DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Non occorrevano quattro mesi, alla critica marxista, per ricondurre la guerra in Corea alle sue proporzioni reali, a fissarla nella sua cornice storica. Non era un episodio contingente o locale, un caso, un deprecabile incidente: era una fra le tante, e certo tra le più virulente manifestazioni di un conflitto imperialistico che non ha paralleli né meridiani, ma si svolge sul teatro di tutto il mondo, nei limiti di tempo internazionali dell'imperialismo. I suoi protagonisti non erano né i coreani del Nord rivendicatori di un'unità nazionale spezzata, né i coreani del Sud araldi di un diritto e di una giustizia violati; ma le milizie inconsce e l'ufficialità prezzolata dei due grandi centri mondiali del capitalismo, entrambi protesi per un'ineluttabile spinta interna verso il precipizio della guerra. Non in palio erano la libertà, il socialismo, il progresso, e le mille ideologie in lettera maiuscola di cui è cosparso come di tante croci il cammino della società borghese, ma i rapporti di forza e le condizioni di sopravvivenza dei due massimi sistemi economici e politici del capitalismo, America e Russia.

 

 

 

E non aveva senso porre la questione, cara agli azzeccagarbugli di tutte le guerre, di chi fosse l'aggredito e chi l'aggressore, poiché aggressivo è sempre l'imperialismo e, come è vero che la pedina russa è stata la prima a varcare un ridicolo e assurdo parallelo (espressione anch'esso di una particolare fase dei rapporti di forza fra i due imperialismi), così è vero che su scala mondiale la più violenta forza di espansione e di aggressione, poco importa se tradotta in armi o in dollari o in scatolette di carne conservata, è quella che cova nelle viscere del gigantesco apparato produttivo degli Stati Uniti. Ma su un piccolo spazio si condensava, stringendo i tempi, tutto l'arroventato potenziale esplosivo di un contrasto mondiale, e più che in qualsiasi precedente episodio di guerre localizzate si proiettavano come su uno schermo tragico le forme che questo contrasto è destinato necessariamente ad assumere in tutto il mondo - lo spregiudicato sfruttamento da parte americana di macchine e ordigni di guerra, di lavoro accumulato, di capitale costante; l'altrettanto spregiudicato impiego di carne umana, di lavoro vivo, di capitale variabile (se così si potessero volgarizzare in termini di economia marxista le manifestazioni esterne del conflitto) da parte russa. E, insieme, questa particolarità, valida soprattutto per i Pesi asiatici: che la spinta russa - volta assai più a premunirsi dalla marcia incalzante del dollaro, che ad aprirsene una propria - si aggrappa ad un sottosuolo sociale in fermento, alla possibilità di far leva su stratificazioni borghesi insofferenti delle ultime sopravvivenze del passato, su ceti contadini in illusoria fame di terre, su masse proletarie sfruttate ed illuse (non per nulla lo stalinismo ha lì bandito la famosa tattica del "blocco delle quattro classi"), mentre la spinta americana non ha a suo sostegno che la gigantesca armatura del suo apparato produttivo dilatato fino ai limiti dell'inverosimile. Ancora una volta, la guerra portava all'esasperazione lo sfruttamento economico e politico delle masse lavoratrici, l'opera di spietata distruzione di beni e di forza-lavoro che è l'appannaggio storico inevitabile del capitalismo.

 

Non era guerra in Corea, ma guerra nel mondo. E la "pace", la fine ormai prossima del conflitto col tradizionale abbandono delle forze lanciate nel massacro dal padrone strapotente e la loro parziale riutilizzazione in fasi successive in rinnovati esperimenti partigiani - che sarà un altro modo di continuare la guerra vera oltre le finzioni di una pace illusoria, - ha subito riaperto lo scenario di nuovi conflitti: e l'Indocina sembra essere, fin da oggi, l'anello immediatamente successivo del conflitto palese. La macina dell'imperialismo non ha soste.

 

 

 

E, come non ha soste nel tempo, non ha soluzione di continuità nello spazio e nelle sue manifestazioni morbose. Chi può dire che la guerra sia più in Estremo Oriente o più in Europa, dove, di qua come di là dalla barricata, il sudore dei proletari è sfruttato, come ieri alla ricostruzione, oggi all'epilogo storico necessario della ricostruzione, cioè alla preparazione di armi di guerra? Dove lo Stato stringe, non certo per virtù o capacità proprie, ma sotto la pressione costante del dominatore internazionale, sia esso l'America o la Russia, le maglie del suo apparato di repressione, di intervento economico, di accentramento e, insomma, di guerra? Dove partiti e organizzazioni cosiddette di massa non hanno, apertamente, altro contenuto e motivo di lotta che la mobilitazione senza cartolina precetto di carne proletaria da cannone per questo o quel dominatore imperialistico? Dove all’antica formula "burro o cannoni", si lancia apertamente il grido "pane e cannoni", cioè armi e, se possibile, solo pane? Dove insomma tutto è schieramento di guerra e di difesa del regime internazionale di sfruttamento del proletariato, partiti democratici di governo e partiti democratici di opposizione, associazioni padronali e sindacali, organizzazioni di massa legate alla parrocchia nera o alle mille sottoparrocchie "rosse"?

 

 

 

Corea è tutto il mondo; coreani i proletari di tutti i paesi, vittime predestinate del terzo macello. Il capitalismo che li divide in barricate opposte, li unifica involontariamente, per la logica stessa del suo sviluppo, in un comune destino. Per la critica marxista, l'imperialismo è la traduzione in forma spettacolare e violenta della crisi permanente di una società in putrefazione: la sua terribilità, la gigantesca spietatezza della sua marcia, non velano ai suoi occhi la realtà che i gazzettieri, i teorici, i sacerdoti laici e religiosi della società capitalistica hanno lo stesso interesse a nascondere dietro le cortine di fumo della stampa o dei cannoni - la realtà che l'imperialismo, come porta alla sua massima esasperazione e tensione le manifestazioni di violenza, di arroganza, di oppressione del modo di produzione borghese, così porta e porterà sempre più al vertice i suoi contrasti interni, le ragioni obiettive del suo disfacimento, la capacità d'urto delle forze soggettive che, nate dal suo grembo, saranno chiamate a distruggerlo. Se la guerra trova la sua base di partenza nella sconfitta della classe operaia, se le imprese dell'imperialismo trovano la strada segnata dalla parabola discendente della rivoluzione internazionale, nella sua dinamica sono contenute le ragioni della ripresa rivoluzionaria del proletariato. La bomba atomica potrà essere o non essere usata dall'imperialismo, come strumento tecnico di guerra; quella che l'imperialismo non potrà evitare di tirarsi addosso, per quanto grande possa apparire e sia oggi la sua strapotenza, è l'atomica della rivoluzione internazionale ed internazionalista della classe operaia.   

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