DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La politica del « socialismo in un solo Paese » e la conseguente evoluzione della macchina statale sovietica nel senso di un sempre più pesante e oppressivo apparec­chio di sfruttamento del lavoro hanno avu­to per effetto di alterare profondamente il significato e la funzione degli organismi sindacali nell'URSS.  (1)

Questa funzione era stata definita con grande chiarezza da Lenin nel 1922 in un corpo di tesi che l'XI Congresso del Partito doveva integralmente approvare: « L'ado­zione di una contabilità commerciale da parte delle aziende di stato — vi si leg­geva — l'urgente necessità di aumentare la produttività del lavoro e di garantire la stabilità economica di ogni azienda di sta­to, l'inevitabile zelo burocratico delle auto­rità industriali non possono non provocare nelle imprese conflitti di interesse in mate­ria di lavoro fra la maestranza e i direttori, i tecnici e i comitati preposti alle imprese medesime. E' perciò dovere assoluto dei sindacati difendere gli interessi degli ope­rai nelle aziende socialiste e di migliorarne in tutti i modi le condizioni materiali cor­reggendo sistematicamente gli errori e le esagerazioni degli uffici economici, in quanto prodotti di una degenerazione bu­rocratica della macchina statale » (Pravda, 17 genn. 1922).

Con questa formulazione, Lenin ricono­sceva che, nel regime economico misto ca­ratterizzato dalla coesistenza di elementi socialisti e non-socialisti, il processo della lotta di classe continuava e in esso trovava la sua giustificazione la permanenza di or­ganismi di difesa degli interessi operai.

Né il quadro poteva essere alterato dalla successiva politica di industrializzazione dell’URSS e dall’introduzione dei piani quinquennali, che, mentre non abolivano il sistema della contabilità commerciale delle aziende e ponevano anzi a queste ultime in forma categorica il problema dell’equilibrio dei bilanci tipico di tutte le aziende in re­gime mercantile, esasperavano il ritmo di accrescimento della produttività del lavoro e il pericolo degli « eccessi di zelo » della bu­rocrazia. Ma il dado era tratto, e l'evoluzio­ne politica portava necessariamente a in­granare i sindacati nel gigantesco meccani­smo dello Stato-padrone e a toglier loro ogni funzione che non fosse quella di pro­muovere l'incrementò della produzione in­dustriale attraverso l'aumento della produt­tività del lavoro e il potenziamento della sua disciplina — finalità abilmente masche­rata dietro lo slogan della « sempre più consapevole e diretta partecipazione delle masse operaie alla costruzione del sociali­smo ».

Si iniziava così un processo di svuota­mento del sindacato che, nel corso del I piano quinquennale, quando il tasso reale dei salari diminuiva, portava gli organi sindacali a combattere per la « disciplina finanziaria » nelle questioni salariali e per il rigido mantenimento del « fondo salario » e delle quote di produzione fissate dall’am­ministrazione delle aziende di Stato; ad ab­bandonare dopo il 1934 la definizione dei contratti collettivi agli organi amministra­tivi dell’azienda e dello stato e infine, nel gennaio 1933, a perdere ogni influenza sul­la determinazione delle quote di produzio­ne nell'ambito di ogni singola attività pro­duttiva.

Nell'estate dello stesso anno, il segretario del Comitato Centrale dei Sindacati per le questioni  salariali,  Veinberg,   dichiarava: « La corretta impostazione del sistema dei salari e di un sistema di quote di pro­duzione in armonia con le peculiarità di ogni singola branca industriale e in rappor­to alle sue particolari condizioni esige che la responsabilità di questo compito sia as­segnata direttamente alla direzione tecnica ed economica. Ciò è richiesto anche dalla necessità di introdurre la direzione unica e la contabilità commerciale nell'azienda... Solo funzionari economici possono essere responsabili delle quote tecniche, del li­vello dei salari, della fissazione di quote di produzione, dei cottimi ecc. In alcuni compagni di fabbrica è radicata oggi la convinzione che il sindacato debba avere voce in capitolo nel fissare i salari a parità con la direzione economica. E' questa una deviazione « di sinistra » ed opportunista, un tentativo di metter fine alla direzione unica e di interferire con l'amministrazione. Ciò deve finire» (Trud, 8 luglio 1933).

Parallelamente, a partire dallo stesso an­no, erano soppressi gli uffici di collocamen­to e l'assunzione della mano d'opera diven­tava    compito    esclusivo    della    direzione aziendale,   senza   alcun   controllo   da   parte dei sindacati. I quali, nel frattempo, erano presi nel girone dello stakhanovismo e dell’ «emulazione socialista», e diventavano l'a­nima  della  campagna  per  l'aumento  della produttività del lavoro e quindi del suo in­tensificato sfruttamento. E poiché nella ca­tena  della produzione  non  v'è  anello  che non ne presupponga un altro,  era inevita­bile che  l'aumento  della produttività fosse visto come problema, non sotto l'angolo vi­suale di  un  miglioramento delle condizioni generali di lavoro e di vita dell’operaio, ma — in armonia con le esigenze contabili dell’impresa   —   sotto   quello   di   un   irrigidi­mento   della   disciplina   del   lavoro. Punto culmine di questo capovolgimento della po­litica sindacale  dello  « stato  operaio »  è  il decreto 26 giugno  1940, che vincola l'ope­raio  al posto  di  lavoro  comminando pene severissime per i casi di violazione, e con­dizionando alla rigida osservanza di questa disciplina  il   meccanismo  della  stessa  assi­stenza sociale  (il  decreto del 28 dic.  1938 stabiliva già che « gli operai licenziati per infrazioni della disciplina del lavoro o per delitto,  e quelli che hanno abbandonato il lavoro di loro spontanea volontà potranno chiedere l'assistenza per malattia solo dopo di aver lavorato non meno di sei mesi al loro nuovo posto »; lo stesso decreto, d'al­tra parte, riconosceva l'antico criterio dell’assistenza malattia pari al salario solo agli operai che lavoravano da almeno 6 anni nella stessa azienda, mentre la riduceva al 50% per quelli che potevano vantare una permanenza di meno di un biennio). « Il compito dell’assicurazione sociale — scrive­vano i Voprosy Truda dell’aprile-maggio 1932 — consiste in una vasta, incessante, quotidiana battaglia per l'aumento della produttività del lavoro... E' questo il punto d'onore di tutti i funzionari e di tutti gli organi   dell’assicurazione   sociale ».

Ridotte al minimo anche le funzioni di controllo sul lavoro, i sindacati hanno finito per confinare la loro attività in difesa degli interessi operai ad un settore che potremmo chiamare dopolavoristico, cosicché appare giusta la conclusione a cui è giunto S. Schwarz in uno studio sui sindacati nella vita industriale russa (The Trade Unions in Russian industrial life, in International Postwar Problems v. II, numero 3, lu­glio 1945): « [I Sindacati] hanno finito per  occuparsi soprattutto di rafforzare la di­sciplina del lavoro, di aumentarne la pro­duttività e di curare gli interessi dell’ope­raio non come prestatore d'opera... ma co­me consumatore, attività esercitata larga­mente in questo Paese da organizzazioni assistenziali  di  tipo  paternalistico ».

Ma è chiaro altresì che il fenomeno è di portata troppo vasta e complessa per poterlo chiudere nei confini cari allo Schwarz di un'antitesi democrazia-antide­mocrazia. Per noi, il problema rientra nel quadro generale della lotta di classe e dei rapporti di forza che fra le classi si son venuti a stabilire nell'URSS. Lo svuota­mento della vita sindacale non è il punto di approdo di una lotta tra forme politiche o strutture giuridiche diverse (come, svi­luppando in certo modo il pensiero dello Schwarz e tracciando una storia ideale della conversione del leninismo in stali­nismo, ce lo presenta il Pagliari in un suo recente articolo su I Sindacati operai in Russia in Critica Sociale, a. XVIII, 4-10, 16 maggio   1946),  ma  è  la  conclusione di  un processo di lotte di classe che va visto sul più vasto  orizzonte  della  situazione  inter­nazionale del proletariato. Chi ha trionfato, in  questo  processo,  non  è  la  « dittatura » sulla   « democrazia »,   ma   la   conservazione capitalistica  sulla rivoluzione proletaria.

Il grave non è, in altre parole, che la funzione di difesa di classe del sindacato sia venuta decadendo (come è ovvio che decada nell'ipotesi di una definitiva affer­mazione delle forme socialistiche sulle for­me « mercantili » della produzione), ma che sia   venuta   decadendo   man   mano   che   si affermavano   gli   aspetti   degenerativi   dell’economia  e  della politica russa,  per spe­gnersi del tutto quando la macchina statale ed economica si presentava ormai come la concretizzazione mostruosa di capovolti rap­porti di forza tra le classi.

Ed è perfettamente ridicolo che i teorici della  democrazia  o  socialdemocrazia  occidentale   piangano   sul   tramonto   della   fun­zione   autonoma   del   Sindacato   in   Russia, o sulla  sua degradazione ad organismo as­sistenziale-dopolavoristico,    quando  in  tutti paesi,   cominciando  dalla  libera  America di Truman per finire con le democrazie pro­gressive di cui ci ha fatto dono il dopoguer­ra in Europa, la stessa tendenza va chiaramente delineandosi nel nome della ricostru­zione e della solidarietà nazionale, e come se  il   sindacato   non   si  ponesse   dovunque (perché glielo fan porre i partiti del com­promesso)   il   problema   di   applicare   degli impacchi   freddi   sulla    fronte    dell’operaio per fargli sopportare il peso asfissiante della tanto auspicata (vedi le quindicinali omelie di   «Critica   Sociale»   o   di   «Rinascita») intensificazione   della   sua  capacità   produt­tiva.

Lo stato-padrone è il fenomeno tipico della società borghese nella sua parabola discendente, il punto in cui tendono ad in­crociarsi la linea di sviluppo del capitalismo e la linea d'involuzione dello Stato che già fu detto « operaio », e la sua funzione è dovunque quella di garantire il profitto con­tro le perturbazioni di un apparato econo­mico in sfacelo. E' su questo piano che va visto storicamente il fenomeno della « morte del sindacato » nella Russia e nel mondo: e sarebbe davvero il caso di dire che... chi è senza peccato lanci la prima pietra.

Il criterio della produttività domina il mondo sociale sovietico come tutto il mon­do sociale capitalistico. Evidentemente,  il  sintomo  preoccupante dell’evoluzione politica e sociale russa non è il fatto bruto delle constatate differenze salariali   fra   categoria  e categoria,   ma   il fatto    che   queste    differenze    si    fondino sugli stessi criteri mercantili  di  contabilità aziendale che sono tipici del sistema di pro­duzione    capitalistico.    Mantenuto   per   gli operai  non  qualificati  il  sistema  del  sala­rio   orario,   la  base   della   politica   salariale è   ormai   costituita   per   le   altre   categorie produttive   dalla   quota   di   produzione,   o meglio ancora dal costo, che l'azienda sta­bilisce preventivamente in vista di un  bi­lancio il più possibile attivo fra entrate ed uscite. La retribuzione aumenta proporzio­nalmente   ai   pezzi   prodotti   in   più   della quota media fissata, così come un sistema progressivo   di   multe   colpisce   il   mancato raggiungimento   della  quota  e un   sistema di  premi  compensa  il  miglioramento   rea­lizzato nei metodi di lavoro (si noti che il sistema    di    corrispondere    buoni-acquisto supplementari in rapporto all’aumento del­la produttività del lavoro riguarda non sol­tanto  l'operaio  singolo,  ma  il  caporeparto, il   « guardaciurma »   della   grande   azienda moderna).  Il personale  tecnico  e dirigente non gode soltanto di uno stipendio di gran lunga superiore al salario dell’operaio non­qualificato   e  qualificato   (2),   ma  partecipa agli   utili  dell’azienda   in  rapporto  percen­tuale  all’aumento   della  produzione  o,  che è in definitiva lo stesso, alla riduzione dei costi;   riceve   dall’azienda   merci   e   servizi gratuiti     o     semigratuiti;     può     rifornirsi in    spacci    aziendali    a    prezzi    bloccati; gode determinati privilegi in fatto di edu­cazione, mentre la tassa sul reddito lo col­pisce  in  misura  assai  meno  forte  che  nei paesi occidentali. E' chiaro che,  essendo  i prezzi   fissati   dal   governo,   il   fondo-salari supplementare si costituisce sulla base della differenza fra prezzi e costi di produzione, e l'azienda viene a costituire un'unità chiu­sa in cui il plusvalore è distribuito secondo criteri    contabili    schiettamente    mercantili sulla   doppia   base   dello   sfruttamento   del lavoratore   non-qualificato   il   cui   salario   è ridotto al minimo necessario per vivere, del­lo   stakhanovista  sottoposto   al  massacrante logorio fisico della « emulazione », del con­sumatore che paga i prodotti ad un prezzo di gran lunga superiore al costo di produ­zione, o, guardando il problema da un al­tro punto di  vista,  su basi di concorrenza tra aziende nella produzione e di monopo­lio  statale nella  vendita.

E poiché in una struttura economica di questo genere il criterio discriminante del « lavoro » è di natura essenzialmente so­ciale, è ovvio ch'esso tenda, da una parte a tener compresso il salario orario dell’ope­raio non qualificato e, dall’altra, ad aumen­tare gradatamente ma costantemente il reddito globale del lavoratore qualificato, dello stakhanovista e del dirigente (3). An­date,   con   questo,   a   parlare   di   una   progressiva scomparsa delle classi o di un avvicinamento alla formula comunista: « a ciascuno  secondo  il suo  bisogno » !

Dobbiamo meravigliarci, dopo tutto que­sto,   della   constatazione   del   Drucker   che « il risultato del contatto col sistema indu­striale   russo   è   stato   sorprendente:   alcuni dei   più   conservatori   industriali   americani, per i quali tutto ciò che è russo era anate­ma, esaltano oggi le virtù del sistema russo dei salari a premio »? E che, d'altra parte, l'introduzione   di   questo   sistema   e   dello stakhanovismo    abbia   urtato    nel    1934-36 contro l'opposizione   degli  organi  sindacali provocando per contraccolpo il loro esauto­ramento?   Il   trionfo   della   nuova   politica salariale e la  « morte del sindacato »  sono due aspetti  della  stessa evoluzione storica, cioè   dell’inversione   dei   rapporti   di   forza fra le classi nella fase discendente della ri­voluzione russa.

E non c'è che da prenderne atto.

(1) Per un inquadramento generale della questione russa, cfr. « La Russia sovietica dalla rivoluzione ad oggi » in Prometeo, n. 1. luglio 1946.

(2) Nel 1938, il personale dirigente dell’industria riceveva da 15 a 25 volte, e in qualche raro caso 30, volte più dell’operaio non qualificato: il rapporto era in Ame­rica di 1 a 8/12 e in qualche caso di 1 a 20 (P. Drucker, Wages and incomes in So­viet industry, in World Review, nov. 1945). D'altro canto, il salario medio del mano­vale risulta dalle stesse statistiche degli a­pologisti del sistema russo (si veda il re­centissimo rapporto di G. Borghesi, « Un mese nella Russia sovietica », in Cultura so­vietica, ott.-dic. 1945) ridotto al livello mi­nimo della sussistenza e poco più che suf­ficiente a coprire il consumo di due pa­sti nelle mense aziendali, pur tenuto conto delle facilitazioni di tipo assistenziale ac­cordate al lavoratore.

(3) Secondo il Drucker il salario dell’o­peraio non qualificato è aumentato duran­te la guerra di 4 volte, quello del dirigente di 8, e quest'ultimo può impiegare il suo reddito nell'acquisto di merci a prezzo an­teguerra. La recente riduzione del 50% sui prezzi di alcuni generi di consumo — an­nunciata con tanto rilievo da alcuni gior­nali nostri — riguarda d'altronde soltanto alcune merci non tesserate che per il lo­ro prezzo rappresentano, agli effetti del reddito medio, dell’operaio, articoli di lus­so  (Neue Zürcher Zeitung, 4-7-46).

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