DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

 
IERI
 
Pippetto ci pensò sopra 294 giorni, e poi partì. Pippetto politicamente non era un imbecille; militarmente non aveva «le phisique du rôle». Non solo non poteva compararsi ai guerrieri dei tempi di ferro, e avrebbe fatta una figura curiosa se avesse tentato di misurarsi l'armatura di Can Grande o di Ettore Fieramosca; ma, quando ci appressavamo in costume adamitico al Consiglio di leva, ci spiegava il carabiniere competente che avevano abbassata la misura di un centimetro, perché Pippetto non dovesse in partenza fare gettito di una sicura carriera, sia pure in fanteria.
 
Comunque gli uomini non si misurano a palmi, la tecnica militare si era bene evoluta dal medioevo e dintorni. Pippetto era una persona seria, fece gli studi d'impegno, non si esaltò per le greche sul berrettino, e si guadagnò un bell'epiteto: il Re soldato. Chi si vantò di averlo deciso a partire il 294.mo giorno del conflitto europeo, ed era un maggio radioso, aveva anche il monopolio del maneggio degli aggettivi; e quello di soldato non gli piacque, a lui, Gabriele D'Annunzio. La parola soldato non traduce certo il latino miles, e non risponde alla definizione di chi parte per la guerra per il suo piacere, o per obbligo civico. Soldato viene da soldo, ossia dalla paga che riceveva il mercenario, che combatteva per professione; e si ingaggiava per il migliore offerente. Esprime quindi venalità; e Gabriele foggia per sé il termine di Poeta-Eroe, quando, essendo egli partito, qualcuno si azzardò a dire Poeta-Soldato. L'Eroe, come a tutti è noto, si fa gratis.
 
Partirono in diversi, occorre dirlo. Caporale di fanteria, partì un altro uomo semplice, senza levarsi il pince-nez e senza accampare le diottrie, come bassamente praticarono quelli cui non sortì da natura afflato eroico, ed era questi Leonida Bissolati, socialista tralignato nel riformismo e nel patriottismo, che, se pagò di persona, non rese che più grave la portata della deferenza progressiva dalla politica rivoluzionaria della gioventù. Partì e cadde non meno risolutamente qualcuno della estrema sinistra come Filippo Corridoni; molti altri partirono come Pippetto, e partì il più famoso, che non cadde ma si ferì in un incidente di apprentissaggio: imboscato, e intriso di sangue, un traditore resta un traditore. Il buon Scalarini disegnò sull'Avanti una vignetta con due personaggi dalla stessa faccia ma con abiti diversi: la leggenda era: Il socialista Mussolini fucilato dal caporale dei bersaglieri, Mussolini.
 
Pippetto, per tornare a lui, cui non potemmo in effetti rinfacciare il classico armiamoci e partite, avrebbe dovuto muoversi il 4 agosto 1914 per fare onore ad una firma. Era quella messa al trattato della triplice alleanza con Austria e Germania, fondata al chiaro fine della partecipazione alla lotta tra i due gruppi che tendevano alla egemonia europea. Ma non si marciò secondo quanto si era firmato: forti sarebbero state le azioni di disturbo ad una guerra contro la Francia e l'Inghilterra; dai monarchici di sinistra agli anarchici si sarebbero tutti rifiutati all'ordine di mobilitazione; e i pacifisti teorici della lotta politica come Turati non esitarono a dichiarare senza riserve che a una simile dichiarazione di guerra avrebbero risposto, anche loro e tra i primi, con la insurrezione di piazza.
 
Passarono quei giorni tante volte raccontati, e a poco a poco la «soddisfazione di avere evitata la carneficina» si mutò - è sempre andata così - nella irresistibile fregola di fare la guerra, nella agitazione per l'intervento contro l'Austria. «Vinto o vincitore mi ricorderò di te» - il terribile telegramma da Berlino non impedì al monarca costituzionale di seguire con accorto passo il gioco degli eventi: ad opporsi alla nuova politica furono cattolici e giolittiani, nella manovra parlamentare ma con esplicita dichiarazione che mai avrebbero create difficoltà alla mobilitazione antitedesca. Preoccupava solo il partito socialista, cui nell'Ottobre 1914 il caporale Benito non aveva asportato che poche e non maestre penne. Avrebbero i socialisti disturbata la mobilitazione e la guerra, o si sarebbero contentati di disapprovarla?
 
Il 19 maggio a Bologna, Direzione del Partito, Gruppo Parlamentare e Confederazione discutono se fare lo sciopero generale contro la mobilitazione. Una estrema sinistra fin da allora premette che solo il partito, e non deputati e capi sindacali, dovrebbero decidere il problema politico, e a questi rinfaccia di temere non il fallimento ma la riuscita dell'azione. Nella esitazione del grosso, dalla estrema destra la voce reale di Turati risponde che è vero, riconosce la logica organicità della posizione del disfattismo rivoluzionario, e apertamente depreca con argomenti di patriottismo le conseguenze di un qualunque sabotaggio mentre l'esercito muove sulla frontiera.
 
Malgrado i socialisti italiani, Pippetto partì. Fermò con sufficiente fermezza e buona dose di fortuna la fuga di Caporetto; e ancora una volta Turati pregò con lui i numi della Patria librati sul Piave e sul Grappa; gli ingenui giovani di sinistra, se lo avessero potuto, avrebbero pregato l'ombra di Marx perché non cadesse anche sul socialismo italiano l'onta del difesismo fino al voto dei crediti di guerra e ai ministeri di unione sacra.
 
Lo sviluppo di queste storiche fasi fece un poco traballare la borghesia d'Italia, e non poche cose le apprese: le attitudini ad imparare nuove vie dai nuovi eventi non le sono mai mancate. Disgraziatamente non mancano nemmeno ai capi proletari, che ne imparano velocemente di tutti i colori. La guerra trova sempre mezza Italia che la vuole e mezza che non la vuole; dopo poco quella prima metà diviene neutralista e quella seconda vuole la guerra rovesciata: tutto ciò aumenta i rischi del grande affare politico ed economico che la guerra contiene. Due mezze Italie non vogliono dire metà e metà degli italiani: la guerra in qualunque senso, novantanove su cento non la vogliono sicuramente, ma tutto avviene nell'altro uno per cento: esso infatti è «l'Italia», in linguaggio nostro: gerarchie, burocrazia, inquadramenti di organizzazioni e partiti, rappresentanze politiche varie... La borghesia, e non torniamo a narrare neanche questo, si dette a farsi una gerarchia unica. Quando si profilò la seconda guerra, la possedeva.
 
È molto strano; anche questa volta passarono 284 giorni, dieci di meno dell'altra volta. Vi era, ben si capisce, il novantanove per cento dei 43 milioni (e degli 8 milioni di baionette) che non chiedeva altro che di restare a casa. Tra gli elementi attivi politici indubbiamente vi erano quelli favorevoli alla guerra e al firmato impegno del «Patto d'acciaio», e avevano il coltello dalla parte del manico: si vede che l'acciaio era più cedevole del previsto. Vi erano, di più, ma non potevano parlare, se non in parte dall'estero, i fautori del nemico. Brontolarono e si agitarono nell'ombra. Subito, e poi sempre, la sinistra democratica filoinglese e filofrancese per la pelle, di cui erano venuti a fare parte decisiva i cattolici, «messo il Maometto del Voltaire dall'un canto». Un poco più tardi i comunisti legati alla Russia. Dovettero attendere il via un bel pezzo, e il conto dei giorni se lo facciano loro: Stalin il 28 settembre 1939 stipula il patto di amicizia e confinario con la Germania, il 22 giugno 1941 scambia coi tedeschi le prime cannonate. Ponderato Benito, ponderato Pepito.
 
Comunque, se il caporale Mussolini era partito il 24 maggio, il maresciallo partì il 10 giugno: partono sempre, alla fine. Tanto che l'8 dicembre 1941 parte Hiro-Hito, e sentendo rumore parte Delano. Pippetto avrebbe riflettuto ancora di più prima di firmare per la mobilitazione, a costo di nuovi telegrammi da Berlino; stavolta aveva imparato che i vinti non sono in grado di ricordarsi di nessuno, da che la moderna civiltà ha incamerato, integrandoli, i dati etici del cristianesimo e del liberismo borghese. Se ne stette al Quirinale, meditando come possa un re di tradizione costituzionale inserirsi in uno sciopero di patrioti e di benpensanti contro la guerra in atto, in quella operazione difficile della storia che è stata chiamata «resistenza».
 
La elegante manovra: ora passo dall'altra parte, tradizione radiosa di una dinastia e di un popolo, non era tutta lì. Non eravamo nemmeno alla neutralità. 10 giugno 1940, dalla «non belligeranza» alla guerra. 25 luglio 1943, cambio del maresciallo, ma «la guerra continua». 8 settembre 1943: dalla guerra alla pace: armistizio firmato da Pippetto e fuga veloce a Pescara. In un secondo tempo l'Italia passerà dalla pace alla nuova guerra antitedesca. L'Italia? vogliamo ammettere che ne facciamo parte tutti, dalla vetta d'Italia alla punta di Cala Maluk a Lampedusa, ma sapere chi la tenga in tasca è un'altra cosa. Fino a quel momento era passata da qua a là tutta di un pezzo, volenti e nolenti, brontolanti e resistenti. Da questo punto le cose si imbrogliano. I tedeschi scendono fino a Salerno e rimettono su Benito nel potere ufficiale; gli americani arrivano dal Sud e pongono al potere, appena illuminati da Palmiro, il classico Pippetto e quanto meno il figlio. Nella repubblica sociale del Nord il dovere legale è di «partire», quello politico morale, dicono, di resistere: vige per tutti quelli la cui credenza si aggira nel cerchio non breve: Pacelli, Churchill, Truman, De Gaulle, Spaak, Stalin e chi più ne ha più ne metta. A Sud il dovere è per un certo tempo la neutralità, e il dovere etico l'arruolamento volontario con gli alleati, fino a che l'Italia democratica, già romana, ancora monarchica, «dichiara la guerra alla Germania». Si parte di nuovo: l'evento stavolta è tanto grande che siamo colti in fallo, la data esce dalla nostra cultura storica e ci viene meno il conto dei giorni: questo trenino dei memorabili eventi si ferma a troppe stazioni. Per toccare quella, finalmente, pippetticamente, della Vittoria, guardate come siamo bravi: 9 maggio 1945. Ricetta infallibile di tutte le partenze. Cittadino segnato nelle liste di chiamata, le hai viste tutte ed hai una ricca esperienza: la deflagrazione del 4 agosto, il maggio radioso, Monaco, Danzica, la dodicesima ora, ed il giorno V. Sappiti regolare. Sappi che se ne ricorderanno tutti, di te.
 
 
OGGI
 
L'interrogativo incombe ancora una volta: si parte? Resteremo trecento giorni in cappella, come le altre volte, se il mondo andrà a fuoco; o sentiremo tosto l'invito cortese: signori, in tradotta? Quale allora l'imperativo? Non intendiamo parlare dell'imperativo del carabiniere, questo strano essere che talora esegue gli ordini del Capo del governo, ministro per l'Interno; talora lo mette dentro. Parliamo dell'imperativo storico, etico categorico, politico e civile, e ci raschiamo la gola. Dappoiché è mestiere ripassare un poco il «Fatto», che ci siamo onorati di brevemente esporre in quanto sopra, alla luce della... Filosofia del Diritto.
 
Sotto il profilo strettamente giuridico, al 4 agosto 1914, posto che i profili giuridici e contrattuali alla scala internazionale non fossero stati «chiffons de papier», e fosse stato dato l'ordine di mobilitazione triplicista, il cittadino doveva partire. Che cosa eccepire? La costituzione c'era, le elezioni c'erano state, il governo legale c'era, il trattato c'era con tutti i suggelli in ceralacca, il re e la lucerna del carabiniere del distretto erano allo stesso grado costituzionali: partire. Eppure, se come sibilla del Dovere storico e civico avessimo preso, non l'ultimo fesso, ma un Filippo Turati, oramai fautore dei mezzi legali di agitazione politica e sociale, avversario dell'impiego della violenza, nemico di ogni dittatura e colpo di forza con cui i partiti si fanno ragione sui non convinti, egli avrebbe dettato: non presentarti, non partire, diserta, scendi in piazza, spara sulla polizia, butta giù il governo triplicista.
 
Ma che Turati: sarebbe bastato consultare un redivivo Cavallotti, peggio, un Orlando, cattedratico di diritto costituzionale. Allora? La guerra triplicista non vi fu e questo bel fatto non si vide; vi fu quella antitriplicista e già sappiamo che avvenne: ubbidite tutti. Stavolta le considerazioni procedurali e giuridiche collimano con quelle etiche, tutt'al più era permesso di opinare, fino alle ore 24 del 23, che la guerra fosse meglio non farla, ma a cartoline partite nessuno discuta. La guerra è legale, è bella, è democratica, è santa al tempo stesso. Transeat.
 
Passano gli anni e vengono le nuove date. 28 ottobre 1922. Giuristi e filosofi si dividono in due campi. Da una parte non solo tutto va bene, il nuovo governo fascista ha in regola tutte le carte e soprattutto il consenso di tutto il popolo italiano unificato e dimentico di divisioni in partiti; dall'altra si inficia dalle radici la legittimità dei poteri, e più si inficerà andando avanti, dopo i fattacci del '24, le leggi eccezionali del '26. Il governo dello Stato è illegale, è stato portato al potere violando sia la costituzione che la sovrana volontà popolare, e Pippetto, quando ha stracciato la bozza di decreto di stato d'assedio chiesto da Badoglio, ha sbagliato filosofia, sbagliato giure.
 
Compulsiamo monarchici come Agnelli, Albertini, Amendola, per non dire dei repubblicani, socialisti e piano piano perfino pipisti, e sentiremo che gli ordini del governo, della polizia, e se del caso dello Stato Maggiore, sono fuori del diritto: tu non ubbidirai. Iniziata la guerra, e fino a che governo, polizia ed autorità militare tengono di fatto tutto il territorio, chi si rifiuta è fucilato come disertore davanti al nemico; ma per tutta quella gamma politica non solo è lecito, ma doveroso organizzarsi in formazioni di «patrioti» o «partigiani». Si invitano così i seguaci di tutti quei partiti (e noi ci riferiamo costantemente ai non rivoluzionari, non anticostituzionali in principio) non soltanto all'azione armata e all'uccisione degli avversari, ma al preciso maggiore rischio che distingue dal soldato coatto l'irregolare: non si può essere fatti prigionieri, se si è sopraffatti e presi si viene fucilati sul posto.
 
Ufficiali, magistrati, parroci, perfino ufficiali delle forze di polizia non solo hanno fatto, - e sia riconosciuto - ma hanno questo moralmente e talvolta con la forza preteso. Quando in due parti del territorio nazionale vi sono stati due governi di fatto in guerra tra loro, ed ognuno di essi alla luce del diritto definiva l'altro un governo di ribelli, il singolo cittadino non aveva scelta al di fuori delle due posizioni: o disertore: fucilabile - o combattente: fucilabile. Non fucilabile solo durante lo scontro come in ogni guerra nazionale o civile, ma «legalmente» id est contro muro.
 
Sembra ovvia la conclusione: si filosofi come si vuole, ma una simile situazione giuridica può essere accettata, non può essere imposta. La legge sulla coscrizione attribuisce al singolo cittadino un onere grave senza compenso, quella di portare le armi per difendere lo Stato. Tale onere era nelle antiche società, logicamente, un onere di classe: lo schiavo romano non partiva, partiva in guerra il cittadino libero, che era parte dello Stato coi relativi vantaggi. Il servo medievale non partiva, partiva per lui il signore, che era anche tenuto a difendere il campo su cui il servo sgobbava, in caso di minaccia. Se altri combattenti servivano, erano assoldati, non solo dietro compenso, ma con alcune convenzioni abbastanza in regola con una decente «filosofia del diritto». Chi sopraffatto gettava l'arma era in potere del vincitore, salva la vita, con diritto alla libertà se pagava riscatto, coi soldi del suo provento professionale.
 
Lo Stato borghese moderno non fa combattere i soli borghesi e possidenti, il che sarebbe assai utile, ma, assumendo in dottrina di non essere Stato di classe ma bensì di popolo, visto che ogni cittadino ha gli stessi diritti politici, fa combattere tutti e non li paga. Contro questo impegno vi sono alcune garanzie convenzionali, che dovrebbero essere almeno rispettate quanto le garanzie tra mercenari del tempo pre-borghese, in cui filosofia e senso giuridico - è o non è così? - non avevano tanto camminato! Tra queste garanzie è quella che il componente di eserciti statali regolari, combattente per obbligo di legge, se preso dal nemico ha salva la vita, e dopo finito lo stato giuridico di guerra la libertà.
 
Uno Stato che non è in grado di assicurare queste garanzie perde la facoltà giuridica di «coscrivere» i suoi sudditi. E garanzie del genere sono in piedi quando lo Stato non è esposto ad essere espulso dal diritto per dichiarazione di una parte organizzata della società nazionale, durante e dopo la guerra. Può offrire storicamente tali garanzie lo Stato italiano di oggi? Non più la monarchia di Pippetto, il regime di Benito, ma questa repubblica di Stenterello? La monarchia di Pippetto fece gioco chiaro nel maggio radioso allorché, stringi stringi, la situazione era di diritto; molti gruppi avevano deprecato la guerra, ma nessuno, poiché la piccola corrente leninista del P.S.I. non ebbe azione autonoma, aveva diffidato lo Stato che la avrebbe convertita in guerra civile. Chi partiva faceva conto su una sola alea: essere ammazzato dagli austriaci. Purtroppo ne ammazzarono oltre seicentomila. Il diritto, al fondo delle sue filosofie, si riduce ad un computo di alee. Ma la monarchia di Pippetto dieci mesi prima, messa in mora dalla minaccia della insurrezione antitriplicista, aveva avuto la saggezza di non marciare.
 
Il regime totalitario marciò, pur sapendosi che tutta una serie di gruppi più o meno nascosti lo metteva in mora. Mise loro in mora in partenza come antinazionali. Chi volle scelse la sua alea di antistatale e lavorò al sabotaggio dell'azione militare fascista di fuori e di dentro. Quando le vicende della guerra crearono in Italia due diverse aree di diritto e di potere venne lo sconquasso, e nelle rappresaglie tra i gruppi avversi, se entrò in vigore la prassi della guerra civile che non ha perdoni per il vinto, né mai storicamente ne ha potuti avere, avvenne una serie di tragiche ripercussioni su tutta la popolazione che i vari partiti e poteri avevano impegnata in lotta e mobilitata a volta a volta, prima che gli illegali e gli irregolari della resistenza pervenissero a dichiarare fuori di legge i regolari di ieri, e a fondare il loro Stato.
 
La repubblica di Stenterello è stata fondata ed è condotta da partiti e da aggruppamenti che tutti affermano possibile anche da parte di minoranze la «denunzia» del potere legale quando su dati punti si opina diversamente dalla sua prassi, poiché lo hanno fatto al tempo fascista. È vero che in un primo tempo hanno così «filosofato»: il fascismo è il solo movimento che, avendo calpestato i sacri diritti dell'uomo, va così trattato. Spazzato via questo, con tutti i mezzi possibili, si ritornerà alle garanzie normali ed alle regole democratiche «del gioco».
 
Tuttavia, a ben pochi anni di distanza, hanno tutti già dichiarato che esistono possibilità di dover trattare i gruppi attualmente organizzati, così come allora fascismo e nazismo furono trattati. Dunque questa repubblica che giurò dinanzi a cielo e terra che si doveva tutto soffrire per fondarla, contro l'impegno ad una civile unità di «convivenza» e di «emulazione» delle diverse opinioni, oggi che si è, nel suo personale politico di ieri, divisa in due tronconi, faccia pure dai due lati la chiama di volontari irregolari e partigiani neri o rossi, ma capisca che se Pippetto esitò, e gli venne semibuona, se Benito arrischiò, e gli venne male, conviene evitare una mobilitazione di Stenterello mal sorretto dal bastoncello con Pacciardi per colonnello. Mancano ad uno Stato uscito da così recente illegalismo i presupposti di diritto per coscrizioni di guerra, e la commedia che mutò il rovescio militare in surrogato di vittoria non può sfociare per il popolo italiano in un guaio maggiore di quello capitato al Giappone, e alla stessa Germania. Il primo dice: mi avete fatta la cura contro il militarismo: bene, ora non porto più il fucile per nessuno. Quanto alla seconda, divisa tuttora in due tronconi, non sarà uno scherzo per nessuno dei due regimi sperimentare mobilitazioni e coscrizioni.
 
Due gruppi di partiti hanno vinto il vecchio partito di governo non nella guerra civile ma sfruttando le vicende di quella tra Stati stranieri. Hanno appena fondato uno Stato nuovo di diritto, che si sono scissi e reciprocamente denunziati rei della stessa colpa, la minaccia di aggressione, che fu base dell'illegalismo di allora. Quale dei due gruppi sia al potere, è storicamente, filosoficamente e giuridicamente carente della facoltà di obbligare me, cittadino Pinco Pallino, a fare la guerra, carente di quella di processare per diserzione.
 
Questa filosofia a chi la vai a raccontare? Al carabiniere del distretto? O al ministro della guerra, che non sarebbe tale se non avesse organizzati i disertori? Pinco Pallino, rispettoso delle autorità, conformista, ingenuo, ne vorrebbe, alla vista della cartolina rosa, fare oggetto di un regolare ricorso all'Alta Corte Costituzionale, perché cartolina e chiamata siano dichiarate nulle e carenti di diritto. Può egli essere esposto ad essere incolpato, processato, condannato e se occorre fucilato, oggi per non voler compiere atti di guerra, e domani per non aver colto il tempo giusto ed aver tardato ad operare il disfattismo della stessa guerra? Si può fargli carico una ennesima volta di risolvere il tremendo problema: domani a comandare chi sarà?
 
E se si rimette a lui, in nome del sacro diritto della persona umana, di scegliere tra i due contendenti, allora conviene che lo si lasci combattere per chi vuole e se vuole. I caporali ci tolsero l'umido or sono trentacinque anni: oggi vedremo partire, verso Oriente o verso Occidente, tutti colonnelli. Ché se poi davvero, malgrado la fragilità della posizione, malgrado che la opposizione pronta a parole ad ogni estremo disfattista non sia più una piccola ala di un partito di quarantamila aderenti, ma vanti gli iscritti a milioni, con sedi, giornali e soldi ovunque, gli Stenterelli riusciranno a funzionare come un solido potere poliziesco e militare, riusciranno a forza di dollari e di tridui al dio degli eserciti a formare e far marciare le divisioni, sarà risultato veramente mirabile, in un paese ove non novantanove ma novecentonovantanove ne hanno le scatole strapiene ogni mille.
 
Questo miracolo lo avrà fatto un mago di potenza demoniaca: quello che fabbrica le alleanze e i blocchi politici multicromatici e camaleontici dalle cui spire le forze di ribellione escono svuotate e prostrate, chine e prone a tutte le soggezioni, materiale maturo alla schiavitù militarista, la più idiota di tutte.
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