ferro rovente e simili; e la legislazione sul salario che ne fissa un massimo vietando assolutamente le coalizioni operaie. Tutto questo processo si svolse in Inghilterra anche prima della rivoluzione politica borghese; i primi editti sono del 1350, le ultime leggi sul salario durano fino al 1813, le atroci leggi contro le coalizioni sindacali cadono nel 1825 ma qualche traccia ne resta fino al 1859; il riconoscimento legale delle "Trade Unions" è del 29 giugno 1871. Ma non è che a malincuore e sotto la minacciosa pressione delle masse che i due grandi partiti del parlamento inglese rinunciano alle leggi contro le coalizioni, dopo che il parlamento ha fatto esso stesso per ben cinque secoli l'ufficio di una Trade Unions di capitalisti contro gli operai.

(Cap. XXIV, 3).
 

46. Lotta per la "liberazione" dei lavoratori

In Francia troviamo ugualmente ferocissime leggi contro i vagabondi. Quivi è più lenta la sparizione dei diritti feudali, e molto tardi riesce a prepararsi una diffusa piccola proprietà rurale più resistente di quella inglese anche per le diversissime caratteristiche tecniche dell'agricoltura. Assai interessante però è notare come subito dopo la bufera rivoluzionaria che sembrava liberare con la borghesia anche il quarto stato proletario suo alleato, siano vietate le associazioni operaie. Una legge del 14 giugno 1791 punisce ogni accordo fra lavoratori allo scopo di migliorare le loro condizioni di ingaggio come «lesivo della libertà e della dichiarazione dei diritti dell'uomo». È chiara per noi la ragione di questa opposizione borghese all'associazione operaia; si tratta di permettere il libero giuoco della concorrenza per ottenere a minor prezzo la forza lavoro. Il relatore all'assemblea è coerente nel dire che le associazioni di persone della stessa professione «tendono a resuscitare le corporazioni abolite dalla rivoluzione» perché all'uno e all'altro caso, malgrado la profonda diversità storica del fenomeno, si tratta di vincoli alla libera incetta di braccia da parte del capitale. Nel quadro della teoria liberale il divieto dei sindacati operai non è meno a posto; lo Stato rappresentativo è l'unico organismo che comprende e tutela allo stesso titolo di eguaglianza tutti i cittadini. Ogni individuo gode della libertà rimanendo isolato di fronte soltanto al suo legame con lo Stato unitario. I privilegi di classe sono giuridicamente scomparsi; ogni associazione di membri dello stesso ceto sociale tende a formare uno Stato nello Stato, una casta nell'uguaglianza giuridica generale e deve essere vietata. In economia il liberalismo vuole il gioco illimitato dei singoli privati interessi; lo Stato tutela generalmente i contratti tra privati, ma non può tollerare azioni e contratti collettivi. Il decreto del 1791 viene infatti rispettato dal Terrore e dai Girondini, da Bonaparte e dalla restaurazione. Se in epoca assai tarda la democrazia parlamentare ha ceduto al riconoscimento dei sindacati, lo ha fatto contraddicendo alla sua dottrina pura, come vi contraddice tutta la legislazione di intervento statale nei rapporti economico-sociali. La contraddizione coi principi è conferma della inanità di questi, fatti per la "mobilitazione ideologica" delle masse che vanno illuse di essere libere e sovrane; contraddizione però non vi è con gli interessi e la politica di classe del capitale: nella prima epoca questo ha da temere solo la reazione e non ha freni per procurarsi le migliori condizioni economiche per l'accumulazione, ma in epoca successiva la formazione di una forte classe operaia pone al capitalismo il problema dei rapporti non solo economici ma anche politici col proletariato: malgrado che vietando le coalizioni si possa deprimere il salario e crescere il plusvalore e l'accumulazione, la classe capitalistica calcola che ciò può condurre più presto ad una lotta sociale in cui soccomba il principio stesso del plusvalore e dell'accumulazione; ed essa conviene perciò generalmente consentire i sindacati come prescrivere per legge alcuni sacrifici ai singoli capitalisti che rendano meno intollerabile il regime salariato.

Ma la grande rivoluzione democratica francese non fu meno coerente quando privò gli operai del diritto di associazione sindacale, di quando istituì la coscrizione militare obbligatoria; ciò malgrado il banale errore odierno per cui si considera la democrazia avanzata come antitesi della reazione antioperaia e del militarismo!
 

47. Genesi del capitalista agrario

Abbiamo esaminato le condizioni che permisero l'accumulazione primitiva con la formazione di una classe salariata. Vediamo ora come apparvero i primi capitalisti. In Inghilterra apparve prima il capitalista agrario, ossia il grande fittavolo, che il capitalista industriale; parliamo dunque del primo.

Una proprietà agricola può essere gestita in vari modi dal suo possessore giuridico. In regime schiavistico egli vi fa lavorare schiavi che sono sua proprietà; altra sua proprietà è la terra. Quelli sono diretti tecnicamente o da un altro schiavo o da un libero schiavo emancipato agli stipendi del padrone. In regime feudale la terra è lavorata dai servi della gleba, ma raramente il padrone si preoccupa di organizzare la gestione. Per lo più ogni famiglia di contadini ha un piccolo campo di cui passa al padrone una frazione del prodotto (decima); inoltre il padrone tiene per sé dei pezzi di terra migliore su cui i contadini sono obbligati a lavorare un certo tempo (comandata).

Avvenuta l'emancipazione dei servi della gleba divengono possibili diversi casi. L'amministrazione diretta o in economia è possibile allorché il proprietario non possiede la sola terra ma anche il capitale scorte (bestiame, sementi, concimi, attrezzi, più tardi macchine, ecc.) nonché un capitale in denaro per anticipare salari ai contadini giornalieri, ed essi sono diretti da un fattore stipendiato dal padrone. Questa fu la prima forma introdotta dai landlords inglesi, per quanto gli ex servi non fossero solo giornalieri ma dapprima anche piccoli proprietari ed usufruttuari di piccoli campi.

Ben presto, però, il fattore divenne mezzadro. La mezzadria, o meglio colonìa parziaria, è quella forma di gestione in cui il proprietario apporta la terra e parte del capitale mobile, il colono parziario apporta il resto delle scorte, fornisce il lavoro ingaggiando salariati ed infine il prodotto viene diviso in proporzioni convenute tra proprietario e colono. Qui parliamo della grande colonìa applicata a vaste tenute unitarie nelle quali il colono non lavora ma assume giornalieri, distinta dalla piccola colonia in cui la terra è sminuzzata, anche se trattasi di un unico grande possesso, in molte piccole aziende lavorate personalmente del colono e dalla sua famiglia.

I grossi coloni inglesi non tardarono ad arricchire man mano che impoverivano, per le ragioni già viste, i piccoli coltivatori indipendenti e i giornalieri prima possessori anch'essi di un po' di terra. Quindi si passò dalla colonìa parziaria alla vera e propria affittanza. L'affitto è quella forma di gestione in cui il proprietario non apporta che la terra e le costruzioni rurali; tutto il capitale mobile è del fittavolo e questi assume i lavoratori tenendo per suo conto tutto il prodotto. Egli paga al proprietario un affitto in denaro, quindi il suo reddito si suddivide in rendita fondiaria del proprietario e profitto capitalistico di esso imprenditore fittavolo. Va notato che tanto la rendita quanto il profitto dell'impresa sono parimenti sorti da pluslavoro diviso tra proprietario e capitalista in virtù di una alleanza di classe all'ombra dello Stato, negando noi che la terra nuda e non il lavoro possa essere fonte di ricchezza.

Distinguiamo anche qui tra grande e piccolo affitto. Questo secondo non ha carattere capitalistico trattandosi di piccole estensioni di terra lavorata direttamente dal piccolo fittavolo possessore di pochi e miseri strumenti produttivi analogamente all'artigiano, ma privo di terra. Notiamo che anche ad una tecnica agricola avanzata corrisponde la gestione unitaria di grandi tenute, trattasi di amministrazione diretta o di grande affitto secondo che coincidano o meno le personalità giuridiche del proprietario e del capitalista. Su queste basi può essere realizzato il lavoro in grandi masse, la divisione del lavoro, l'industrializzazione meccanica dell'agricoltura. Sono invece forme arretrate, in genere, la piccola proprietà (salvo il caso di terre eccezionalmente fertili per la piccola coltura) ed anche quando vi sia un grande possesso fondiario, la gestione di questo in più particelle condotte a piccoli affitti e piccole mezzadrie. Detto di passaggio, una situazione del secondo tipo era quella della grande proprietà russa dopo la emancipazione dei servi e la soppressione delle comunità patriarcali. In questi casi l'azienda piccola accompagna la grande proprietà: il trapasso alla grande azienda è compito di lungo progresso tecnico economico: lo svincolo giuridico della piccola azienda dallo sfruttamento della grande proprietà può essere un fatto immediato: in realtà la terra non viene spartita ma resta tecnicamente divisa come prima mentre almeno una forma di estorsione di pluslavoro (quello che era rendita fondiaria) viene subito soppressa.

Tornando all'Inghilterra, i primi grandi fittavoli rapidamente arricchirono, anche perché nel XVI secolo l'oro, l'argento e quindi il denaro diminuirono in valore, tutte le merci rincararono, ma i salari si rialzarono con molto ritardo. I contratti d'affitto essendo a lunghissima scadenza, il fittavolo vide crescere l'entrata per vendita dei prodotti, diminuire in realtà la spesa salari e diminuire l'affitto, sicché arricchì a danno dei salariati e dei proprietari.
 

[Prometeo, n. 14, febbraio 1950]

 

48. Genesi della produzione industriale

L'espropriazione dei piccoli coltivatori e la sostituzione ad essi di grandi aziende agricole non solo permise all'industria capitalistica nascente di trovare masse di salariati non provenienti dall'artigianato corporativo, ma inoltre pose a disposizione del processo di accumulazione primitiva i suoi elementi materiali ed economici; infatti, poiché il diminuito numero dei coltivatori non fece scemare la produzione di derrate agricole, in quanto compensato dal maggiore sfruttamento dei giornalieri, da perfezionamenti tecnici, dal maggiore rendimento del lavoro in grande, si rese disponibile una larga massa di sussistenze, ed una quantità di prodotti agricoli aventi carattere di materie prime per la industria (filatura e tessitura di lino, cotone, lana, ecc.) Dopo la espropriazione le materie gregge sono acquistate dal capitalista manifatturiero e con esse le sussistenze disponibili sotto forma di salari pagati agli operai ingaggiati. La trasformazione dell'agricoltura, dunque, non ha soltanto offerto e fornito la nuova classe proletaria e il nuovo capitalista fittavolo, ma altresì a posto a disposizione del neo-capitalista cittadino il suo capitale costante (materie prime da lavorare) e il suo capitale variabile (sussistenze). Questo non accade solo in Inghilterra ma anche in molte parti dell'Europa Centrale, come nella Vestfalia all'epoca di Federico II dove i contadini filatori di lino vennero espropriati del suolo, e se vollero avere il lino da lavorare e sussistenze da consumare dovettero passare nei grandi opifici manifatturieri come salariati. In altri termini l'espropriazione dei rurali determinando offerta di materie gregge e sussistenze crea al capitale il suo mercato interno di acquisto. Ma questa distruzione di ogni industria domestica agricola, non è completa alla epoca della manifattura, poiché questa lascia sempre certe lavorazioni iniziali a piccoli artigiani o a piccoli lavoratori parzialmente coltivatori sparsi per la campagna.

È solo la introduzione del macchinismo che estirpa definitivamente questa produzione primitiva e sparpagliata assorbendo tutte le operazioni della fabbrica e conquistando al capitale tutto il mercato interno dei manufatti.
 

49. Genesi del capitalista industriale

Veniamo ora al punto centrale: l'apparizione del primo capitalista industriale o di fabbrica (parlando propriamente è industriale anche il fittavolo).

Non negheremo che in alcuni casi il piccolo capitale iniziale siasi formato col frutto del lavoro accumulato di artigiani indipendenti ed anche di qualche operaio salariato; molto più spesso però diveniva capitalista il capo di corporazione o maestro d'arte che aveva naturalmente più mezzi leciti ed illeciti di mettere da parte denaro.

Essendo ormai disponibili i lavoratori da ingaggiare e le materie prime da acquistare, alla genesi del capitalista non occorreva altro che il possesso di una somma di denaro per le prime anticipazioni. Ora fin dalle epoche precedenti vi erano privati che disponevano di denaro accumulato in proporzioni ben più alte di quelle raggiungibili con i frutti del lavoro; esistevano cioè due specie di capitale non aventi ancora il carattere di quello industriale, ossia il capitale usurario e il capitale commerciale.

Abbiamo già detto che anche il beneficio realizzato da chi investe denaro nell'usura (intendendo con tal parola ogni prestito fruttifero) e nel commercio è sempre in misura più o meno diretta l'equivalente di un pluslavoro e quindi è un plusvalore. Tuttavia manca ancora la forma caratteristica della produzione capitalista ossia la compravendita diretta della forza lavoro, restando la produzione affidata a lavoratori non separati dallo strumento di produzione e dal prodotto. Costoro, non avendo abbastanza denaro per le anticipazioni della loro piccola lavorazione in materie prime ed altro, né per attendere il tempo e raggiungere il luogo più conveniente allo scambio del loro prodotto, devono cedere parte del loro utile all'accumulatore di denaro che fa per loro questi servizi; e cedendo il loro utile cedono parte del loro lavoro

Usuraio e commerciante disponevano dunque il denaro ma non potevano trasformarlo in capitale industriale per la costituzione feudale delle campagne e per quella corporativa delle città. Le vecchie società lottano contro il formarsi di capitali con le leggi severissime sull'usura e con la compagna morale a carico di chi vive di usura ed anche di mercanzia; è ritenuto più rispettabile del commerciante non solo il signore guerriero ma lo stesso avventuriero la cui figura confina con quella del brigante. Come sia gravemente colpita l'usura nel quadro etico della coscienza medioevale può dimostrarlo tra l'altro il posto che essa prende nel sistema dantesco delle pene. L'usura fa parte della violenza (benché il rapporto tra il prestatore di denaro e il pagatore di interessi appaia materialmente pacifico). Come il bestemmiatore è considerato violento contro natura perché spezza la legge della natura, insieme ad esso l'usuraio è chiamato violento contro l'arte ossia contro il lavoro umano perché spezza la legge morale secondo cui nessuno andrebbe privato di parte del frutto del suo lavoro. A noi non stupisce che la morale dantesca non veda lo stesso delitto della rendita del signore feudale e nemmeno mostri di sentire una pari indignazione contro lo schiavismo dell'antichità classica, benché lo ripudi in nome del principio cristiano. A quell'epoca storica appare moralmente ripugnante che il denaro frutti denaro a chi non lavora, fatto oggi che viene invece affermato conforme alla religione, alla natura, alla sana sociologia. E nei versi finali dell'11° canto dell'Inferno che Virgilio spiega a Dante l'indegnità dell'usuraio, invocando la Fisica di Aristotele secondo cui l'arte umana deve essere la fonte della vita (il lavoro fonte del valore) e la Genesi (guadagnerai il tuo pane col sudore della fronte) mentre l'usuriere altra via tiene e quindi offende la natura nella sua seguace, l'Arte (lavoro). È curioso che non offenda tutto ciò il ricco che ha ereditato i suoi beni e che anzi viene punito nel girone precedente quale violento in se stesso e nei suoi averi, se li ha dilapidati, anziché trasmetterli agli eredi. La contraddizione potrebbe essere spiegata teoricamente con qualche sottigliezza della scolastica, essa però, come abbiamo notato, è subito chiarita per il nostro metodo critico dalle circostanze storiche e sociali. La inalienabilità del patrimonio immobiliare è uno dei cardini del sistema feudale.

Cadute le barriere che impediscono al capitale usuraio e commerciale di ingaggiare forze di lavoro e divenire capitale moderno, continua la resistenza; gli artigiani chiedono che si vieti al mercante di divenire fabbricante; le nuove manifatture si costituiscono in centri nuovi e non nelle vecchie città rette dalle corporazioni, sorgendo nei porti di esportazione e talvolta entro una frontiera speciale fissata dal monarca.
 

50. I fattori dell'accumulazione originaria (o primitiva)

Dunque non il lavoro ma le antiche accumulazioni mercantili ed usuraie si spiegano sostanzialmente l'accumulazione primitiva. Quello che però le diede un formidabile impulso furono lo sfruttamento delle nuove terre scoperte e delle vie di comunicazione, la scoperta dei giacimenti di metalli preziosi, le conquiste e depredazioni delle Indie Orientali, la tratta dei negri e simili... poemi idilliaci. Iniziata appena l'epoca capitalistica scoppiano le grandi guerre per il predominio commerciale e coloniale e l'egemonia passa dal Portogallo, alla Spagna, all'Olanda, alla Francia, all'Inghilterra (la minaccia di una egemonia germanica o russa fu eliminata dalla guerra mondiale, ma altri formidabili concorrenti si levarono a contrastare il campo dell'Inghilterra: il Giappone e soprattutto gli Stati Uniti; la seconda guerra ha condotto questi la primo posto).

Vediamo i metodi dell'accumulazione primitiva già in pieno sviluppo tra le mani dell'Inghilterra al tempo della sua crociata contro la rivoluzione francese: tra essi sono il regime coloniale, il debito dello Stato, il moderno sistema bancario e il protezionismo doganale. Alcuni di questi metodi sono basati sull'uso della forza brutale, ma tutti senza eccezione si valgono del potere dello Stato, la forza concentrata ed organizzata della società (a beneficio della classe dominante) per precipitare violentemente il passaggio dall'ordine economico feudale all'ordine economico capitalistico ed abbreviare le fasi di transizione, nonché per contrastare l'opposta forza nascente della classe proletaria tendente a rovesciare l'ordine economico e statale capitalistico. Di vero, la forza è destinata a facilitare il cammino di tutte le vecchie società che sono sul punto di trasformarsi, la forza è un agente economico.

Interminabile sarebbe la storia delle atrocità consumate dai bianchi nelle colonie e dei mezzi con cui arricchivano le famose compagnie delle Indie ed i loro alti funzionari. È noto che cattolici e riformati negarono agli indigeni americana l'anima perché non mentovati della Bibbia. I coloni puritani e protestanti d'America misero a prezzo le capigliature scotennate degli Indiani; tutti conoscono i metodi di incetta, di trasporto e di utilizzazione degli schiavi negri, tutti ricordano la guerre dell'oppio e l'avvelenamento premeditato di intere popolazioni di antica civiltà a beneficio del capitale inglese.

Il regime coloniale dette grande sviluppo alla navigazione e al commercio e produsse le compagnie mercantili protette dai governi che favorivano l'accumulazione e concentrazione del capitale. La conquista delle colonie assicurò gli sbocchi ai prodotti delle nascenti manifatture, mentre i tesori estorti agli indigeni col lavoro forzato e tutti gli altri mezzi affluivano in Europa come capitali. Mentre oggi la supremazia industriale implica quella commerciale essendo concorrenza sui mari esteri libera da vincoli politici, in quell'epoca avveniva il contrario sicché la più potente nazione coloniale, l'Olanda (secolo XVII), fu quella che ebbe i più vasti capitali e corse innanzi sulla via dell'accumulazione.

Il credito pubblico, cioè il sistema per cui lo Stato si fa prestare denaro dai privati, corrispondendo loro un interesse, ebbe inizio nelle città commerciali italiane del medioevo. È naturale come tale sistema favorisca l'accumulazione in quanto piccoli e grandi capitali privati di natura usuraia o commerciale ed eccezionalmente risparmi di artigiani che non troverebbero altra via per produrre plusvalore, diventano capitali industriale nelle mani dello Stato che dispone di ben altri mezzi per ingaggiare salariati (lavori marittimi e portuari, arsenali, armamento di naviglio, opere pubbliche in genere, ecc. ecc.). Inoltre il debito pubblico rappresenta l'impronta capitalistica sullo Stato: il re di Francia è tuttora l'inviato di Dio e dispone della vita e della morte di ogni suddito ma deve temere pochi finanzieri e strozzini di Parigi, cui la legge nega il minimo privilegio. È naturale che i primi economisti borghesi levino al cielo il debito pubblico per l'impulso dato a tutte le forme capitalistiche; ha anticipato la creazione di vaste imprese che avrebbero dovuto attendere una lenta concentrazione, ha aperto la via alla società per azioni, al commerciante dei titoli negoziabili che pur rappresentando, sull'esempio delle cartelle del debito statale, ricevute di denaro prestato, circolano a loro volta come denaro. Poiché al credito pubblico fece seguito il credito privato.

Il sistema bancario prese nascita dal credito statale. La Banca è un istituto attraverso il quale i privati si prestano il loro capitale. Molte piccole somme di denaro non trovano imprese in cui investirsi, ed allora sono versate ad una banca. La banca disponendo di forti somme le presta a sua volta a pochi grandi imprenditori che hanno scarso capitale ma buone occasioni di trovare lavoro salariato e mercati di sbocco dei prodotti. Costoro passano al banchiere parte del plusvalore, questi a sua volta ne passa una parte minore ai vari depositari. La spartizione del plusvalore predato alla classe operaia in variabili proporzioni viene spiegata col maggiore o minore rischio che corre colui che ha anticipato. Lo Stato, secondo la teoria del rischio, offre grande sicurezza di restituzione e quindi paga interessi minimi, le grandi banche semistatali interessi più forti, le piccole banche interessi ancora maggiori, l'imprenditore, specie se poco provvisto di impianti di valore e lanciato in imprese nuove, pagherà a saggi fortissimi; infine lo strozzino cui mancano mezzi decenti e comodi per ritogliere il denaro alle sue vittime, esige tassi favolosi. In realtà tutti questi debiti sono frazioni del plusvalore uscito dallo scambio strozzinesco tra lavoro e salario. Il meccanismo però della banca e dei titoli fruttiferi a prezzi oscillanti sul mercato permette lo sviluppo della lotta speculativa tra i capitalisti per la rendita totale disponibile sulla produzione sociale.

Nelle lotte della speculazione l'arma decisiva essendo non tanto la mancanza di scrupolo che è a portata di ogni imbecille, quando la disponibilità di grandi masse di valori, tutto il fenomeno, oltre a spronare gli investimenti e l'accumulazione iniziale, favoriva grandemente l'alta concentrazione dei capitali.

Col debito pubblico e le banche nasce il credito internazionale, che permette l'accumulazione primitiva in nuovi paesi forniti di lavoratori disponibili ma mancanti di sussistenza, di materie prime, e del denaro per acquistarle altrove. Venezia prestò vaste somme all'Olanda, questa nella sua decadenza ne prestò all'Inghilterra; nel secolo XIX l'Inghilterra ne prestò agli Stati Uniti. Ma il capitale prestato riproducendosi progressivamente è presto in grado di rimborsare la prima anticipazione e rendersi autonomo. Dalla fine della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti sono creditori del mondo intero.

Il credito pubblico essendo basato sulle entrate statali con cui si devono pagare gli interessi, dette luogo al moderno sistema di imposte. Questo divenne un altro elemento formidabile della accumulazione primitiva sia rovinando fino alla espropriazione piccoli contadini ed artigiani, sia stornando dai consumi delle classi povere forti masse di valore trasmesse ai capitalisti prestanti allo Stato.

Abbiamo infine il sistema protezionista, mediante il quale una industria la cui formazione incontra difficoltà viene favorita dallo Stato in vari modi, colpendo con forti diritti doganali i prodotti analoghi fabbricati all'estero ed importati nel paese, in maniera da elevarne il prezzo all'interno permettendo ai fabbricanti nazionali più altro profitto, pagando premi di esportazione per i prodotti di quelle industrie inviati all'estero, talvolta vietando addirittura la importazione dei prodotti di altri paesi ecc. Esso «è il mezzo artificiale di fabbricare dei fabbricanti, di espropriare dei lavoratori indipendenti, di trasformare in capitale gli strumenti, e le condizioni materiali del lavoro, di accelerare a viva forza la transizione dal sistema tradizionale di produzione al sistema moderno» (cap. XXIV, 6).

L'accumulazione primitiva e la genesi del capitalista industriale prendono dunque gran forza dal debito pubblico e dalla fiscalità, del regime coloniale, dalla finanza bancaria, dal protezionismo. Talvolta i governi prestarono direttamente i capitali ai manifatturieri. Tutti questi fenomeni giganteggiarono all'epoca del nascere della grande industria. Questa si giovò pure senza ritegno della incetta dei fanciulli, una vera tratta di piccoli bianchi, parallela a quella dei negri. Con la pace di Utrecht l'Inghilterra si riservò il privilegio della tratta tra l'Africa e l'America Spagnuola; da questo commercio uscì la grandezza di Liverpool: «per questa città ortodossa il traffico di carne umana costituì il metodo specifico di accumulazione primitiva». «Ecco a quale prezzo abbiamo pagato le nostre conquiste, ecco quanto ci è voluto per sviluppare le leggi eterne e naturali della produzione capitalistica, per consumare il divorzio dell'operaio dalla condizioni di lavoro, per trasformare queste in capitale e la massa del popolo in salariati, in poveri che lavorano». «Se, il denaro, come dice Augier, viene al mondo con una voglia di sangue sulla guancia, il capitale trasuda sangue e fango da tutti i pori».
 

51. La teoria moderna della colonizzazione

(Questo capitolo XXV è preceduto dal XXIV, che però riassumeremo dopo, considerato il suo carattere conclusivo ed anche programmatico).

La situazione economica creatasi al capitalismo nelle colonie di prima occupazione è molto interessante – a parte uno studio completo del fenomeno dell'imperialismo – perché vale a mostrare una flagrante contraddizione dell'economia borghese. Questa nel definire la proprietà privata come originatasi dal lavoro, dal risparmio e dall'astinenza, confonde a bella posta la proprietà privata dei mezzi personali di lavoro con la proprietà capitalistica basata sul lavoro altrui. Fa comodo al teorico dell'economia borghese applicare alla società capitalistica gli stessi concetti di diritto, la stessa definizione della proprietà ereditati da una società pre-capitalistica. Abbiamo visto tutte le assurdità di questa maniera di vedere. Nelle colonie però la stessa economia borghese è costretta ad ammettere e ad invocare la distruzione violenta della piccola proprietà privata per far posto alla produzione capitalistica.

Dopo aver utilizzato le colonie come semplici depositi di tesori accumulati da depredare, come luoghi di acquisto di mercanzie richieste in Europa e soprattutto come mercato di sbocco dei manufatti della madrepatria, il capitalismo volle naturalmente trasportarvi le stesse macchine da plusvalore, i suoi stabilimenti industriali.

Il denaro capitale ormai non mancava per acquistare e trasformare sul posto strumenti di lavoro e magari materie prime e sussistenze: occorreva soltanto il lavoro salariato. Ma gli indigeni delle colonie o vivevano bene in base alla piccola produzione personale, o erano stati precedentemente fugati nell'interno o addirittura sterminati; quindi non era facile trasformarli in liberi salariati, quanto era stato facile ridurli a schiavi. Quanto ai coloni giunti dalla madrepatria, costoro trovavano dinanzi a sé immense estensioni di terra non occupata da utilizzare per l'agricoltura e spesso per l'industria estrattiva. Quando esiste terra libera ossia ve ne è un'offerta illimitata, ognuno ne ottiene quasi gratuitamente e per diritto di occupazione. Quindi la stessa legge "sacra e naturale" della offerta e della domanda che forza il nullatenente a vendere in Europa la sua forza lavoro, gli dà nelle colonie l'agio di procurarsi facilmente mezzi di lavoro per una libera azienda personale. Per di più nelle nascenti fattorie non vi fu soltanto lavoro agricolo e pastorizio, ma si esercitavano piccole industrie domestiche; il "farmer" americano si fabbricava da sé gli attrezzi, i mobili, la casa stessa. Il volenteroso capitalista restando operai e senza acquirenti poteva astenersi anche totalmente da ogni consumo, che non avrebbe accumulato lo stesso un soldo di plusvalore. Porge infinito sollazzo il caso dell'egregio signor Peel che portò seco dall'Inghilterra in America per 50.000 sterline di viveri e mezzi di produzione, e fu inoltre così accorto da condurre anche 3.000 membri della classe operaia tra uomini, donne fanciulli. Ma non solo il signor Peel non aprì alcun opificio, bensì fu crudelmente abbandonata da tutti, tanto che restò senza un domestico per fargli il letto o attingergli l'acqua. «Sventurato Peel che tutto aveva previsto! Solamente aveva dimenticato di esportare i rapporti di produzione inglesi».

Che cosa fanno i teorici della "naturalezza" del capitalismo? Essi fanno anzitutto l'apologia della schiavitù o lavoro forzato degli indigeni (tema fino a dopo la prima guerra mondiale di dibattito per la Società delle Nazioni ) poco curandosi di prendere così a calci la legge della libera offerta o domanda; e per quanto riguarda i coloni bianchì, non potendo osare di sostenere la schiavizzazione, danno un secondo calcio alla legge stessa col proporre che lo Stato ponga un prezzo fortissimo quanto artificiale alle concessioni di terra libera, così l'immigrante non potendo acquistarne sarà costretto a lavorare come salariato. Il governo inglese mise in atto questo piano per favorire l'accumulazione capitalistica nelle colonie: ma allora il flusso degli emigranti si volse agli Stati Uniti fino a tutto il secolo XIX insufficientemente popolati e ricchi di terra libera, verso l'ovest. Tuttavia, dopo aver forzato gli economisti borghesi a sconfessare se stessi, lo sviluppo capitalistico ha reso inutili le loro panacee.

L'accumulazione capitalistica in America, dalla guerra civile del 1866, che produsse un enorme debito statale, le imposte, la nascita della più vile aristocrazia finanziaria, fino alla guerra mondiale e al periodo successivo, raggiunse altezze vertiginose; gli Stati Uniti saturi di proletariato e minacciati da una immane disoccupazione presero a respingere gli immigranti asiatici ed europei. Dovendo ineluttabilmente rovesciare oltremare masse gigantesche di prodotti, e forse domani per motivi di politica interna una parte del pletorico esercito industriale di riserva che ivi sta formandosi, essendo giunti troppo tardi nella spartizione del dominio coloniale, tenteranno certamente di colonizzare l'Europa stessa rovesciandone l'apparato produttivo e provocando così un nuovo e più grande conflitto.

(Lasciamo immutato questo periodo conclusivo nella forma contenuta nelle stesura di questo riassunto, preparato da alcuni compagni a Ponza nell'anno 1929. N.d.R.).

 

CONCLUSIONE
 

52. Lo sbocco storico dell'accumulazione capitalistica

Abbiamo visto che ciò che caratterizza l'accumulazione primitiva, ossia la formazione storica del capitalismo, è la espropriazione del produttore immediato ossia del produttore che possiede tanto di mezzi produttivi da permettergli di svolgere il suo lavoro personale, e restar possessore dei prodotti, che scambierà per procurarsi quanto gli occorre.

Anche in questo forma si tratta di proprietà privata, ma è erroneo dire che il piccolo produttore abbia in proprietà un capitale. La proprietà privata capitalistica si ha soltanto quando i mezzi di produzione e i prodotti appartengono ai non lavoratori, e i veri lavoratori ne sono stati espropriati. Adunque, abbiamo due tipi distinti di proprietà privata: proprietà privata del lavoratore (epoca artigiana e contadina), proprietà privata del non lavoratore (epoca capitalistica).

La proprietà privata del lavoratore sui mezzi della sua attività produttiva corrisponde alla produzione per piccole aziende, ossia alla piccola impresa agricola o manifatturiera in cui il personale lavorativo, oltre il lavoratore libero, comprende la sua famiglia e al più qualche garzone apprendista. Tale stadio di produzione è primitivo, tuttavia ha la sua giustificazione nel corso dello sviluppo della tecnica, è giustificata la sua sostituzione alla proprietà collettiva preistorica, nella quale con un minimo di atti e procedimenti lavorativi si sfruttavano i prodotti quasi immediati della natura. Il sistema della piccola azienda «costituisce il vivaio della produzione sociale, la scuola in cui si elabora l'abilità manuale, l'ingegnosa destrezza e la libera individualità del lavoratore». Questo tipo di tecnica e di impresa può accompagnare diverse forme giuridiche della proprietà, e diversi tipi di società: lo si riscontra nella schiavitù (accanto cioè alla proprietà privata del non lavoratore sul suolo, sulla persona del lavoratore, sul prodotto) e nel regime feudale (accanto alla proprietà privata terriera e alla servitù della gleba) ma la sua forma vera e propria accompagna quel tipo di produzione in cui il lavoratore è libero proprietario delle condizioni di lavoro, ossia il contadino del suolo, l'artigiano dell'utensile. Tale regime di piccoli produttori indipendenti presuppone lo sminuzzamento del suolo e lo sparpagliamento degli altri mezzi di produzione. Dopo aver reso i suoi servigi, se si perpetuasse diverrebbe una forza contrastante l'ulteriore sviluppo, il quale si fa nel senso della concentrazione dei mezzi di produzione, con le più moderne risorse come la collaborazione di gran numero di industrie, la divisione del lavoro, il macchinismo, tutto ciò che consente a spingere al massimo la «sapiente dominazione dell'uomo sulla natura, il libero sviluppo delle potenze sociali del lavoro, l'accordo e l'unità nei fini, nei mezzi e negli sforzi dell'attività collettiva».

L'ordinamento, quindi, della piccola produzione diviene ad un certo punto incompatibile con le forze nuove suscitate dalle nuove possibilità e necessità tecniche nel seno della società. La sua eliminazione deve avvenire perché sia permessa la trasformazione dei mezzi produttivi sparpagliati in mezzi produttivi concentrati. Ma lo stadio ulteriore è ancora uno stadio di proprietà privata: una classe sociale profitterà dell'inevitabile concentramento della proprietà privata per farne il suo monopolio e basarvi il suo dominio. L'attuazione di tutto ciò costituisce l'accumulazione primitiva e la conseguente espropriazione violenta e crudele del popolo lavoratore, di cui abbiamo posto in evidenza l'atrocità. È in mezzo ad una vera tragedia sociale che la proprietà privata fondata sul lavoro personale viene soppiantata dalla proprietà capitalistica; che avviene il divorzio definitivo tra lavoro e proprietà. Questa tragedia espropriatrice forma la preistoria del Capitale.

Questo trapasso è per noi, ossia per i risultati della nostra indagine scientifica sul gioco delle forze economiche e sullo sviluppo storico della società, del tutto inevitabile; inoltre esso è una condizione indispensabile all'utile sviluppo della forza e della tecnica produttiva umana. Quindi il suo svolgimento è svolgimento rivoluzionario, e se esso dipendesse per assurda ipotesi dalla nostra approvazione e da quella di una pretesa "coscienza morale" non bisognerebbe negargliela. Annunziandone l'atrocità non ci siamo affatto contraddetti, ma abbiamo sbugiardate e demolite le tendenziose teorie apologetiche della proprietà capitalistica che, pretendendo di dimostrarla eterna, non si contentano di porre in evidenza la necessità storica della sua apparizione e il suo contributo alla liberazione di ulteriori prorompenti forze produttive, ma vogliono prospettarne la formazione come pacifica, idilliaca, giovevole e piacevole alle stesse masse umane coinvolte negli ingranaggi implacabili di quella vicenda.

Quanto al nostro metodo i giudizi morali non vi hanno parte, tanto più finché trattasi di stabilire le leggi oggettive di sviluppo della società. Di essi ci occuperemo agli effetti della distruzione di ideologie errate, e quando si tratterà di risolvere il problema dell'intervento consapevole e volontario di collettività umane (partiti) nelle fasi dello sviluppo; perché anche allora le determinanti programmatiche non saranno apportate da valutazioni di ordine morale. Trattandosi della indagine, noi la svolgiamo con un metodo che è quello di tutte le scienze moderne della natura da cui esulano i giudizi sentimentali dell'osservatore. Chiedendo a questi di dirci se e in che misura l'ossigeno favorisce la vita e l'anidride carbonica la distrugge, non ci interesserà nulla che un fatto o l'altro gli facciano piacere o gli arrechino contrarietà. Assodato positivamente che per attuare la concentrazione produttiva il capitalismo doveva straziare le moltitudini di piccoli produttori tal fatto resta da noi ugualmente accettato.

Ciò che però non possiamo lasciare passare nemmeno scientificamente è la pretesa capitalistica di avere apportato a quelle moltitudini delizia e benessere, limitandosi a tagliare soltanto alcune teste di despoti e signorotti. Tale asserzione urta più contro i fatti che contro presupposti morali; mentre vale a stabilire quale bassa base abbiano i presupposti morali del pensiero borghese e di ogni altro.
 

53. Quale sarà l'ulteriore sviluppo del capitalismo

Abbiamo così cercate ed esposte le leggi del funzionamento della produzione capitalistica e quelle della sua formazione storica. Ma quale sarà l'ulteriore sviluppo?

Non si può obiettare che il porre tale domanda esorbiti dal metodo rigorosamente scientifico: tutte le scienze dopo essersi posto il problema del funzionamento dell'universo e del suo processo evolutivo del passato, si pongono quello dello sviluppo avvenire; noi siamo dunque coerenti facendo altrettanto per la scienza della società umana.

Nel risolvere la questione di ciò che avverrà del tipo sociale di proprietà privata capitalistica, noi non partiamo a nostra volta da un processo preconcetto di carattere morale o finalistico, quale sarebbe la indefinita perfettibilità umana, il Progresso, il trionfo della Giustizia, della Eguaglianza, della Libertà. Tali parole prese per se stesse per noi non significano nulla, ben sapendo che esse hanno valore variabile secondo le epoche e le classi. Anzitutto non ci basiamo sul cammino già percorso dalla società per riconoscere le leggi effettive dello sviluppo. Inoltre la nostra ipotesi che la tecnica produttiva tenda a divenire sempre più efficiente e complessa, e si risolva in una organizzazione sempre migliore della lotta dell'umanità contro le difficoltà dell'ambiente naturale, non è per noi una verità misteriosa e assoluta né una intenzione incontrollabile o una aspirazione irresistibile del nostro sentimento. Essa è una conclusione scientifica con alto grado di probabilità sia perché i dati storici finora lo confermano, sia perché conducono ad essa le stesse leggi biologiche della adattabilità all'ambiente e della evoluzione della specie. Se la abbiamo chiamato soltanto una ipotesi è per fugare ogni residuo d'interpretazione mistica o idealistica, e perché le vicende della lotta dell'uomo contro la natura potrebbero essere lentamente o anche bruscamente invertite da fatti di ordine fisico contro cui la società umana mancherebbe di possibilità, come un mutamento di temperatura, umidità, composizione dell'atmosfera, una collisione di astri, ecc., fatti, però, assai poco probabili. Anche fattori d'ordine sociale potrebbero invertire la direzione dello sviluppo, come ad es. una guerra chimica che avvelenasse stabilmente vari strati dell'atmosfera terrestre e qualche cosa di simile (11). Supponendo però che tali imprevisti non si verifichino, si può basarsi sulla sicurezza del progresso produttivo, del complicarsi della tecnica, e con essa delle attività e dei bisogni umani. La nostra conclusione dunque sull'ulteriore avanzata degli sforzi umani contro le difficoltà naturali non abbisogna per reggersi di voli lirici o di apriorismi idealistici, né della fede in una missione della intelligenza umana (e tanto meno in una intelligenza sopraumana), senza di cui il mondo diverrebbe inutile ed impossibile!

Riprendiamo adunque il processo di trasformazione sociale. Decomposta da capo a fondo la vecchia società della piccola impresa, cambiati i produttori in proletari e le loro condizioni di lavoro in Capitale, la socializzazione del lavoro e la trasformazione ulteriore del suolo e degli altri attrezzi di produzione in strumenti socialmente gestiti si spingono sempre innanzi. Noi vediamo proseguire questa concentrazione sotto i nostri occhi grazie ancora ad una espropriazione. Non è più il piccolo produttore ad essere espropriato, ma sono i capitalisti più piccoli che sono espropriati dai grandi. La piccola azienda di una volta è sparita, ma le nuove aziende collettive divengono sempre troppo piccole rispetto alle risorse della tecnica e cedono il passo a nuove aziende più perfette e più grandi. Si sviluppano in proporzioni sempre crescente la applicazione della scienza ai mezzi tecnici nel senso di sempre maggiore collegamento tra i vari centri produttivi, tra le varie sfere di attività, tra i vari paesi del mondo. Macchinismo, telegrafia e radiotelegrafia, ferrovie, navigazione, aviazione, ecc. rendono sempre più necessaria tecnicamente la risoluzione dei problemi produttivi su scala non solo nazionale ma mondiale. Al perfezionamento tecnico ostava una volta la piccolezza delle aziende, oggi vi osta la loro autonomia privata, anche se sono aziende vaste e poderose. La sviluppo era ieri inceppato dalla proprietà privata personale, oggi lo e di nuovo dalla proprietà privata capitalistica.
 

54. Nuovo contrasto tra forze produttive e forme di proprietà - La rivoluzione proletaria

Le nuove necessità che sorgono nel seno del capitalismo creano nuove situazioni alle classi sociali e sviluppano così nuove forze mal rattenute dalle forme giuridiche della proprietà attuate dal potere del capitalistico sulle rovine dei precedenti regimi sociali e statali.

«A misura che diminuisce il numero dei magnati del capitale, che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione sociale, cresce la massa della miseria (12), dell'oppressione, della schiavitù, della degradazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più si ingrossa, ed è disciplinata, unita e organizzata dello stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico». I piccoli produttori vivevano isolati, erano rivali economici l'uno dell'altro. Gli stessi capitalisti pur ponendosi insieme alla testa della società sono l'uno rispetto all'altro implacabili concorrenti. A ragione essi dicono che la concorrenza è molla indispensabile alla produzione e solo dovrebbero aggiungere: alla produzione su base capitalistica. Quindi è difficile ai capitalisti fare a meno della concorrenza e identificare i loro interessi sociali su un piano mondiale. Ma i proletari vivono in grandi masse; la rivoluzione borghese li ha resi liberi ossia li ha forzati a correre di paese in paese e di continente in continente per trovare lavoro, la concorrenza tra essi si mostra all'evidenza come il danno di tutti: le condizioni materiali di tale classe (e non movente mistico) suscitano in essa un senso di solidarietà e di associazione su basi sempre più vaste. Non è un imperativo morale o il grido di un apostolo, ma il risultato diretto delle forze messe in moto dal capitalismo, che forma la spinta reale nel senso del grido programmatico: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!».

«Il monopolio del capitale diventa una pastoia per il modo di produzione che con esso e sotto di esso si è rigogliosamente sviluppato. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro giungono ad un punto tale, che il loro involucro capitalistico non li può più contenere. Esso viene infranto. È suonata l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati».

L'opera di Marx maturo, pretesa fredda critica descrittiva esteriore del mondo economico, chiude col grido che è invito alla guerra sociale, premessa sicura della vittoria rivoluzionaria.

Quale è l'aspetto economico di questo nuovo rivoluzionario contrasto tra le forze produttive e le forme di proprietà? È questo: il movimento generale tecnico-produttivo continua nel senso della socializzazione del lavoro e dell'accentramento dei suoi mezzi materiali. La espropriazione dei minori possessori privati continua pure e superando ogni limite nessuna proprietà privata è più conciliabile con le esigenze del nuovo vasto impianto sociale dell'attività produttiva. Un trapasso deve avvenire. La proprietà capitalistica e la formazione di plusvalore che la caratterizza dovettero sorgere per rendere possibile l'iniziarsi della socializzazione, ma devono sparire perché questa possa continuare. Però non si tratterà certo di ripetere alla rovescia il processo già avvenuto, non si avrà una controrivoluzione ma un'altra rivoluzione nei rapporti economici.

Il lavoratore fu privato dello strumento di lavoro personale e non ne diventerà più possessore isolato. Tuttavia il ricongiungimento tra il lavoratore e le condizioni di lavoro avverrà nel solo modo conciliabile con le trasformazioni della tecnica, ossia la collettività lavorativa acquisterà il controllo e la gestione dell'insieme dei mezzi di produzione e dell'insieme dei prodotti.

«La forma capitalistica di appropriazione sorta dal sistema di produzione capitalistica, e quindi la proprietà privata capitalistica, è la prima negazione della proprietà privata individuale che era fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera, con la necessità di un processo naturale, la sua stessa negazione. È la negazione della negazione. Essa ristabilisce di nuovo non la proprietà privata del lavoratore, ma la proprietà "individuale" sulla base delle acquisizioni suscitate dall'era capitalistica: ossia sulla base del lavoro collettivo e del possesso comune della terra e dei mezzi di produttivi dal lavoro stesso creati».

Questo penultimo capoverso dell'Opera richiama le classiche espressioni della dialettica, si collega a quanto Marx scrive nella seconda prefazione, del 1873, a proposito della dialettica hegeliana, di cui egli dichiara di avere già da trenta anni criticato il lato mistificante (non mistico, signori traduttori!) pur riconoscendo che Hegel per primo espose il metodo dialettico. Questo è da Marx capovolto; in Hegel poggiava sulla testa, il processo del pensiero creava la realtà; in Marx all'opposto «esso non è altro che il Materiale trasportato e tradotto nella testa dell'uomo». Su questo punto sarà pubblicata una breve appendice al presente lavoro col titolo "Il metodo dialettico di Marx".

Appare chiaro che la espressione di proprietà "individuale" riferita alla negazione della sua negazione, ossia al sistema di distribuzione collettivistica che succede al capitalismo, vuol dire che ciascun partecipe alla produzione sociale potrà partecipare al godimento dei prodotti sociali senza che s'interponga alcuna forza e diritto di privata altrui usurpazione, come già faceva nel suo piccolo cerchio privato il produttore indipendente, pei prodotti del personale suo lavoro.

E il Capitale chiude col richiamo del passo del Manifesto riguardante la funzione rivoluzionaria del proletariato, perché con questo collegamento volle l'autore ribadire la continuità costruttiva della sua dottrina dalle enunciazioni del 1847 fino al completamento della sua opera monumentale.

Luminosa evidenza questa, che resisterà nella storia del movimento ai ripetuti instancabili attentati della menzogna, dell'inganno, del tradimento.

«L'irrefrenabile progresso dell'industria di cui la borghesia è l'agente involontario sostituisce all'isolamento dei lavoratori nato dalla concorrenza la loro unione rivoluzionaria a mezzo dell'associazione. A misura che la grande industria si sviluppa la stessa base sulla quale la borghesia ha stabilito la sua produzione le sfugge di sotto i piedi.

«La borghesia produce dunque innanzi tutto i propri becchini. Il suo tramonto e il trionfo del proletariato sono del pari inevitabili».
 


Note:


 

 

 

(1) - È di particolare importanza trattare grandezze quantitative misurabili nella ricerca scientifica. Scopo d'ogni scienza è l'esposizione organica di un dato gruppo di fatti o fenomeni acquisiti alla nostra esperienza, in maniera da porre in evidenza le relazioni che costantemente corrono tra i fatti stessi. La esperienza scientifica di tale relazione dicesi legge. La forma più completa e soddisfacente di una legge scientifica è quella di una relazione tra quantità misurabili (formula matematica). Perché le grandezze siano misurabili occorre poterle riferire ad altre grandezze già note, e in tale riferimento sta in fondo la legge stessa. Esempio: si sa misurare lo spazio (lunghezza) in metri, il tempo in secondi, si misura la velocità prendendo per unità quella di un metro in un secondo; e si applica la legge velocità = spazio : tempo.
Alcune leggi traducono relazioni, corrispondenti alle esperienze, tra grandezze già tutte note, abbiamo allora una vera nuova scoperta; altre, come quella data in esempio, si riducono ad introdurre deduttivamente una nuova grandezza, e hanno valore di convenzioni teoriche; tuttavia la applicazione ai fenomeni delle loro conseguenze logiche deciderà della loro validità o meno. Non tutte quindi le convenzioni, che definiscono grandezze dando il modo di misurarle di riferirle ad altre, sono ad arbitrio possibili, ma, anche se dapprima assunte quali ipotesi, sono infine o confermate o respinte dall'applicazione ai fatti sperimentali. Così ad esempio colla ipotesi atomica si introduceva la nozione della grandezza "peso atomico" e mentre per lungo tempo si pensò che fosse un espediente di comodo per far quadrare le formole chimiche, gli studi ulteriori sui dati sperimentali permisero di accertare la reale esistenza degli atomi e di determinare il loro peso tanto assoluto come relativo a quello unità dell'idrogeno.
 Anticipando una conclusione che potrà far parte di ricerche sulla "teoria della conoscenza" nel sistema marxista, rileviamo anche che il trattare le entità su cui si indaga con misure numeriche e relazioni matematiche tra le loro misure quantitative conduce a rendere le nozioni e le relazioni e il loro possesso e maneggio meno individuali, più impersonali e valevoli collettivamente. Il puro apprezzamento qualitativo contenuto in giudizi e indagini comunicati in parole del linguaggio comune, serba l'impronta personale in quanto le parole e i loro rapporti assumono valore diverso ad a uomo a uomo secondo le precedenti tendenze e predisposizioni materiali emotive e conoscitive. Sono quindi personali e soggettivi tutti i giudizi e i principii morali estetici religiosi filosofici politici comunicati e diffusi a voce e per iscritto. I sistemi di cifre e le relazioni di simboli matematici (algoritmi) con cui hanno poca famigliarità anche molte persone che si affermano colte, tendono a stabilire risultati validi per tutti i ricercatori, o almeno trasferibili in campi più vasti senza che siano deformati facilmente da particolari interpretazioni.
Il passaggio, nella storia della società e delle sue conoscenze, non è certo semplice; è duro e difficile e non privo di ritorni e di errori, ma in questo senso si costituisce il metodo scientifico moderno.
Di alto interesse a tal uopo, a al fine di dare un valore oggettivo reale e materiale alla conoscenza umana, sarà l'esame di "algoritmi " moderni che hanno raggiunto tale potenza da lavorare e camminare "per conto loro" in certo senso fuori della coscienza e dell'intelligenza, e come vere "macchine" per conoscere. La loro scienza diviene non più fatto dell'io, ma fatto sociale. L'io teoretico, come quello economico e giuridico, deve essere infranto!
Volle Marx trattare con metodo scientifico anche i fatti economici umani, analogamente a quanto scienza e filosofia borghese avevano fatto per i fenomeni della natura fisica.
Non usò semplicemente un algoritmo perché pensava e lavorava, esponeva e combatteva al tempo stesso; ed oltre alle armi del tempo nuovo doveva e seppe usare quelle con cui resisteva il nemico: la polemica l'eloquenza l'invettiva il sarcasmo sotto di cui prostrò tante volte i contraddittori.
È nel fragore di questa battaglia che si è costruita la scienza nuova della società e della storia.
Ora è da superare un primo punto: per fare scienza del valore, piaccia e non piaccia agli economisti ideologisti e filosofanti, occorre introdurne una misura, come Galileo e Newton poterono fare scienza della gravità misurando masse accelerazioni e forze. La fecondità del nuovo metodo, pur dando soluzioni suscettibili di futuri più grandiosi sviluppi e non conducendo ad "assoluti veri" estranei alla scienza, sbaragliò e seppellì per sempre le impostazioni sbagliate del passato su tali problemi.
 

(2) - I titoli nell'opera originale sono invece: La produzione del plusvalore assoluto per la sezione III e La produzione del plusvalore relativo per la sezione IV.
    Le nuove dizioni rispondono al tentativo di rendere più chiari i concetti. Ma la chiarificazione non può andare a scapito del rigore, e quindi facciamo più uso di formulette matematiche che non l'originale. Non si tratta infatti non solo di fare afferrare le tesi di Marx con fatica minore, ma soprattutto di ristabilirne, in modo impugnabile dai falsificatori e dagli avversari, l'esatto significato. Nel testo solo con gran perizia si perviene a ben intendere quando si trattano scientificamente modelli necessariamente teoretici del fenomeno, e quando si viene ad ampie esposizioni storiche-narrative.
 

(3) - Tutta questa prima enunciazione della formazione del plusvalore, nell'opera di Marx, è fiancheggiata e ravvivata da una suggestiva descrizione del rapporto tra padrone ed operaio, attraverso una polemica che la economia ufficiale borghese e con i vacui concetti etici e giuridici che stanno a base delle presenti istituzioni, o meglio della apologetica di esse. Marx sottolinea passo per passo quali delle sue constatazioni e dei suoi postulati sono ritenuti pacifici in ammissioni degli economisti comuni, e dove stanno le insidie e i trucchi che li conducono ad evitare le sue rigorose e scientifiche conclusioni, per pregiudizio ed interesse di scuola e di classe.
Nei riferimenti storici Marx con efficacia incomparabile sottolinea le tesi, che ritroveremo in seguito e che sono essenziali nel marxismo, che non in tutte le epoche sociali è esistita la estorsione di plusvalore, in quanto essa manca nelle primitive comunità come nella produzione autonoma individuale e familiare del piccolo artigiano e del piccolo contadino proprietario libero, ossia non soggetto a decime e comandate. Si avvera all'opposto in diverse forme nella schiavitù, nella servitù feudale, nel salariato. Tali capisaldi preparano alla dimostrazione che il fatto del pluslavoro e del plusvalore e quindi dello sfruttamento, non essendo inseparabile da ogni tipo d'economia, come il teorico borghese pretende, potrà scomparire nell'economia futura.
Nella brillante critica di tipo etico giuridico, in cui l'autore dialetticamente e sottilmente finge di prendere sul serio le norme morali della filosofia borghese e quelle del diritto odierno, riducendole all'assurdo e al ridicolo, è mostrata la perfetta equità legale ed etica e cristiana di tutto quanto avviene sul mercato, con scambi in cui ciascuno vende al giusto prezzo ciò che gli compete di diritto, ed è infine svelata la "fregatura" coperta nel segreto del processo produttivo. Al fine di porre i materiali per il giudizio sulle sovrastrutture filosofiche religiose morali politiche del mondo capitalistico, è sottolineato in squarci possenti che due sono le condizioni perché il "gioco" della appropriazione del plusvalore sia possibile ogni volta che il capitalista viene in contatto col lavoratore, e si applichi su scala sempre più vasta nel processo storico. Esse consistono nella libertà del lavoratore, in doppio senso. Esso deve essere libero di alienare la propria forza di lavoro, e perciò deve essere spezzata dal nuovo diritto (per cui tutti i cittadini uguali innanzi alle legge) la servitù feudale che legava gli uomini alla terra, e l'ordinamento corporativo che li legava al mestiere e alla bottega; in secondo luogo deve essere liberato da ogni impaccio di possedere per suo conto strumenti di lavoro e piccoli approvvigionamenti di materie prime come quando era artigiano o contadino, e ciò attraverso la espropriazione iniziale dei piccoli produttori da cui è ferocemente nato il capitalismo.
Nel tempo stesso è mostrato che tale processo, per quanto infame, era necessario per condurre alle forme di produzione di maggiore intensità e rendimento imposte dai moderni mezzi tecnici. Ma tutta la acquisizione di questi elementi descrittivi e critici dell'attuale modo di produzione, e della via per cui si è attuato, serve di base alla tesi che i suoi lati attivi, come la applicazione delle scoperte scientifiche e del macchinismo, e il principio del lavoro associato e coordinato di un numero sempre maggiore di produttori, non sono inseparabili dalla estorsione di plusvalore e dal monopolio dei mezzi di produzione e di scambio da parte della classe capitalistica.
Lo studio dell'opera di Marx ed il suo uso come argomento e mezzo di propaganda e di lotta di classe e di partito può farsi dopo avere acquisito la linea centrale della indagine e della deduzione di cui abbiamo cercato di porgere lo schema, sia pure arido, ma chiaro, e seguendo poi lo sviluppo della "narrazione" di Marx, fermandosi a tutte quelle che paiono digressioni ma che sono sintesi e anticipi delle posizioni programmatiche e politiche dei comunisti.
Ciò a smentire l'assunzione idiota che il vero "spirito" del marxismo sia una fredda descrizione dei fenomeni economici del mondo sociale d'oggi guardandosi bene da arrischiare previsioni e propositi per rovesciarlo.
 

(4) - Non si trovi troppo arida questa successione di formulette. Essa vuole essere una dimostrazione della validità della legge generale del plusvalore data da Marx, nella rappresentazione dell'azienda economica di tipo capitalistico. Siamo qui alla fine della Sezione III che stabilisce la definizione di plusvalore. In fine della V e prima di passare alla trattazione dell'accumulazione del capitale, in un capitoletto riassuntivo sulle varie formule del plusvalore, Marx contrappone i due gruppi di formule che caratterizzano la economia classica borghese e la economia marxista (cap. XVI del testo originale).
Entrambe si fondano sull'ammissione che il valore sia dato dal lavoro. Ma presentato la cosa assai differentemente quando si tratta di rispondere alla domanda: quanta parte della giornata di lavoro l'operaio fa per sé, e quanta per il padrone dell'azienda?
In entrambi i casi possiamo parlare di lavoro necessario per la prima parte, che è quella retribuita in pieno, e di pluslavoro per la seconda parte (del tempo di lavoro) che è quella il cui equivalente fa a formare il profitto del possessore dell'azienda.
Secondo l'economista borghese e le formule sono:

 

 

Pluslavoro


Lavoro necessario

=

Plusvalore


Costo del prodotto

 

In altri termini quel rapporto riproduce ciò che la contabilità capitalistica chiama saggio del profitto, utile, dividendo e così via. La stessa frazione la troviamo scrivendo al numeratore il margine di guadagno su una data produzione, ossia l'eccedenza del prezzo realizzato sul costo totale, e al denominatore questo stesso costo.
Se un'automobile, poniamo, costa tra materie salarii usura macchine etc. etc. centomila, e si vende per 110.000, l'azienda guadagna il 10%. Si pretende allora che l'operaio sia stato sfruttato solo per il 10% del suo tempo di lavoro. Se ha lavorato 11 ore, per dieci ha riavuto l'intero ricavo, e per una sola ora ha lavorato per il capitalista.
La economia ufficiale moderna colle sue pretese di positiva esattezza ricalca sempre questa tesi e quindi nega la teoria del plusvalore di Marx trattandola come una brillante esercitazione polemica e non come scienza.
In questa, invece, le formule prendono ben altro andamento e sono (partendo dallo stesso rapporto iniziale):

 

 

Pluslavoro


Lavoro necessario

=

Plusvalore


Capitale variabile

=

Plusvalore


Spesa salari

 

Il grado di sfruttamento, ossia la quantità di lavoro non pagato, viene messo in rapporto all'intera spesa, ossia all'intero capitale anticipato, ma alla sola spesa per salari, detta da noi parte variabile del capitale totale.
La differenza tra le due accezioni è enorme. Quantitativamente, come Marx qui e altrove mostra, comporta che il saggio del plusvalore è molto più alto. Se in quell'automobile si sono spese per salarii, sulle centomila, solo ventimila, il saggio sale dal 10% al 50% essendo dato dal rapporto del profitto di 10.000 al capitale variabile di 20.000. Un terzo della giornata non è pagato. Vi sono esempi, come uno tratto dall'agricoltura inglese dell'epoca, di saggi del 300%.
Qualitativamente poi la formula dell'economia corrente si presta a mostrare il rapporto tra salariato e capitalista come forma di libera associazione, mentre la legge marxista ne dimostra il fondamentale carattere antagonistico.

Abbiamo voluto col nostro calcoletto sulla riunione di due aziende dimostrare come la istituzione del rapporto quantitativo tra plusvalore e capitale salario non è un arbitrio di scuola, ma è la sola che può rendere ragione del fenomeno studiato, in quanto quello, che nel singolo ciclo appare come capitale costante nelle mani del proprietario di azienda, non è che il prodotto accumulato di precedenti capitali salarii che hanno dato luogo ad altre precedenti plusvalenze da lavoro non retribuito.
Il trucco e la tendenziosità sono dunque proprio nella normale presentazione dei bilanci delle aziende produttive (anche non private) accettati come evidenti e fedeli dalla economia accademica e dalla legalità borghese.
 

(5) - Poiché il plusvalore accumulato diviene nuovo capitale, ed il plusvalore sorge da capitale investito in lavoro, vi è un limite alla accumulazione dato dalla potenzialità di tutta la popolazione lavoratrice, che tende a salire col numero degli abitanti della terra, la parte di essa in cui è diffusa la "civiltà" capitalistica, e la proporzione di proletari sui cittadini data dalla progressiva espropriazione delle classi medie.
Ma non può sembrare che l'enorme massa dei capitali costanti, ossia capitali dati da impianti e da riserve di merci (prodotti), sia nel mondo moderno cresciuta in modo più imponente ancora della massa di giornate lavorative a disposizione? E ciò non contraddice alla costruzione marxista?
Non vogliamo ora rispondere certo ad un tale quesito, dovendosi prima esporre ad intendere tutta la dottrina dell'accumulazione (sezione VII) e oltre ancora la dottrina della scuola marxista sull'imperialismo.
Ma è interessante considerare come una soluzione "conservatrice", che cioè prolunghi i tempi del ciclo capitalistico, consiste nella "distruzione" del capitale costante prodotto, ossia impianti e scorte, e nella riduzione di paesi già ricchi, e progrediti nel senso industriale a paesi disattrezzati, col devastarne gli impianti (fabbriche, ferrovie, navi, macchinari, costruzioni d'ogni genere, etc.).
Così la ricostituzione di quell'enorme massa di capitale morto consente una ulteriore folle rincorsa all'investimento di capitale variabile ossia di vivente lavoro umano sfruttato.
Le guerre attuano quell'eliminazione d'impianti e di scorte di merci mentre la distruzione di braccia lavorative non raggiunge la loro proporzione per l'incremento del prolifico animale uomo.
Si campa poi nella civilissima ricostruzione (il più grande affare del secolo, per i borghesi: un aspetto ancora più criminale della barbarie capitalistica che non sia la stessa distruzione bellica, per noi allievi di Marx) sulla insaziata generazione di nuovo plusvalore.
 

(6) - Abbiamo preferito alla parola italiana cooperazione, che poteva far equivocare con le organizzazioni cooperative di produzione – fenomeni più che secondari in mezzo alle innumerevoli aziende capitalistiche private – la parola collaborazione, sperando che non si equivochi ancora col significato della nota espressione di collaborazione di classe.
 

(7) - Abbiamo qui alluso ai problemi del determinismo e della libertà di iniziativa, da trattarsi nello studio sulla parte teorico-filosofica del marxismo, e a quelli sulla funzione e la tattica del partito trattati in tesi e testi di natura politica.
 

(8) - Tale cenno sostenuto nella stesura originale di questo lavoretto vecchio di oltre venti anni, basta a mostrare la sostanziale identità della nostra critica alle soluzioni economiche "costruttive" vecchie, nuove e nuovissime di cristiani sociali, mazziniani, fascisti, nazionalcomunisti, staliniani e marshalliani.
 

(9) - Le enormi possibilità sociali che si inseriscono sulla utilizzazione, dopo le varie forme di energia naturale termica e meccanica, della energia infratomica, non mancano di essere captate nel girone dell'accumulazione capitalistica, sotto le formule dello spietato controllo e monopolio che giunge alla schiavizzazione e disumanazione del fisico scopritore e sperimentatore, oltre che di tutti quanti lavorano nel nuovo campo.
 

(10) - Per la seconda guerra mondiale basti il cenno che essa ha accentuato le sue conseguenze economiche non solo nelle distruzioni per fatti militari estese in profondità oltre i fronti di contatto, ma anche nel sistematico disattrezzaggio industriale di paesi vinti e occupati. Si apre quindi una nuova corsa mondiale alla riaccumulazione, si forma un gigantesco esercito di riserva di affamati, si copre questa forma massima di barbarie colla apologetica della "ricostruzione" di cui Attila o Gengis Kan avrebbero arrossito.
 

(11) - Fin qui alla data della prima redazione (1929). Oggi va aggiunta le eventualità delle conseguenze dell'impiego di armi a disintegrazione atomica.
 

(12) - Tradotto così letteralmente, a rettifica delle correnti versioni: ciò che cresce è "die Masse des Elends" – la massa delle miseria –  non la miseria della classe operaia. I traduttori "a braccio" non capiscono che Marx si sarebbe banalmente contraddetto, ove avesse fatto crescere di pari passo la "degradazione" e la "organizzazione" della classe operaia. Di questa, disciplinata (geschulten) avanguardia delle masse oppresse e schiacciate, cresce die Empörung (soggetto della proposizione avversativa) ossia non la semplice resistenza, come si leggeva nelle edizioni Avanti! ma la Ribellione.

 

APPENDICE


IL METODO DEL “CAPITALE” E LA SUA STRUTTURA

Il metodo applicato nel Capitale, che si riflette nella struttura a prima vista sconcertante dell’opera, è stato definito da Marx nel modo più generale nel 3° paragrafo della Introduzione (1857), alla Critica dell’economia politica, intitolato  Il metodo dell’economia politica (i corsivi sono nostri) [1]:

         “Sembra corretto cominciare con il reale ed il concreto, con l’effettivo presupposto; quindi, per esempio nell’economia, con la popolazione, che è la base ed il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, ad un più attento esame, ciò si rivela falso. La popolazione è un’astrazione, se ad esempio tralascio le classi di cui si compone. E le classi sono a loro volta una parola priva di senso, se non conosco gli elementi su cui esse si fondano, per esempio lavoro salariato, capitale, ecc. E questi presuppongono scambio, divisione del lavoro, prezzi, ecc… Se cominciassi quindi con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell’insieme e, precisando più da vicino, perverrei via via analiticamente a concetti più semplici; dal concreto rappresentato ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici. Da qui si tratterrebbe poi d’intraprendere nuovamente il viaggio a ritroso, fino ad arrivare di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come ad una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come ad una ricca totalità”.

Notando che partendo dalla “totalità vivente”, gli economisti classici hanno sempre finito per trovare “alcune relazioni determinanti generali, astratte”, sulla cui base hanno costruito “sistemi economici che dal semplice salivano fino al concreto”, Marx conclude: “Quest’ultimo è chiaramente il metodo scientificamente corretto. Il concreto è concreto perché sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice… Per la prima via [ che parte dal concreto e dal complesso] la rappresentazione concreta si è volatilizzata in una determinazione astratta; per la seconda [ dal semplice e dall’astratto al concreto] le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto per la via del pensiero”.

Il movimento dal I e dal II Libro – che trattano rispettivamente del “Processo di produzione del capitale” e del “Processo di circolazione del capitale” – al III Libro, che tratta del “Processo di insieme della produzione capitalistica”, è appunto quel movimento dal semplice e dall’astratto al concreto e al complesso, che Marx qui sopra definisce come “il metodo scientificamente corretto”. Ma è unicamente perché nella prima parte le “determinazioni astratte” sono state razionalmente stabilite, che la seconda, “il processo di insieme”, non appare più come un inestricabile caos (contrariamente a quanto avviene nell’economia politica di cui Marx ha intrapreso la critica a fini rivoluzionari), ma come una “ricca totalità”.

Qual è dunque la “determinazione astratta” dalla quale parte Marx e che gli permette di giungere ad una rappresentazione intelligibile della realtà empirica, concreta? Questa determinazione – egli stesso vi insiste ripetutamente – è il capitale in generale:

“Io faccio astrazione dalla moltitudine dei capitali reali e dalla concorrenza fra di loro, che non è se non il rapporto del capitale con se stesso in quanto capitale altrui, e che perciò non può essere delucidato senza che lo sia stata la nozione stessa di capitale in generale”.

“L’intervento di molti capitali reali non deve turbare la nostra analisi. Al contrario, il rapporto tra i diversi capitali diverrà chiaro solo quando avremo messo in evidenza ciò che hanno tutti in comune: il fatto di essere capitale”. (Grundrisse…)

“E’ necessario definire esattamente lo sviluppo del concetto di capitale, perché esso costituisce il concetto fondamentale dell’economia moderna, e la struttura stessa del capitale la cui immagine astratta si ritrova nella società borghese. Se abbiamo ben afferrato le condizioni preliminari del rapporto capitalistico, dobbiamo essere in grado di dedurne tutte le contraddizioni della produzione borghese, così come tutti i limiti che essa tende continuamente a superare”, senza tuttavia, aggiungiamo noi, mai giungere a superare il rapporto capitalistico quale è descritto nel Libro I: salto che può essere compiuto solo dalla rivoluzione sociale, la cui condizione e il cui punto di partenza è la rivoluzione politica del proletariato.

Ciò che distingue il capitale-in-generale da tutte le altre forme della ricchezza è il fatto di essere un valore creatore di plusvalore. Il punto di partenza di Marx implica quindi che egli cominci col valore stesso. Ecco perché la prima sezione del Libro I è intitolata: Merce e denaro.

Egli deve poi cercare come il valore semplice si trasformi in valore creatore di plusvalore: è l’oggetto della seconda sezione intitolata: “La trasformazione del denaro in capitale” nella quale rientrano di fatto i capitoli intitolati rispettivamente: “III sezione – La produzione del plusvalore assoluto”; “IV sezione – La produzione del plusvalore relativo”; “V sezione – La produzione del plusvalore assoluto e relativo”; “VI sezione – Il salario”).

Infine deve cercare come la produzione del plusvalore implichi la riproduzione non soltanto semplice ma allargata del capitale, e quindi dell’intero rapporto capitalistico: è l’oggetto della VII sezione intitolata: “Il processo di accumulazione del capitale” (nella quale rientra il capitolo XXIV intitolato: “La cosiddetta accumulazione originaria”).

E’ quindi perfettamente esatto dire, come si legge nei nostri Elementi dell’economia marxista:

“Il I Libro copre il campo completo della dottrina di Marx sul capitalismo” ed è “l’ossatura costruttiva” dell’insieme, perché “conduce di getto lo studio economico di tutto il processo, dal primo scambio a tipo di baratto, attraverso la nascita e l’accumulazione del capitale, fino alla conclusione che al capitalismo succederà una economia sociale e non mercantile, tracciata lapidariamente nell’ultimo capitolo. I dati, lo studio e le leggi della circolazione [oggetto del Libro II] sono già pienamente compresi in questo sviluppo”.

Contenute nel I Libro, le “determinazioni astratte” del processo di circolazione saranno riprese e sviluppate nel Libro II, che contiene: “I sezione – Le metamorfosi del capitale e il loro ciclo”; “II sezione – La rotazione del capitale”; “III sezione – Riproduzione e circolazione del capitale sociale totale”.

Quando arriviamo alla fine del II Libro, l’analisi del capitale in generale è interamente compiuta. Quale sarà l’oggetto del III Libro? E’ ancora una volta lo stesso Marx a dircelo nelle frasi introduttive del capitolo I di questo Libro:

“Nel I Libro sono stati studiati gli aspetti fenomenici che il processo di produzione capitalistico, preso per sé, offre in quanto processo di produzione immediato, facendo astrazione da tutti gli effetti secondari di circostanze ad esso estranee. Ma questo processo di produzione immediato non esaurisce il ciclo di vita del capitale. Nel mondo reale esso è completato dal processo di circolazione, che è stato oggetto delle ricerche del II Libro. Qui, specialmente nella III sezione, si è visto, trattando del processo di circolazione come mediatore del processo di riproduzione sociale, che il processo di produzione capitalistico, preso nell’insieme, è unità di processo di produzione e processo di circolazione. In questo III Libro non si tratta di esporre riflessioni generali su questa unità. Si tratta piuttosto di scoprire e descrivere le forme concrete alle quali dà vita il processo di movimento del capitale considerato come un tutto. Nel loro movimento reale i capitali si affrontano in tali forme concrete, per cui la forma del capitale nel processo di produzione immediato, come la sua forma nel processo di circolazione, appaiono soltanto come particolari momenti. Le forme del capitale , come le esponiamo in questo Libro, si avvicinano quindi passo passo alla forma in cui si manifestano alla superficie della società, nell’azione reciproca dei diversi capitali, della concorrenza, e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione”.

In questo III Libro, quindi non soltanto vedremo le categorie marxiste – valore, plusvalore, capitale costante, capitale variabile, saggio di plusvalore – riapparire sotto il travestimento delle categorie borghesi – profitto, costo di produzione, saggio di profitto – come avviene nelle tre prime sezioni; ma vedremo anche nelle tre sezioni successive (coronate dalla breve sezione VII – “I redditi”) le forme di esistenza passeggere analizzate nel Libro II – capitale denaro, capitale produttivo, capitale merci – cristallizzarsi in forme di esistenza particolari – capitale finanziario, capitale industriale, capitale commerciale -; vedremo il plusvalore, già metamorfosato in profitto, ripartirsi ulteriormente in interesse e utile d’intrapresa, e il sovraprofitto convertirsi in rendita fondiaria. Arrivato a questo punto della “riproduzione del concreto per la via del pensiero”, Marx indica, nel piano primitivo del Capitale formulato nell’ultimo paragrafo de “Il metodo dell’economia politica” citato più sopra, che bisognava affrontare: “I rapporti internazionali della produzione; la divisione internazionale del lavoro; lo scambio internazionale; le esportazioni e le importazioni; il corso dei cambi; il mercato mondiale e le crisi”.

Determinata da considerazioni logiche, la struttura di insieme del Capitale trova così naturalmente una giustificazione storica, che Mqarx definisce come segue:

“Nell’analisi del capitale in generale, non abbiamo ancora a che fare né con questa o con quella forma particolare, né col capitale individuale. In effetti, ci troviamo al suo processo genetico. Ora, questo non è che un’espressione ideale dello sviluppo reale attraverso il quale diventa capitale. In cambio, i rapporti ulteriori dovranno essere considerati come sviluppi a partire da questo germe” (Grundrisse…).

Detto ciò, tutto lo studio precedente del metodo di Marx distrugge senza appello la scappatoia dei detrattori impotenti o interessati del Capitale che, pretendendo ch’esso “descriva il capitalismo concorrenziale del XIX secolo”, concludono con disinvoltura che è un’opera “superata”, incapace di spiegarci il capitalismo monopolistico del XX! Supponendo infatti (cosa evidentemente falsa) che nessuna delle categorie e delle forme empiriche del capitale trattate nel Libro III sia più osservabile “alla superficie” della società borghese contemporanea, l’analisi scientifica del capitale in generale nei Libri I e II rimarrebbe pur sempre interamente in piedi. Ecco perché la pretesa di analizzare “il capitalismo concreto dei nostri giorni” partendo direttamente da esso e facendo astrazione dai risultati dei Libri I e II, può soltanto sfociare, sul piano scientifico, in un miserabile aborto e, sul piano politico-sociale, in un rigurgito delle assurde rivendicazioni e riforme che, già in passato, vennero bugiardamente presentate come socialismo (come nel caso di due opere contemporanee, ritenute basilari dai “sinistroidi”: Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy e Lo scambio ineguale – titolo quanto mai suggestivo – di Emmanuel).

Tutta questa delucidazione metodologica non deve quindi essere considerata come un hors d’oeuvre superfluo e meno ancora come un semplice ornamento: destinata ad orientare il militante che affronta lo studio dell’opera fondamentale di Marx nel dedalo apparente della sua composizione “in spire successive”, essa giustifica egualmente il modo in cui la prefazione agli Elementi dell’economia marxista definiva il lavoro che incombe a noi, modesti allievi dei maestri del socialismo scientifico: trarre, come loro, la verifica, il controllo della teoria generale, e la prova della sua efficacia, dallo studio dei fenomeni particolari attuali dello sviluppo capitalistico, perché, in quanto metodo scientifico, il metodo del Capitale è anche necessariamente un metodo sperimentale.

         [1] L’introduzione non compiuta da Marx ( e da non confondersi con la celebre Prefazione edita) è stata pubblicata per la prima volta nell’edizione tedesca dei Grundrisse der politischen Oekonomie (1939-1941), ora anche tradotti in italiano.

 

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