DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Ma ancora un'altra caratteristica del mondo feudale era ben viva nella Germania di un secolo fa. «La nobiltà feudale, allora estremamente numerosa e in carte molto ricca, era considerata ufficialmente come il primo « ordine » del paese. Essa forniva gli alti funzionari dello Stato e gli ufficiali dell'esercito in modo quasi esclusivo ».

 

Se vi è un paese ove da secoli i figli della borghesia, del popolo grasso, per­fino del popolo minuto, sono divenuti funzionari statali, impiegati, ufficiali di forze armate, questo è l'Italia.

 

Nel sud, mentre per lo più i figli degli aristocratici vivevano in un ozio stupido consumandovi rendite tutt'altro che vistose, accedevano alle cariche civili e militari giovani delle famiglie popolari cittadine, e perfino in largo nu­mero delle famiglie di medi e piccoli contadini delle province, affluiti nella città per i loro studi, e pervenuti ad alti posti nella cultura e nelle gerarchie senza che ciò fosse loro precluso da leggi sui privilegi degli « ordini ».

 

Vi è ancora qualche altra cosa. Uno dei cardini, da un lato dell'economia antica, dall'altro di quella borghese, è il diritto ereditario. In Russia, in epoca non remota, i possidenti destinavano per testamento ai vari eredi, insieme ad ogni altro bene, le persone dei propri servi; ciò si legge nei romanzi di Ivan Turghenieff o nelle novelle di Anton Cecov, scrittori ottocenteschi inseriti da Stalin e dall'Unità nella letteratura sociale marxista. In Italia è difficile trovare notizia di un simile istituto, forse da Dante in poi, a meno che non si voglia assimilare a questi diritti personali quello sulla magnifica mula di messer Buo­so, abilmente scroccata agli eredi dal falso testatore Gianni Schicchi.

 

L'espressivo quadro letterario della Sicilia, ove banditi e mafiosi sono dipin­ti come scherani del barone feudale pagati per terrorizzare i servi (caso mai sono agenti dell'imprenditore rurale, tipico prodotto di rapporti borghesi, com­parabili ai gangsters e ai gunmen che negli Stati Uniti stanno legalmente al soldo degli industriali), fa ricordare che i bravi di don Rodrigo, a caccia della innocente Lucia, sono oggetto di letteratura di ambiente lombardo. Nel napo­letano, nella contemporanea epoca della peste e della dominazione spagnuola, i bravi non avrebbero osato passeggiare per la città né per le campagne. In un vicoletto della vecchia Napoli si rinviene ancora un busto dai lineamenti corrosi: « Donna Marianna 'a capa 'e Napule ». Autentica borghese, moglie di un com­merciante del Mercato, adocchiata dal Duca di Medina Coeli, non fuggì come Lucia tra le sottane dei francescani, ma, invitata a palazzo, rise sulla faccia del viceré e sulle sue profferte. Arrestato il marito per rappresaglia e torturato, Donna Marianna si reca al Seggio del popolo, e scesa in piazza, leva la massa alla rivolta; le carceri son prese di assalto; fatti prigionieri dignitari spagnuoli e nobili napoletani. Lo stesso Duca d'Austria che entra in porto con la flotta spagnuola deve venire a patti con i delegati della città; tra i patti era quello famoso che aboliva per sempre l'Inquisizione. Letteratura per letteratura, Ma­rianna è più avanti di Lucia. Il motivo retorico del povero Matteo Renato è fuori tono. Un esponente più smaliziato della amareggiata borghesia meridio­nale, il figlio di Scarfoglio, non ha tutti i torti allorché pretende (rallegrandosi a ragione con gli stalinisti per la loro borghese impostazione della questione del Mezzogiorno) che quello che si è fatto a Parigi nel 1789, si era fatto a Na­poli nel 1647; e dice che lo stesso Croce ricollega il nascere dell'illuminismo francese a quella data, che vide il filosofo comunista Campanella e il fruttiven­dolo analfabeta Masaniello levare lo stesso rivoluzionario grido di « fora baru­ni! ». Per gli stralciatori di riforme antifeudali dopo tre secoli, il grido è in dia­letto calabrese!Di qui la nostra pretesa, anche nel dantesco « corno d'Ausonia che s'im­borga — di Bari di Gaeta e di Crotona », di avere un solo inequivocabile grido: « fora burghisi! ».

 

                                                                                  *  *  * 

 

Quelle fin qui ricordate sono le caratteristiche distintive di un ambiente feu­dale e semifeudale, e sono quelle caratteristiche che, mentre nell'Italia meri­dionale non sono state mai decisamente dominanti, risultano definitivamente cancellate oggi da due forze storiche, che hanno operato nel medesimo senso: l'apparato statale accentrato del regno delle due Sicilie; la centralizzazione uni­taria nazionale dello stato di Roma, che nella teoria e nella pratica è stata al vertice della battaglia liberale della borghesia italiana.

 

Quelle caratteristiche distintive, che si ravvisavano ancora nella Francia del secolo XVIII, nella Germania della prima metà del XIX, nella Russia della seconda metà o, poniamo, nella Cina della prima metà del ventesimo, sono tra noi scomparse, ed offrendo minore resistenza che altrove, almeno da cento anni. L'ostinazione a ravvisarne tracce, o germi capaci di ripullulare sarebbe una colossale cantonata, se non dovesse essere meglio definita la più insidiosa e la più ripugnante delle risorse di una borghesia nazionale, cui la storia ha assestato molte pedate, senza tuttavia averle tolto una sua sprege­vole destrezza politica, ed arte corruttrice di potere.

 

Il politicantume vive sotto gli spasimi dell'attualità. La questione meridio­nale è oggi, malgrado i grandi eventi mondiali, all'ordine del giorno. Nel 1860 già il conte di Cavour dichiarava tra la generale emozione che « era entrata nel suo stadio acuto ». Altro che acuto! Un rivoluzionario autentico, Carlo Pi­sacane, precorritore assai significativo del movimento socialista, prevedeva be­ne questo stadio acuto, come sbocco delle situazioni rivoluzionarie, nell'annes­sione sabauda. Ecco le sue parole, scritte a Genova il 24 giugno 1857, alla vigilia della spedizione in Calabria:

 

« Sono convinto che i rimedi come il reggimento costituzionale, la Lombar­dia, il Piemonte ecc, ben lungi dall'avvicinare l'Italia al risorgimento, ne l'al­lontanano; per me, non farei il minimo sacrificio per cangiare un ministro, per ottenere una costituzione, nemmeno per cacciare gli austriaci dalla Lombardia e accrescere il regno sardo; per me dominio di casa Savoia o dominio di casa d'Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costitu­zionale del Piemonte sia più dannoso all'Italia che la tirannide di Francesco II ». In questo stesso scritto, benché non sia quello che tratta le vedute economiche e sociali del magnifico lottatore, vi sono risolute enunciazioni come queste: « sono convinto che il miglioramento dell'industria, la facilità del commercio, le macchine ecc, per una legge economica e fatale, finché il riparto del pro­dotto è frutto della concorrenza, accrescono questo prodotto ma l'accumulano sempre in ristrettissime mani e immiseriscono la moltitudine; e perciò questo vantato progresso non è che regresso. Se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che, accrescendo i mali della plebe, la sospingerà a una terribile rivoluzione, la quale cangiando d'un tratto tutti gli ordinamenti so­ciali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è a profitto di pochi». E più oltre si trova quest'altra recisa tesi, fin da allora diametralmente gettata con­tro la superstizione democratica: «Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quan­do sarà libero ». Segue l'aperta difesa del metodo della cospirazione, dell'in­surrezione, dell'azione delle minoranze, apprezzabilissima scientificamente in rapporto ai tempi, in ogni caso non qualificabile di retorica, poiché solo otto giorni dopo Pisacane e i suoi cadevano, massacrati da quelli stessi che vole­vano redimere.

 

Se avanguardie rivoluzionarie già lottarono nel sud sotto il Borbone con impostazioni antiborghesi, quale che fosse lo sviluppo della loro dottrina politi­ca, la lotta divampò in molte e grandi occasioni nella realizzata e vantata unità d'Italia. non occorre ricordare le bande di Benevento organizzate dagli inter­nazionalisti, i seguaci di Bakunin, Fanelli, Malatesta, Cafiero, che benché li­bertario per primo traduce in italiano il Capitale.Una battaglia autentica della guerra di classe tra proletari e borghesi fu il grande moto dei « fasci » di Sicilia nel 1893-94. Sono le masse che vi par­tecipano in una generale insurrezione. Da una parte lavoratori delle campa­gne, zolfari e carusi delle miniere, dall'altra la polizia e l'esercito statale, le amministrazioni comunali, al servizio della borghesia terriera, commerciale, in­dustriale. Se i deputati socialisti del nord giunti per solidarietà nell'isola (Agni­ni, Badaloni, Berenini, Ferri, Prampolini) esponenti in maggioranza della cor­rente legalitaria, non sfuggono nel loro manifesto all'impiego dell'espressione « tirannide dei feudatari sorvissuti   (di sorvissuto c'è  solo  questo participio) alle rivoluzioni politiche», di ben altro tono è il proclama del 3 gennaio lan­ciato dai capi socialisti del movimento(tra cui le belle figure di Nicola Barbato, Bernardino Verro,   Garibaldi Bosco) tutto rivolto contro il governo e la bor­ghesia che avevano fatto scorrere il sangue dei loro compagni. Ed è da notare che Nicola Barbato, nella coraggiosa difesa dinanzi al tribunale di Palermo, che emise la sua condanna a quattordici anni di reclusione, criticò il pur batta­gliero suo compagno nel comitato, De Felice Giuffrida, per aver voluto inse­rire in quel manifesto « un miscuglio policromatico di petizioni al governo ». Il discorso di Barbato fa veramente epoca come impostazione di marxismo ri­voluzionario. Sulle basi del socialismo scientifico egli rimprovera Montalto ed altri che avevano divisa la loro responsabilità da quella degli anarchici, in­colpati di atti terroristici; precisa la differenza delle dottrine, ma svolge con tutta chiarezza la dimostrazione che il socialismo ammette e prevede la insur­rezione  armata  del proletariato.   La  dimostrazione  echeggia  suggestivamente quella del Pisacane: «Si potrà dissentire dal modo, dal luogo, dal tempo della congiura, ma dissentire dal principio  è assurdo »  scriveva Pisacane; Barbato dimostra che non in ogni momento può provocarsi l'insurrezione; egli chiude la sua audace dichiarazione dicendo: « sono dolente che quest'ora dell'insurre­zione armata non sia suonata; credo anzi che sia ancora molto lontana».

 

Che si trattasse di un episodio di guerra sociale, basta a dimostrarlo il fatto che a capo della spietata repressione poliziesca fu un siciliano, non certo un difensore di baroni feudali, ma il garibaldino e rivoluzionario borghese Fran­cesco Crispi, Ministro dell'interno a Roma, che mandò tra l'altro il delegato di Pubblica Sicurezza di Bisacquino a deporre sulla circostanza che gli imputati erano al soldo della Francia e della Russia!!... Un teste, l'avvocato Battaglia, possidente di Palazzo Adriano, nel descrivere la miseria dei contadini che si nutrivano, con i loro piccoli, di finocchi selvatici crudi, altro non avendo, disse testualmente: «i contadini prima del 1812, quando esisteva il feudo, avevano assicurata l'esistenza, fuorché nelle annate cattive, ma soppressi i feudi divennero salariati e le loro condizioni furono sempre peggiorate, perché non esiste la mezzadria, ma la quinteria».Un borghese del 1894 può insegnare marxismo agli sgonfioni socialcomu­msti del 1950.Basterebbe tra cento altri episodi memorabili, a dimostrare la imponenza della lotta proletaria nel sud, la storia socialista del movimento del braccianta­to pugliese nelle sue dieci e dieci rosse cittadelle, ove la borghesia agraria tre­mava e sgombrava davanti all'onda degli scioperi economici e delle dimostra­zioni rivoluzionarie. 

 

                                                                                      *  *  * 

 

Il grave errore della caccia al feudalismo come surrogato della lotta di classe antiborghese produsse i suoi nefasti effetti anche quando si trattò di valutare e contrastare il movimento fascista.

La tradizione di quelli che oggi si chiamano cominformisti, si innesta a quella dottrina da mezze brache che proclamò: il fascismo è il movimento de­gli agrari che vogliono togliere il controllo dello stato italiano agli industriali.

Sotto questa falsa posizione c'è in potenza la smaccata apologia del capita­lista di fabbrica, moderno, democratico, civile e in una parola progressivo, che merita la simpatia e l'appoggio degli operai e dei contadini nella lotta contro le forze reazionarie e i « ceti retrivi ».

Ma chi accidenti sono gli agrari? Tutta la storia del movimento socialista in Italia, e i primi principi del marxismo, bastano a rispondere: sono i borghe­si che conducono l'impresa agricola. Questi sono sempre stati i diretti nemici delle camere del lavoro rosse, nel nord e nel sud.

Una volta Filippo Turati rispose spiritosamente al referendum sulla defi­nizione della donna: « La donna è un uomo ».

A un referendum di questi raccontachiacchiere sulla definizione dell'agra­rio va semplicemente risposto:  « l'agrario è un industriale ».

 

Il fascismo iniziò il suo attacco nei capoluoghi di province agricole come Bologna, Firenze ecc. e solo col diretto impiego dell'appoggio dello Stato demo­cratico borghese riuscì a vincere nei centri industriali. Ciò induce alla bestia­lità di vedere un'antitesi tra movimento fascista e padronato industriale. La ragione invece è un'altra, e si legge nel cap. XIV del Capitale: «La disseminazione dei lavoratori agricoli sopra maggiore superficie infrange la loro forza di resistenza, mentre il concentramento aumenta quella degli operai della cit­tà ». Abbiamo visto con i nostri occhi la tattica di concentrare, ad esempio, tutte le squadre del Ravennate a Cervia, dove i rossi venivano a trovarsi in uno contro cento; ed ecco come tutta la rossa provincia agraria cadde, sia pure vi­gorosamente combattendo, con spirito classista almeno non inferiore a quello delle concentrate masse industriali.

 

Se il fascismo avesse avuto anche minimamente carattere di ritorno della feudalità, i famosi baroni meridionali avrebbero dovuto essere alla testa del­l'offensiva. non ne fu nulla; la lotta dei fascisti e contro di essi fu quasi igno­rata nelle campagne meridionali, lo fu del tutto ove predomina il piccolo con­tadino proprietario o il celebre «latifondo»; come l'unità, come la democrazia, come il parlamentarismo, il fascismo, prodotto del nord, fu importato nel sud attraverso Roma. Il radicale errore nel valutare socialmente il fascismo italia­no, anticipazione del modernissimo rapporto economico-politico tra capitale e stato, ebbe come contropartita la rovinosa tattica politica dell'alleanza con tutti gli impotenti e spregevoli movimenti ad etichetta antifascista della media e piccola borghesia, tattica che consentì la salvezza al capitalismo italiano tra­verso il capovolgersi delle vicende internazionali. Salvezza non significò solo avere scongiurata una rivoluzione, ma anche avere snaturato il movimento ri­voluzionario.

 

Il nuovo rapporto tra capitalisti e stato, rapporto aggiornato e moderno, rap­porto che ben merita l'aggettivo di progressivo (dal tempo di Pisacane non ap­plicabile a nulla di rivoluzionario) è rimasto acquisito alla struttura della so­cietà italiana, come vi rimarrebbe se con De Gasperi, o senza De Gasperi, go­vernassero i Togliatti e i Nenni. Si parla, per definire questa recente fase del capitalismo, di dirigismo economico, di capitalismo di stato, di economia bu­rocratizzata, e simili. L'interpretazione banale è quella che il sistema della li­bera iniziativa privata ceda mano mano il campo agli interventi dello Stato nei settori economici; la contrapposizione balorda è quella tra indirizzo liberi­sta, che ingrassa i borghesi, e indirizzo di controllo e gestione statale, che ri­donderebbe a beneficio delle classi operaie. Interpretazioni e contrapposizioni banali e balorde, perché prescindono sia dalla questione del potere di classe che da quella delle caratteristiche della economia collettiva in contrasto al ca­pitalismo. Riferiamo qui le cose al caso concreto dell'Italia; ma per noi    capitalismo    di    Stato,    e    in    genere    attività    economica   di   Stato, non significano assoggettamento del capitale allo Stato, ma ulteriore as­soggettamento dello Stato al Capitale. Lo Stato, nato e vivente come birro po­litico della classe abbiente, ne diventa sempre più l'impiegato, il contabile, l'am­ministratore, il cassiere, l'assicuratore, non solo contro i rischi politici, ma an­che contro quelli economici. Lo Stato si sviluppa nelle sue funzioni multiformi di servo del Capitale; le smetterà soltanto con la sua distruzione violenta.

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