La quota di ricchezza, in scorte e mezzi di produzione, distrutta in Italia dalla guerra è stata notevole. Secondo le più attendibili valutazioni fatte all'inizio del 1946, i danni di guerra, ivi comprese le perdite di reddito, opere d'arte e persone, non erano lontani dai 9.000 miliardi di lire gennaio 1946.
Ciò significa la distruzione di una ricchezza pari a circa la metà del patrimonio nazionale esistente nel 1938. Ma se il valore di beni divorati dalla guerra è stato colossale, per il breve spazio di pochi anni, nondimeno il complesso dell'attrezzatura produttiva nazionale è uscito dal conflitto in condizioni di relativa efficienza e il rendimento degli impianti era ancora capace di dare delle percentuali di produzione che oscillavano dal 50 al 100% di quelle prebelliche.
È chiaro però che problemi di energia e di trasformazione impedirono fin dall'inizio l'utilizzazione di tale potenzialità. Quasi tutta l'industria italiana era industria di guerra o adattata alla guerra. Ora, questo patrimonio è sempre stato tale da esercitare, per influenza di capitali e per complessi di interessi, delle pressioni decisive sugli organi governativi. Tutti i governi della liberazione non hanno mai osato portare attacchi alle posizioni di privilegio dell'industria pesante in Italia e del mondo finanziario ad essa collegato.
Alcune industrie, fra cui la metallurgica e la siderurgica, erano diventate, con la fine del conflitto, dei complessi mastodontici senza alcuna prospettiva di una produzione di pace. Ma esse rappresentavano degli enormi immobilizzi bancari e le banche stesse, a loro volta, erano strettamente dipendenti dalla sorte di queste industrie.
È facile comprendere perciò come i vari governi si lasciassero persuadere a elargire sovvenzioni di diecine di miliardi, regolarmente ripetute a favore di queste industrie, sotto lo specioso pretesto che la loro integrità serviva a garantire il lavoro a vaste masse di operai.
In realtà il blocco dei licenziamenti, che fu un tempo presentato dalla Camera del Lavoro come uno dei propri meriti, durò fintantoché durò questa situazione ed infatti, appena le industrie pensarono di adattarsi al mercato e di produrre in determinate condizioni, esse procedettero ai licenziamenti, infischiandosi di tutte le quote che la Camera del Lavoro farneticava di stabilire.
Ad ogni modo la fine della guerra pose l'industria italiana di fronte alla necessità di trovare un mercato di sbocco per i propri prodotti ed in un primo tempo abbiamo assistito ad un gran parlare di necessità della ricostruzione, che diventava compito patriottico e fraterno cui tutti dovevano sottoporsi e sacrificarsi. Ricostruzione che in sostanza si estrinsecava nella ricostruzione edilizia e che godette un quarto d'ora di celebrità in quanto quasi tutte le grandi industrie pensarono di trasformare gli impianti a questo scopo. Si è visto la Caproni, la SIAI Marchetti ed altre grandi fabbriche produttrici di macchine belliche mettersi a produrre mobili e serramenti.
Ma questo zelo e questo entusiasmo si affievolirono appena apparve chiara l'estrema povertà del mercato italiano e la quasi nulla capacità di acquisto delle masse, ridotte al vero stato di “sansculottes” dall'economia di guerra. Nel frattempo la situazione della Tesoreria di Stato era venuta complicandosi sempre di più. Il trapasso sui generis dalla forma “fascista” alla forma “democratica” non ha in sostanza alterato nulla della struttura sociale ed economica italiana. Tutta l'impalcatura dei passati privilegi fu mantenuta e riconfermata. I nuovi governi “antifascisti” non facevano che ereditare il patrimonio di debiti, ipoteche, protezioni e mallevadorie fasciste e cercavano di rendere accetta la loro comparsa sulla scena attraverso solenni promesse di difendere e mantenere quanto esisteva.
L'unico tentativo di ricusare l'eredità del passato fu la peregrina idea del Sindaco Greppi di Milano che sembrò annullare il prestito di 1 miliardo lanciato da uno degli ultimi prefetti fascisti. Dopo essere stato coperto di contumelie e additato al pubblico disprezzo, il Sindaco Greppi si rimangiava il provvedimento e per contro prometteva il relativo conguaglio degli interessi.
In conseguenza del concludersi di tutti i fenomeni bellici e soprattutto delle somme che venivano richieste per risarcimento dei danni verificatisi nel corso del conflitto, o per le nuove necessità, la situazione del bilancio di Stato divenne sempre più precaria ed il problema di come far fronte alle spese ed evitare la bancarotta è stato in sostanza il problema più angoscioso di tutti i ministeri.
Ricordandosi di quanto avvenne nel dopoguerra 1918 nelle nazioni vinte, il nostro governo promise solennemente di evitare ad ogni costo l'inflazione, ma è chiaro che evitare l'inflazione significa chiudere in pareggio il bilancio dello Stato, e chiudere in pareggio il bilancio dello Stato non poteva essere fatto altrimenti che riducendo le spese ed aumentando le tasse.
Ma la riduzione delle spese per i governi democratici non era da mettere nemmeno in discussione. Tutta la passata burocrazia venne considerata un patrimonio della Patria ed inamovibile. Tutti i ministeri, e principalmente quelli della guerra, della marina e dell'aviazione si videro aumentare i loro stanziamenti in conformità al nuovo valore della moneta. Nessuna delle passate uscite riceveva sostanziali modificazioni tanto che ancor oggi esiste un Ministero dell'Africa italiana con tutto il suo personale al completo.
Per contro l'aumento delle tasse vi è stato, ma solo per le tasse di consumo, e siccome la tasse di consumo non possono trarre gran che da una popolazione che ormai non consuma quasi niente, le entrate dello Stato si sono progressivamente ridotte. Le altre fonti, come ad esempio la confisca dei profitti di regime o di congiuntura, il sequestro dei beni Reali e Principeschi, la tassazione dei beni ecclesiastici e delle categorie di lusso, hanno continuato a restare confinate in zone eteree e stratosferiche completamente ignorate ed irraggiungibili da quegli uccelli di palude che sono stati i nuovi ministri.
La borghesia è stata la classe prediletta dai legislatori fiscali democratici, primo fra i quali Scoccimarro. I sequestri ai beni fascisti sono stati piuttosto delle eccezioni anziché la regola, l'imposta progressiva sul patrimonio, attuata persino da altri governi borghesi quali l'americano e l'inglese, è stata una cosa minacciata e mai applicata, nemmeno quando non vi erano più fondi in cassa e non si sapeva come tirare avanti.
L'accertamento fiscale fu trascurato col pretesto che la burocrazia non funzionava, concedendo così completa libertà di azione ai commercianti del mercato bianco e nero. La ricchezza mobile sui salari, invece, le tasse dirette e di scambio, le cosiddette assicurazioni sociali sono state le fonti cui si è unicamente ricorso. E queste erano pagate dal proletariato, che si cullava in una pacifica beozia, fidente di quello che i socialisti e i comunisti dovevano ammannirgli attraverso le grandi vittorie repubblicane e costituentistiche.
In ogni caso la grande promessa di tenere fermo il torchio è stata una promessa di marinaio. Il torchio è stato fermo, ma ha avuto degli improvvisi guizzi di tanto in tanto che hanno fatto sì che la circolazione cartacea passasse da circa 300 miliardi, quale era al 25 aprile 1945, a 440 miliardi quale è oggigiorno. E ora le rotture alla regola sono sempre più frequenti. In questo solo mese è stata annunciata la stampa di 27 miliardi in biglietti da 10 mila e da 5 mila lire.
Il governo ha nondimeno tirato avanti ricorrendo a vari espedienti, non ultimo quello della vendita dei residuati bellici e quello degli aiuti dell'UNRRA. Ma verso la fine del 1946 queste sorgenti di aiuti hanno cominciato ad inaridirsi. Il deficit quotidiano di oltre 1 miliardo netto sulle spese e sulle entrate costituisce una macina al collo ed un appesantimento della situazione che ha imposto di ricorrere a disperati appelli perché i cittadini prestassero denaro allo Stato, e di minacciare tasse straordinarie e cambi della moneta.
L'ultimo prestito ha fornito alcune decine di miliardi di lire di liquido (poco oltre i 100 miliardi) e questo fatto sembra aver dato dell'euforia al governo tanto da indurlo, per bocca di Scoccimarro, ad esprimere l'opinione dell'inutilità del cambio della moneta. Ma questa euforia è destinata a non durare a lungo. Quos vult perdere Deus amentat. Il problema del pareggio del bilancio si ripresenterà al più tardi entro tre mesi ed entro tale periodo di tempo lo Stato deve trovare altro denaro che evidentemente non può essere che dato da altre tassazioni, le quali a loro volta non saranno certamente applicate a scapito delle classi benestanti. Queste in ogni caso si apprestano a trasferire sui prezzi ogni eventuale inasprimento fiscale.
La nostra industria che, come abbiamo visto, si è ritratta dalla produzione destinata a soddisfare i bisogni di immediata urgenza nazionale per orientarsi essenzialmente verso il commercio estero è di nuovo in preda a preoccupazioni. Innanzi tutto l'esportazione, fatta come è stata fatta, ha significato un aumento dei costi su scala nazionale in quanto si è realizzata una speculazione sui cambi valutari simile al dumping, e si è determinata una fuga di capitali all'estero per sfuggire alle minacciate proposte di tassazione.
Ma l'aver prodotto per l'esportazione ha fatto anche sì che l'economia interna italiana non abbia risentito alcun beneficio dalla cessazione delle ostilità e che la precarietà propria dell'economia di guerra si sia protratta nel tempo senza che nessun elemento ricostruttivo abbia effettivamente avuto vita.
La situazione economica oggi infatti è ben poco diversa dalla fine delle ostilità in quanto, se si è lavorato, si è lavorato per mandare i prodotti fuori; altro fenomeno questo, inscindibile dal nostro capitalismo il quale deve vivere sui profitti che realizza sfruttando il lavoro nazionale, ed essendo i lavoratori italiani tenuti a salari di fame esso deve necessariamente cercare uno sbocco oltre la cerchia di coloro che sfrutta. Perciò, quando si parla di pagare quello che ci manda l'estero col frutto del nostro lavoro e si dice che noi dobbiamo attrezzarci per lavorare in conto, si vuol dire che noi si deve importare, lavorare i prodotti importati, e quindi esportarli: circolo che garantisce al lavoratore la fatica e al capitalista il profitto. E il capitalista sarà poi pronto ad affermare che in tal modo si evita la morte per fame dei lavoratori, che perciò possono continuare a vivere a condizione che continuino a farsi sfruttare.
Ma la concorrenza internazionale riappare e questa concorrenza è in grado di sbaragliare facilmente l'industria nazionale i cui costi aumentano quotidianamente. (Un altro fattore di gravissima importanza per i prezzi è stato la sospensione degli invii di materiale attraverso l'UNRRA, sospensione che è bastata a far salire da un giorno all'altro il prezzo del carbone da 3 mila lire a 5 mila lire la tonnellata). L'industria vede ridursi il mercato e senza mercato di sbocco non vi è reddito, senza reddito niente tasse: e il gettito delle imposte infatti diminuisce.
È evidente che in questo stato di cose basta un nulla per precipitare l’industria e lo Stato italiani nella più completa bancarotta. Di conseguenza il padre adottivo del capitalismo italiano, il capitalismo americano, ha mandato a chiamare il suo “valet de chambre” De Gasperi per addolcire la situazione e concedergli, attraverso un prestito, la possibilità di superare il disastro imminente. Questo è il vero significato del viaggio di De Gasperi a Washington e questo è il tanto gabellato successo della sua diplomazia.
Lo stesso esperimento venne a suo tempo fatto con la Germania attraverso i famosi piani Jung e Daves che diedero respiro alla Germania per qualche anno. Ma la Germania riuscì ad ottenere prestiti dall'estero in quanto l'America allora era in una condizione pletorica di capitali ed in quanto la Germania aveva ancora una potenzialità di esportazione considerevole.
Invece l'Italia non è la sola a voler oggi i capitali americani, i quali sono febbrilmente richiesti dall'Inghilterra, dalla Russia, dalla Francia. dalla Cina ecc. ecc. Infatti la quota destinata all'Italia è inferiore a tutte le altre recentemente concesse dagli Stati Uniti e per contro l'Italia vede svanire la sua capacità di esportazione. Ma non è tutto qui, chè l'America baratta questo aiuto imponendo il completo asservimento dell'Italia all'imperialismo del dollaro.
L'adesione dell'Italia agli accordi di Bretton Woods significa la determinazione di un nuovo cambio per la lira italiana e significa l'impegno dell'Italia di accettare un’economia di scambio multilaterale e basata su un sistema flessibile aureo in cui essa evidentemente navigherà a mal partito.
Questa nuova situazione e la necessità del capitalismo di dare nuova lena alla corrente esportatrice dell'industria italiana, sfruttando i nuovi cambi, non potranno fare a meno di far sentire i loro effetti sui prezzi nazionali che sono destinati a subire un aumento costante, che minaccia di diventare vertiginoso se le necessità di bilancio dovranno togliere ogni freno al torchio monetario.
Aumenti di prezzi, quindi, quale risultato dei cambi internazionali, della speculazione sul commercio estero e del deficit della tesoreria, che dovrebbero essere digeriti dalle masse di lavoratori italiani con la stretta osservanza della famosa tregua sottoscritta dalla Confederazione Generale del Lavoro.
De Gasperi ormai apertamente minaccia ogni rottura della “solidarietà nazionale”. Vi può essere nelle intenzioni di Togliatti di sfruttare questo stato di cose per assumere di nuovo l'apparente ruolo di cavaliere di San Giorgio per la difesa degli interessi del proletariato, ma la situazione imporrà a lui ed ai suoi avversari di governo di adeguarsi alla realtà e di scendere fino in fondo nella loro azione di oppressione combinata delle masse e di difesa degli interessi capitalisti.
Questi interessi sono gli unici che hanno continuato imperterriti a mantenersi intatti e indisturbati anche quando palesemente appare che minacciano di scardinare fin le più elementari basi del vivere civile. Indicativo a questo riguardo è quanto accade nel campo dell'energia elettrica, settore, a parer nostro, gravido di sviluppi e di conseguenze, capace di far ripercuotere la sua crisi in tutti gli altri settori.
Non solo infatti l'energia elettrica è ormai diventata una necessità inderogabile della produzione moderna, ma essa richiede molto tempo per essere provveduta. In Italia invece gli impianti di energia elettrica, dal termine della guerra ad oggi, non hanno quasi più avuto manutenzione ed i nuovi impianti sono in gran parte ancora da decidere.
Le ragioni di questo stato di cose vengono candidamente confessate dagli industriali dell'energia elettrica, i quali affermano che il governo non avrebbe dovuto parlare di nazionalizzazione delle industrie elettriche e soprattutto non avrebbe dovuto parlare di limitazione negli utili di queste industrie.
Perciò, per mettersi a curare la manutenzione degli impianti esistenti cd a costruirne dei nuovi, essi esigono che il governo cessi di parlare di nazionalizzazione, dia l'esenzione dalle tasse e tolga il blocco dei prezzi dell'energia elettrica. Il Governo non può cedere immediatamente perché le conseguenze di un aumento di prezzo dell'energia elettrica (si parla di 25 lire il kw.) può significare non solo il buio nelle case delle masse, ma il chiaro sul suo vero ruolo di difensore dei dividendi degli azionisti delle compagnie di energia elettrica; ma è ugualmente evidente che la paralisi generale risultante da queste fatto, paralisi cui non si potrà ovviare in meno di una o due anni, a sua volta dimostrerà il valore operettistico delle dichiarazioni che vengono fatte sulle intenzioni di nazionalizzare i servizi di cosiddetta interesse generale.
In realtà le nazionalizzazioni vengono fatte solo allorché la branca sottoposta alla cura o lasciata a se stessa, fallirebbe e l'intervento dello Stato rappresenta così un salvataggio in extremis degli interessi capitalisti ivi investiti. Come si vede i fatti sono sufficientemente eloquenti di per se stessi, e se ancora qualcuno non riesce a vederli, non è certo cosa che testimoni a favore della sua intelligenza.