DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Dopo la lunga serie sulle “Peculiarità dell’evoluzione storica cinese” (pubblicata sui nn.6/2006 e 1/2007 di questo giornale), ci occupiamo ora della Rivoluzione Cinese del 1927, conclusasi – con la responsabilità primaria di un’Internazionale ormai stalinizzata – in un autentico bagno di sangue. Fu l’ultima grande battaglia di un decennio eroico per il movimento comunista mondiale, e la sua sconfitta, un anno dopo il tradimento e il boicottaggio dello Sciopero generale inglese e insieme allo scontro interno al Partito russo e all’Internazionale, segnerà l’inizio della più feroce ondata controrivoluzionaria sofferta dal movimento comunista, in cui purtroppo siamo ancor oggi immersi. Fra i tanti materiali di partito dedicati all’argomento, ripubblichiamo, con minime variazioni, un articolo uscito su queste pagine nei nn. 6-7 del 1977, con il titolo “A cinquant’anni dal massacro di Shanghai”.

 

CINA 1927: RICORDANDO IL MASSACRO DI SHANGHAI

Trotsky: L’Opposizione pensa che la direzione di Stalin renda la vittoria più difficile. Molotov: E dov’è il Partito? Trotsky: Il Partito, voi l’avete strangolato! 1

Il 23 marzo 1927, l’”Humanitè” (organo del Partito comunista francese) scriveva in prima pagina a fianco di un grande ritratto di Chiang Kaishek, leader del partito nazionalista cinese, il Kuomingtang, e generale delle sue armate: “Gli operai parigini salutano l’entrata delle truppe rivoluzionarie a Shanghai. Cinquantasei anni dopo la Comune di Parigi e dieci anni dopo la Comune russa, la Comune cinese segna una tappa nello sviluppo della rivoluzione mondiale”. In realtà, le “truppe rivoluzionarie” del Kuomintang non erano affatto entrate a Shanghai né, meno che mai, si doveva al loro arrivo la nascita di una “Comune cinese”. Si erano attestate invece a 25 miglia dalla metropoli, in attesa (come già le armate prussiane davanti a Parigi nel 1871 e, in futuro, come l’Armata russa di Stalin davanti a Varsavia nel 1944) che la sbirraglia del “signore della guerra” locale compisse a fondo il suo dovere massacrando il maggior numero possibile degli operai già da due giorni in sciopero. A Shanghai entrarono solo tre giorni dopo che i proletari e i popolani, soli e inermi ma fermamente decisi a non lasciarsi piegare dalla ferocia della repressione, si erano completamente impadroniti della città. Vi entrarono, beninteso, non prima di essersi accertate che, convinti dai loro capi politici e sindacali che Chiang e le sue truppe erano “uno dei pilastri della rivoluzione”, i rivoltosi avrebbero deposto le armi ai loro piedi e consegnato il potere nelle loro mani. Il giorno prima, la “Pravda” sovietica aveva fatto di più, scrivendo nell’editoriale del 22 marzo: “Le chiavi di Shanghai sono state cedute dagli operai vittoriosi all’esercito di Canton. In questo gesto si esprime l’atto eroico del proletariato di Shanghai”. In realtà, ormai da due anni, ma soprattutto da quando, in autunno, era cominciata la “Spedizione del Nord”, la prima cauta e difficoltosa, poi travolgente avanzata delle truppe nazionaliste nelle pianure della Cina centro-orientale non era mai stata il frutto di vittorie sul campo di cui potessero vantarsi i suoi generali e, in primo luogo, il suo generalissimo: era stato 1’eroismo di operai e contadini, levatisi in armi a occupare città e borgate e a cacciare dalle terre fecondate dal loro sudore i latifondisti, i mercanti e gli usurai, era stato questo eroismo a contagiare le truppe nemiche, scompaginandole, e ad aprire la strada alle truppe cantonesi dando loro le ali ai piedi. Neppure le cannoniere di Sua Maestà britannica avevano avuto il potere di fermare quei combattenti impareggiabili. Soli e male armati, gli operai d’industria e un folto stuolo di garzoni di botteghe artigiane o di piccole imprese avevano compiuto il miracolo di paralizzare Hong Kong dall’ottobre 1925 all’ottobre 1926, in uno degli scioperi-boicottaggio più lunghi e compatti che la storia ricordi. Soli e male armati, i proletari e i popolani di Hankow e Kiukiang avevano occupato nel gennaio 1927 le concessioni straniere, fra lo stupore sbigottito dei loro arroganti custodi.

Più che una campagna di guerra, grazie a questo eroismo la “Spedizione del Nord” era stata per Chiang Kai-shek una grande operazione di rastrellamento e polizia – e diretta assai più a frenare gli “eccessi” proletari e rurali, che a ripulire città e campagne dai poveri resti di eserciti in fuga, scioglientisi come neve al sole di fronte alla ferma determinazione delle masse insorte di abbattere fin dalle radici l’odiato ancien régime.

Ma se, il 26 marzo, le porte di Shanghai si aprirono a Chiang Kai-shek, e la gigantesca ondata di sciopero rifluì riconducendo nel letto dell’ordine costituito quella che si era annunziata come una possibile “Comune cinese”, il Galliffet di Shanghai non ebbe bisogno, per raggiungere quel traguardo insperato, né dei propri cannoni né della minaccia di quelli di Moltke2. La vittoria era già stata strappata di mano ai proletari da chi, sul posto o a Mosca, aveva additato nelle sue truppe “l’esercito rivoluzionario nazionale”, l’espressione in armi del “blocco delle quattro classi”; e, forse sospettando in quale tranello sarebbero caduti3, ma non trovando conforto al loro istintivo sospetto negli atti e nelle proclamazioni dei loro dirigenti, essi non gli avevano ceduto soltanto “le chiavi della città”: gli avevano ceduto tutto.

La controrivoluzione non ebbe perciò nessun motivo di scoprire anzitempo le carte del suo consumato “cannibalismo”. Bastarono quindici giorni a Chiang Kai-shek, da un lato, per ridar fiducia e coraggio agli industriali, ai banchieri, ai mercanti e, non ultimi, ai servi gallonati dell’imperialismo inglese, e dall’altro per ottenere che i proletari e popolani già vittoriosi si lasciassero persuadere, come dettava il Comintern stalinizzato, a “evitare di dar battaglia aperta”, a non turbare “la tattica di collaborazione di tutte le classi oppresse con il governo locale” e, “nascondendo o seppellendo le armi per prevenire un conflitto armato” con 1’esercito, a cedere una dopo l’altra le posizioni conquistate di slancio e tenute con stupenda fermezza. Solo dopo, il 13 aprile, sicuro di sé e dei suoi antagonisti, egli vibrò il terribile colpo di scure. Quante migliaia di proletari, popolani, contadini siano caduti in quei giorni a Shanghai e, nei mesi successivi, in tutta la Cina “liberata”, via via che le speranze del Comintern e del PCC si spostavano verso il “nuovo centro della rivoluzione” (il governo del Kuomintang “di sinistra” a Wuhan) e il dramma si snodava con altri personaggi ma nella monotona e bestiale ripetizione della stessa trama, non è e non sarà mai dato sapere. A “consolazione” dei superstiti dell’eroica battaglia non rimarrà che il cinico commento della “Pravda”: “Il tradimento di Chiang Kaishek non è giunto inatteso”, o quello di Stalin in persona: “La linea seguita era l’unica corretta. Gli avvenimenti successivi ne hanno confermato la giustezza”4. Ed è vero che, a lungo termine, neppure Chiang Kai-shek avrà partita vinta. Ma l’immane carnaio del 1927 cancellerà dalla storia per decenni la prospettiva di una rivoluzione democratico-borghese in Cina spinta fino in fondo dal proletariato come classe egemone, lasciando in piedi soltanto quella di una rivoluzione democratico-nazionale poggiante su armate contadine, e quindi fermata a metà, allo stadio soltanto borghese-interclassista e bloccardo: vale a dire, la prospettiva di Mao. Perciò, le vittime della feroce carneficina di quell’anno fatale attendono ancora d’essere degnamente vendicate: solo il proletariato rivoluzionario cinese e internazionale poteva, solo esso può, vendicarle.

A tanti decenni di distanza, sarebbe troppo poca cosa commemorare la tragedia cinese del 1927, che è nello stesso tempo quella dei minatori in Gran Bretagna nel grande Sciopero Generale del 1926, del Partito bolscevico in Russia e del movimento operaio e comunista in tutto il mondo. Non ha neppur senso chiedersi se allora sarebbe stata davvero possibile la vittoria. Ci sarà sempre un Bucharin – con un pizzico appena di ragione – a obiettare ai suoi contraddittori (e così giustificare il fatto compiuto come “ciò che doveva essere e quindi è stato”) che la Cina superava in arretratezza economica e sociale la Russia 1905, che il proletariato locale era troppo giovane, inesperto e da troppo poco tempo organizzato, che il partito era ancora in fasce e uscito da una matrice impura, che i Soviet, quand’anche fossero sorti, avrebbero mancato di guida. Come ci sarà un Trotsky – con molte più frecce al suo arco – a ribattere che ci sono congiunture storiche in cui, per il partito, un giorno vale anni e decenni e, come nel 1905 russo, le masse proletarie e quelle contadine al loro seguito accumulano un’esperienza e si formano una “educazione politica” che invece è loro negata in cicli interi di “pace sociale”, e ciò tanto più in quanto il prorompere mondiale dell’imperialismo capitalista riduce le distanze nello spazio e avvicina le ore nel tempo. Su questo piano, la polemica, che prolunga gli accesi dibattiti di allora, può durare in eterno nel vano alternarsi dei se e dei ma.

Il problema non è di speculare se sarebbe stata possibile nella Cina di allora una ripetizione se non dell’Ottobre (che è difficilmente ipotizzabile nel contesto non tanto di quell’anno, quanto del quadriennio mondiale precedente), almeno della Comune di Parigi o, meglio, del 1905 russo, come aveva anticipato Lenin proprio per l’Estremo Oriente. Il problema è di chiedersi, prima di tutto, perché il 1927 cinese non sia potuto essere una di quelle sconfitte che, in una prospettiva non meschina, equivalgono ad una gigantesca vittoria – internazionalmente come la sconfitta della Comune di Parigi, internazionalmente ed anche nazionalmente come la sconfitta della prima Comune di Pietroburgo nel 1905. E la chiave alla risposta a questo quesito iniziale è nella frase di Trotsky citata in apertura, se la riferiamo non solo al Partito russo ma all’Internazionale comunista, e se la retrodatiamo – come egli non avrebbe accettato di fare – per risalire alle radici storiche della débacle finale: “Il Partito voi l’avete strangolato!”. Il che non significava soltanto averlo ucciso come guida del proletariato e dei contadini poveri splendidamente insorti: significava averlo ucciso come forza che sopravvive alla sconfitta non avendo avuto nessuna responsabilità in essa, ed essendo perciò in grado di vederne confermate le proprie tesi, di trarne degli insegnamenti universali e duraturi, e quindi di riscattarla dall’accettazione rassegnata di un feroce “Guai ai vinti!”, per trasformarla nel preludio di lotte future, nella “prova generale” della rivoluzione trionfante di domani – come avevano potuto Marx nel 1871 e Lenin nel 1906-1917.

I proletari chiamati a un lavoro da manovali per i borghesi

In quello che si cominciava a chiamare con cinismo spudorato il “leninismo” – e che per Lenin non era altro che il marxismo rigorosamente svolto in tutte le sue implicazioni strategiche e tattiche, implicite ed esplicite – , la considerazione d’ordine generale (citiamo dalle nostre “Tesi di Lione”, scritte un anno prima in polemica diretta con l’Internazionale in corso di stalinizzazione) che “nei paesi coloniali e in alcuni paesi eccezionalmente arretrati [ ... ] anche prima che siano maturi i rapporti della moderna lotta di classe, sviluppati tanto dai fattori economici quanto da quelli importati dall’espansione del capitalismo, si pongono delle rivendicazioni che sono risolubili solo in una lotta insurrezionale e con la sconfitta dell’imperialismo mondiale” e, “quando queste due condizioni si verificano in pieno, la lotta può scatenarsi nell’epoca della lotta per la rivoluzione proletaria nelle metropoli, pur assumendo localmente gli aspetti di un conflitto non classista, ma di razza e di nazionalità”, tale considerazione generale è inscindibile – o crolla verticalmente – dai concetti fondamentali “della dirigenza della lotta mondiale da parte degli organi del proletariato rivoluzionario, e della suscitazione, non mai del ritardo o della obliterazione, della lotta di classe negli ambienti indigeni, della costituzione edello sviluppo indipendente del partito comunista locale” 5. In questa luce, la sola marxisticamente reale, la pietra angolare della strategia e della tattica proletaria e comunista nelle rivoluzioni duplici, come è codificata da Lenin in “Due tattiche della socialdemocrazia russa” (1905) e ulteriormente precisata nelle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” del II Congresso dell’Internazionale Comunista (1920), è tutta proiettata in avanti, mai all’indietro; è di avanguardia, mai di retroguardia; è di attacco, mai di copertura alle spalle di una borghesia cui si lasci il comando; è di autonomia, mai di codismo; ha come stella polare non il primo termine della “rivoluzione in permanenza” di Marx (il proletariato che lotta contro i “nemici dei suoi nemici”, con e accanto a questi ultimi), ma il secondo (il proletariato che lotta per sé contro “gli alleati di ieri”), e la segue con fedeltà rigorosa non limitandosi a levarle incensi giornalieri ma preparandosi fin dall’inizio ad applicarne i dettami, riesca o fallisca il finale “assalto al cielo”. Il che vuol dire guardare fin dall’inizio con fredda diffidenza leniniana (dirà giustamente Trotsky) 6, mai con fiducia, il compagno di strada (e ancor più l’alleato) temporaneo, denunciarne senza tregua le oscillazioni e le fughe all’indietro, strappargli di giorno in giorno le posizioni avanzate (ma retrograde, dal punto di vista del processo rivoluzionario), scavalcarlo in ogni iniziativa, allargare la propria influenza sui contadini contro la sua, e così operare ad un tempo per condurre la rivoluzione democratica-borghese fino al suo limite estremo e per gettare le basi del suo superamento nel quadro della rivoluzione mondiale proletaria.

Nella visione dello stalinismo ormai trionfante (parlino, in questo caso, Stalin o Bucharin, è la stessa cosa), la gigantesca prospettiva è capovolta, non perché egemonia del proletariato e indipendenza e direzione del Partito siano scomparse dal suo vocabolario (vi sono, al contrario, ripetute fino alla nausea), ma perché sono negate in dottrina e distrutte in pratica. Lo sono addirittura nei paesi a capitalismo non solo avanzato, ma fradicio! Nel corso dello Sciopero Generale inglese dell’anno prima e del lunghissimo sciopero dei minatori fino agli inizi del 1926 7, il “partito mondiale unico del proletariato rivoluzionario” arranca infatti a rimorchio del Consiglio generale delle Trade Unions, questo covo di crumiri e traditori, riconoscendo in esso “il rappresentante legittimo della classe operaia britannica”, o attende dai buoni uffici di fantomatiche “sinistre” sindacali l’abbraccio con l’Internazionale gialla di Amsterdam 8. Sono capovolte nell’unico paese in cui la rivoluzione proletaria abbia vinto, la Russia sovietica, e in cui il potere dittatoriale bolscevico isolato si assuma il compito di dirigere e controllare lo sviluppo del mercato nazionale capitalistico e del modo di produzione che gli corrisponde, mai subordinandosi ad esso e mai cessando di agire come “reparto avanzato della rivoluzione mondiale”: 1’egemonia della classe operaia sulle classi medie e sulla borghesia inevitabilmente rinascente viene ribaltata nella subordinazione ai loro diktat nell’economia, nei rapporti sociali, nella sovrastruttura politica e giuridica. Sono capovolte nell’immensa Cina in poderoso risveglio, dove lo stalinismo scopre che le “peculiarità” di un paese – come essa è – semicoloniale vietano l’applicazione non solo delle “Due tattiche” della Rivoluzione russa, ma delle stesse “Tesi” del 1920 esplicitamente redatte per quei paesi soggiogati dall’imperialismo, e universalmente valide e quindi vincolanti per tutti. Scopre che al centro della teoria marxista delle rivoluzioni duplici è l’appoggio in sé e per sé – e l’alleanza solo “in dati casi” (1’eccezione, dunque, non la regola; tutta la storia del bolscevismo mostra che neppure 1’eccezione è, in pratica, accolta e subita dal partito di classe) – ai moti democratico-borghesi rivoluzionari. E intende quell’appoggio come subordinazione all’egemonia nazional-borghese, non come proclamazione dell’egemonia del proletariato rivoluzionario alla testa dei contadini in rivolta, non come indipendenza del Partito che lo dirige quale presupposto e conditio sine qua non di questa egemonia; intende quell’alleanza non come cosa eccezionale e transitoria (nonché condizionata alla premessa dell’autonomia politica e organizzativa), ma come normale e duratura almeno in due tappe successive, e condizionata, proprio all’inverso, alla rinuncia all’autonomia politica e organizzativa del Partito di classe. Scopre insomma che un partito giovane e inesperto, quindi bisognoso di farsi le ossa alla dura scuola dell’isolamento dalla classe dominante e dal suo partito e dello stretto legame con la classe oppressa in vertiginoso sviluppo e in audace rivolta, dev’essere gettato nelle fauci del nemico, delegando i suoi militanti ad entrarvi individualmente, a rispettarne la disciplina, peggio ancora a “compiere un lavoro da coolies per il Kuomintang” (per dirla con Borodin!), cioè a conferirgli quell’organizzazione politica e militare che mai da solo sarebbe in grado di darsi; a convogliare nelle sue file le grandi masse praticandogli ripetute “trasfusioni di quel sangue operaio e contadino” della cui carenza soffre, e non può, per forza propria, guarirne; a non criticarne l’ideologia sunyatsenista (nazionalista borghese) per non “respingerlo nel campo dell’imperialismo”. Così come scopre che il proletariato ha, sì, davanti a se stesso la prospettiva della “egemonia nella rivoluzione nazionaldemocratica”, ma solo al termine di una serie di tappe durante ognuna delle quali, prima dell’ultima (così remota da sfumare nel nulla), non solo non è classe egemone (come determinazioni oggettive possono, certo, condannarlo a non essere), ma si rifiuta per principio di esserlo e divenirlo, perché il compito di portare a termine quella determinata tappa non spetta a lui – secondo il calendario scolastico e neomenscevico dello stalinismo – ma alla borghesia nazionale. E questo rifiuto si esprime, al vertice, nell’entrata del partito proletario di classe in un “blocco delle quattro classi” di cui esso sa e proclama tuttavia (Bucharin in polemica velata con Martynov all’VIII Esecutivo Allargato, maggio 1927)9 che è “diretto dalla borghesia liberale” e, durante e dopo il colpo di Shanghai, nell’adesione al governo “di sinistra” del Kuomintang considerato come “embrione del futuro governo rivoluzionario cinese” o addirittura come governo rivoluzionario tout court (del resto, per Stalin, già nel 1925 il Kuomintang era “un partito operaio e contadino”!), mentre, alla base, si esprime nella limitazione al minimo (sempre per non incarnare il fatidico blocco!) delle rivendicazioni operaie, dei postulati del programma agrario (per non alienarsi la piccola borghesia!) e soprattutto dell’armamento del proletariato e del contadiname (per non seminare panico e allarme nei ceti ben pensanti!).

Coerentemente, il partito, lungi dal salvaguardare la propria indipendenza, accetta non solo di dipendere dal partito nazionalista borghese, ma di “sforzarsi di farne un vero partito del popolo” 10 e addirittura, una volta consumata la rottura con Chiang e celebrato il matrimonio con Wang, di porsi come “compito principale” il “reclutamento più energico, nelle città e nelle campagne, delle masse lavoratrici nel Kuomintang, che deve essere trasformato il più rapidamente possibile in una vasta organizzazione di massa”!11. Insomma, lavora affinché sia l’organizzazione centralizzata e unitaria delle classi dominanti, resa più forte e compatta, a fare ai proletari e ai contadini poveri il favore del tutto disinteressato di preparare le condizioni necessarie e sufficienti della loro vittoria sulla borghesia grande e piccola e sulla proprietà fondiaria assenteista; quindi, sullo stesso... Kuomintang, di destra, di centro o di sinistra!

Responsabilità dello stalinismo

Fu dunque un proletariato, politicamente, organizzativamente e militarmente disarmato contro il suo stesso istinto di classe (e al quale si aveva tuttavia l’impudenza di far balenare una possibile “via cinese al socialismo” nell’atto in cui si distruggevano le basi stesse, internazionali e soltanto internazionali, di una prospettiva simile)12, e fu un partito condotto a sacrificarsi per rafforzare l’avversario di classe cedendogli perfino il segreto della centralizzazione organizzativa e dell’unicità di direzione politica, un partito suicida, quelli sui quali poté abbattersi il colpo del 13 aprile 1927. E poiché l’illusione di “spingere a sinistra” la borghesia e il suo partito per ottenerne la costruzione degli anelli successivi della propria vittoria non solo non tramontò dopo la tragedia di Shanghai, ma trasse nuovo alimento dalla costituzione di un “governo alternativo” a Wuhan, i cui Ministeri dell’agricoltura e del lavoro vennero affidati a comunisti, il disarmo del partito del proletariato s’aggravò, divenne completo. E se, dopo rinnovati massacri (peggiori, come bilancio complessivo, di quello di aprile, e più brucianti perché consumati dagli idoli più recenti in campo nazionalista), si dovette infine riconoscere inevitabile – ma imposta dal nemico – una netta e decisa rottura, fu solo per ritrovarsi ancora più inermi, ed essere gettati nel putsch assurdo e definitivamente demolitore di Canton alla fine dell’anno. Possiamo stupirci che, in tali condizioni, il partito di classe non sia sopravvissuto a trarre il bilancio del passato e a preparare le basi di un meno torbido avvenire? Possiamo stupirci che, a sua volta, il partito piccolo-borghese contadino di Mao abbia, sì, dovuto combattere contro l’ala più retriva della borghesia nazionale, ma non sia stato costretto a misurarsi con un nemico attuale o potenziale proletario, e quindi, nell’imminenza del pericolo, a ricongiungersi con essa contro l’avversario comune? Così lo stalinismo celebrava l’anno del suo trionfo, con una delle più terribili sconfitte del proletariato, la prima di una lunga serie.

Una titanica battaglia

Il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista, o meglio il Politburo del PCUS, aveva ordinato: il Comitato Centrale del PCC aveva, pur riluttante, eseguito l’ordine. La non-indipendenza del Partito di classe era stata solo l’altra faccia della non-dirigenza comunista (anzi, della dirigenza menscevica) degli organi mondiali del proletariato internazionale. “Comprendetelo bene – dirà Trotsky al termine della sua disperata battaglia per liberare il proletariato cinese e il suo partito dal cappio mortale in cui erano stati spinti a infilare la testa – non si tratta di tradimenti individuali di militanti cinesi del Kuomintang, di condottieri cinesi di destra o di sinistra, di funzionari sindacali britannici, di comunisti cinesi o inglesi. Quando si viaggia in treno, sembra che sia il paesaggio a spostarsi. Tutta la sciagura sta nel fatto che voi vi siete fidati di coloro che non avrebbero mai dovuto ispirarvi fiducia; che avete sottovalutato 1’educazione rivoluzionaria delle masse, la quale esige prima di tutto che si inculchi in loro la diffidenza per i riformisti e i vaghi centristi di ‘sinistra’ come per ogni mentalità del giusto mezzo in generale. La virtù cardinale del bolscevismo è di possedere questa diffidenza a un grado supremo. I Partiti giovani devono ancora, per il momento, acquisirla e assimilarla, mentre voi, voi avete agito e agite in un senso diametralmente opposto. Voi inoculate nei giovani partiti la speranza che la borghesia liberale evolverà più a sinistra, e la fiducia nei politici liberali operai delle trade unions. Voi ostacolate 1’educazione dei bolscevichi inglesi e cinesi. Ecco da dove provengono i ‘tradimenti’ che vi colgono ogni volta di sorpresa”13.

Fu una ciclopica battaglia per riconquistare al comunismo rivoluzionario e al proletariato di tutti i paesi la loro Internazionale, il loro Partito mondiale unico; una battaglia gelosamente tenuta a porte chiuse dal centro staliniano perché non infettasse la gloriosa via del “socialismo in un solo paese”, e della quale soltanto ora si possono leggere quasi tutti i testi, i discorsi, gli articoli, le lettere e i telegrammi con cui il C.E. del Comintern o il Politburo del PCUS furono bombardati, dalla seconda metà del 1926 all’autunno 1927, soprattutto ma non soltanto da Trotsky. Una battaglia infine, che, pur fra molte incertezze e lacune, fu l’unica nella Russia di allora a lasciare ai militanti proletari e comunisti dell’avvenire un patrimonio di principi riaffermati, di grandi generalizzazioni contrapposte al lurido empirismo dei “comunisti pratici”, di richiami costanti alla teoria contro il tatticismo eclettico e fellone degli “edificatori” di una realtà sprezzante di qualunque dottrina.

Ma era – qui è l’altro punto che va ben fissato – una battaglia perduta fin dal primo giorno, perché l’infezione menscevica del Partito russo e dell’Internazionale aveva ormai fatto troppa strada e nella sua rete l’Opposizione Unificata si dibatté con tutto l’ardore della grande milizia rivoluzionaria, ma era condannata a non poterne spezzare le maglie costruite in pochi anni (molti, tuttavia, in un’epoca di giganteschi sconvolgimenti sociali) con il suo certamente involontario contributo.

Alle radici di un ritardo storico mondiale

“Siamo già troppo in ritardo”, è la frase che ritorna martellante e piena di angoscia negli scritti dedicati da Trotsky in quei mesi a ribadire la necessità urgente di restituire al Partito la sua “completa autonomia” e al proletariato mondiale la sua guida bolscevica. Ma quel ritardo tragico era il ritardo dello stesso movimento comunista internazionale, un ritardo che non datava dal 1926- 1927, ma dal 1918-1920, e che, mentre aveva condannato la Russia bolscevica all’asfissia dell’isolamento (essa che nella rivoluzione mondiale sapeva di possedere l’unica garanzia di salvezza) aveva per ciò stesso condannato il Partito di Lenin alla fatica di Sisifo di cercar di superarlo temprando e trasformando “al calor bianco” della gigantesca fiammata di Ottobre partiti e brandelli di partiti cresciuti sul tronco della vecchia socialdemocrazia e avvicinati – soltanto avvicinati – a Mosca da non altro che dalla suggestione del momento e dalla pressione delle masse. Il tentativo, generoso e forse suscettibile di riuscire se l’onda rivoluzionaria dell’immediato dopoguerra non fosse rifluita, era – alla distanza – fallito. E aveva trovato conferma l’allarme invano lanciato dalla Sinistra “italiana” su un processo di formazione non rigorosamente selezionato e severo delle sezioni del Comintern, attraverso il quale non solo “la speranza in uno spostamento della borghesia liberale più a sinistra” e “la fiducia nei politici liberali operai” non avrebbero trovato il loro antidoto nella “suprema diffidenza” bolscevica – questa “virtù cardinale” del partito di Lenin – ma si sarebbero alla lunga trapiantate nelle sue file. Alla scuola di questa diffidenza (non morale, è chiaro, ma ideologica e politica) sarebbero dovuti crescere i giovani partiti, disse Trotsky nel 1927, o sarebbe stato inevitabile il disastro. Verissimo. Bisognava allora, fin dalla costituzione dell’Internazionale Comunista, respingere dalle sue porte i “politici liberali operai” dell’USPD in Germania e del centro Cachin-Frossard in Francia o Smeral in Cecoslovacchia, e non mandare 1’esile, immaturo Partito inglese a “formarsi un’educazione politica” in seno al Labour Party, sia pure con trasfusioni incessanti di Rinnegato Kautsky e Terrorismo e comunismo per immunizzarli. Non bisognava, come purtroppo si fece, rincorrere in Italia il fantasma di un massimalismo malgrado tutto “recuperabile”, a costo di distruggere la maggior parte del lavoro svolto con tenacia dal partito nato a Livorno nel 1921 per strappare alla sua mortale influenza il grosso dell’esercito proletario. Non bisognava allargare le maglie del fronte unico includendovi (o non escludendone) le intese interpartito e la collaborazione in parlamento con socialdemocratici e indipendenti tedeschi, né chiamare il Partito italiano nel 1924-1926 alla lotta sotto l’insegna della “libertà”, e in combutta con l’antifascismo aventiniano, contro il nascente totalitarismo in camicia nera. Non bisognava avallare con la casistica del “governo operaio” al IV Congresso mondiale l’ascesa dei comunisti tedeschi al governo, a braccetto con gli eredi di Noske e Scheidemann, in Sassonia e Turingia nel 1923 (il primo anno di atroce sconfitta nel quale Trotsky avrà ragione di indicare in anni successivi una delle cause obiettive della débacle dello stalinismo nel 1926-1927). Nel discorso dell’agosto 1927 che abbiamo più volte citato, l’indomito Leone vedrà lucidamente che, dalle direttive impartite dall’Internazionale stalinizzata al Partito cinese, quest’ultimo doveva trarre necessariamente, giovane e inesperto com’era, “conclusioni destinate a farlo approdare al centrismo”. In altre e ben più vitali aree storico-geografiche, nell’Europa pienamente capitalistica, quante volte lo stesso fenomeno (sia pure in forme meno virulente che nel caso della Cina) non si era verificato – come previsto da noi – nei giovani e mal nati Partiti comunisti occidentali, con sorpresa e sgomento della direzione del Comintern? Si era detto che la virtù suprema del bolscevismo e di Lenin era stata l’arte della “manovra”: ma la sua vera, inestimabile virtù era stata di iscrivere la manovra tattica scientificamente studiata nella più feroce rigidezza. A una simile scuola, nessuno dei grandi e decisivi partiti europei era stato fatto crescere: nel 1927, la storia presentava il suo tragico conto, e lo si dovette pagare. Un’altra via – che era poi quella battuta dal bolscevismo in tutto l’arco che dal 1902 porta all’Ottobre – era lunga, difficile e rischiosa. Forse non avrebbe potuto evitare, nell’immediato, la sconfitta. Era lunga, e i tempi, i fatti materiali, incalzavano. Ma, per dirla ancora con Trotsky nel 1927, la sconfitta è avvenuta egualmente, tutto distruggendo; la “via lunga” avrebbe salvato, nella disfatta, la vittoria della teoria, del programma, dell’organizzazione.Lo sentirono i poderosi militanti dell’Opposizione russa; ed ebbero la forza di condurre la loro ultima battaglia. In ciò è la loro grandezza. Ma la dura realtà dei fatti è che fu una battaglia tardiva e disperata: in ciò è quella che, altra volta, il nostro Partito ha chiamato una grandezza da tragedia classica.

E, nel suo quadro, il disastro cinese prende un rilievo che forse non ha confronti.

Politica di stato ed esigenze internazionali della lotta di classe

Quando le tesi Bucharin-Stalin per l’VIII Esecutivo Allargato diedero al PCC la direttiva di “conservare la sua indipendenza”, una volta ancora Trotsky rispose: “Conservarla? Questa indipendenza, il Partito cinese non l’ha mai posseduta” 14.

L’aveva perduta da quando, nel giugno 1922, a un anno dalla sua fondazione, il delegato del Comintern gli aveva imposto, obtorto collo, di far aderire individualmente al Kuomintang i suoi iscritti, e il Politburo (contro il parere di Trotsky, è vero, ma questi aveva lasciato cadere la questione) aveva ratificato la fatale decisione. L’aveva sacrificata da quando, accolti nel partito borghese-nazionalista di Sun Yat-sen, i comunisti cinesi avevano avuto ordine di lavorare per il suo rafforzamento organizzativo e per 1’estensione della sua influenza, coperta alle spalle dagli aiuti militari sovietici e dalla consulenza politica fornitagli dal Comintern, dal 1924 in poi, attraverso i suoi numerosi, successivi uomini di fiducia. Non nel 1927, ma nel marzo 1926, mentre Zinoviev era ancora presidente dell’Intemazionale, il partito già di Sun ed ora di Chiang era stato accolto nelle file del Comintern come “partito simpatizzante” (anche qui col solo voto contrario di Trotsky: ma è contro la stessa introduzione della figura anomala di “partito simpatizzante” che la nostra corrente si era levata già due anni prima, al V Congresso mondiale), e non v’è dubbio che la formula adottata nella risoluzione nello stesso Esecutivo Allargato sulla questione cinese (“Il governo di Canton, che personifica l’avanguardia del popolo cinese nella sua lotta per l’indipendenza, rappresenta un modello per la futura struttura democratico-rivoluzionaria del paese”) anticipava nella sua indeterminatezza le sbracate – e queste sì ben definite – formule di Stalin-Bucharin.

Troppe brecce si erano aperte al frontismo perché vi si potesse riparare in tempo; troppi appigli si erano forniti alla “logica formale” dei liquidatori per non rimanere irretiti nella loro bieca tagliola. Tutto il movimento internazionale – qui è la vera tragedia – aveva infilato la testa nel cappio che il boia si apprestava a stringere. L’Opposizione poteva soltanto ribellarsi alle terribili forze materiali che dal sottosuolo sociale ed economico premevano come irresistibili forze della natura sull’Internazionale e sul suo Partitoguida: non poteva più domarle. Altri fattori oggettivi premevano nella stessa direzione: ed è necessario analizzarli brevemente.

E’ nell’essenza delle rivoluzioni duplici che il terreno su cui nascono e si sviluppano sia irto di contraddizioni il cui nodo solo la rivoluzione internazionale può sciogliere. Devono insieme affermare compiti nazionali e democratici, e negarli; spianare la via al completo adempimento dei primi, e porre le basi del loro superamento globale. Il problema che, all’interno, assume la forma dialetticamente contraddittoria dell’espansione e, insieme, del dominio delle forze di produzione capitalistiche liberate dai ceppi mortificanti del feudalesimo, riveste, all’esterno, quella della costruzione dello Stato nazionale e della sua subordinazione al principio – senza il quale il Partito proletario e comunista rinnegherebbe se stesso e la sua funzione nell’intero arco della “rivoluzione in permanenza” – della “capacità e volontà, da parte della nazione che ha vinto la propria borghesia, di compiere i più grandi sacrifici nazionali per abbattere il capitalismo internazionale” (“Tesi” del 1920; parte I, par. 10). Sciogliere questo groviglio di nodi può solo la lotta di classe internazionale: per questo negli scritti di Lenin morente ricorre l’insistente domanda “Chi vincerà?”; per questo nella lettera di Bordiga a Korsch (1924) il vero interrogativo posto alla Sinistra internazionale è quale destino attenda la dittatura proletaria vittoriosa in un paese, specie se arretrato, qualora la rivoluzione nei gangli vitali del capitalismo imperialistico tardi. Il rapporto fra i due termini della rivoluzione democraticoborghese spinta fino al limite della sua “trascendenza” in rivoluzione anche economicamente socialista non è di equilibrio: uno dei due termini (per noi, è chiaro, il secondo) deve prevalere sull’altro. L’ascesa dello stalinismo in Russia non fu che il riflesso sovrastrutturale dell’inversione del rapporto originario delle forze, in assenza del dilagare dell’incendio rivoluzionario in tutto il mondo – un’inversione che sarebbe antimarxista rappresentarsi altrimenti che come un processo molecolare svolgentesi in profondità, ben al di sotto della superficie dei fatti empiricamente contestabili: solo la faciloneria dei “comunisti della frase” può credere che non sia un problema da far tremare le vene e i polsi quello di subordinare la “politica estera” dello Stato operaio vittorioso alle esigenze superiori della lotta internazionale per l’abbattimento del capitalismo! In Meglio meno, ma meglio (marzo 1923), Lenin volge lo sguardo ansioso dai paesi capitalistici dell’Europa occidentale che non compiono il loro sviluppo verso il socialismo con la rapidità con la quale ci si aspettava che lo compissero, e lo dirige verso quei paesi dell’Oriente che la guerra imperialistica ha “gettato fuori dei binari”, trascinandoli “definitivamente nel turbine generale del movimento rivoluzionario”. Analogamente, in una lettera top secret al CC del PC russo del 5 agosto 1919, subito dopo il crollo della Repubblica dei Consigli di Ungheria, Trotsky vede la rivoluzione europea, almeno in via temporanea, “ritirarsi nello sfondo”, e l’Asia “diventare forse l’arena dei prossimi cataclismi sociali”, mettendo la dittatura bolscevica, e tutti noi con essa, di fronte alla necessità di “spostare” in quella direzione, “al momento opportuno, il centro di gravità del nostro orientamento internazionale” 15.

Due facce contraddittorie

Ma, in tale prospettiva di una luminosità sfolgorante, le due facce contraddittorie del processo balzarono subito in luce: tanto era legittimo che lo Stato operaio vittorioso si creasse, se non degli avamposti, almeno delle “torri di controllo” e dei “punti di appoggio” difensivi (certo, non ancora offensivi) nell’estremo Est asiatico, avendo davanti agli occhi la minaccia soprattutto del Giappone, quanto era aperto ai più minacciosi azzardi il fatto che, per essere entrati di volta in volta nel mutevole, delicatissimo gioco diplomatico dell’URSS, il regime di Wu Pei-fu nel Nord, l’”esercito del popolo” di Fang Yuh-siang a Pechino, il governo nazionale di Sun Yat-sen a Canton, si convertissero in bandiere politiche della strategia mondiale comunista; che gli “uffici” aperti ora nella Siberia orientale, ora nella Cina propria, avessero insieme il carattere di agenzie di Stato e di rappresentanze dell’Internazionale; e che i loro dirigenti curassero insieme gli interessi del primo e le finalità della seconda – interessi e finalità che potevano, fino a un certo punto, coincidere, come, oltre un certo punto, potevano e infine dovevano divergere.

Sarebbe stato infantile non concludere trattati con la Cina del Nord o del Sud, o scandalizzarsi per la loro avvenuta conclusione; era materialmente foriero di sciagure condizionare la firma degli accordi con Sun Yat-sen al pubblico e solenne riconoscimento che “a causa della mancanza di condizioni favorevoli alla loro efficace applicazione in Cina, non era possibile applicare in questo paese né il comunismo né il sistema sovietico” e che, per intanto, obiettivo prioritario per la Cina era “il conseguimento dell’unificazione nazionale e della piena indipendenza”, come se, nella visione marxista, questo fosse possibile altrimenti che sull’onda di un movimento proletario in lotta per il socialismo, a prescindere dalla sua realizzabilità immediata. Lo saranno a maggior ragione le periodiche tournées a Mosca di generali di volta in volta elevati al rango di eroi e decaduti a quelli di ribaldi, visite seguite o precedute da forniture d’armi, in funzione di esigenze sulle quali sarebbe stato arduo stabilire se pesavano di più le considerazioni di Stato o quelle – per principio superiori – del movimento proletario e comunista mondiale. E’ superfluo dire che da “questi stati di necessità” lo stalinismo doveva trarre lo spunto per l’identificazione degli interessi dell’URSS con quelli tout court della causa mondiale del proletariato, “giustificandosi” per giunta con la svalutazione e perfino l’arrogante disprezzo delle potenzialità rivoluzionarie della classe operaia al di là dei confini del “solo paese del socialismo”, e in ciò sta il suo marchio d’infamia. Ma il processo come fatto materiale era in corso dal 1920-1921 16 ed era tanto impersonale da piegare alla sua legge gli individui – la firma di Joffe sigla gli accordi del gennaio 1923 con Canton, quella di Karakhan il trattato 1924 con Pechino, quella di Trotsky la dichiarazione di “rinvio della questione del destino politico della Manciuria” (necessità per il movimento rivoluzionario cinese di “assicurarsi un po’ di respiro” e perciò di “adattarsi al fatto che la Manciuria, nel periodo che ci sta dinnanzi, resti in mano giapponese”) nel marzo 1926 17 – quale che fosse la loro collocazione politica. La tragedia, insieme cinese e russa, quindi mondiale, del 1927 è al punto d’incrocio di questo groviglio di fatti e forze oggettivi, dal cui fardello nessuna forza e volontà soggettiva riesce più a districarsi.

Risorgeranno!

Inchiniamoci di fronte ad essa, noi comunisti dell’Occidente capitalistico avanzato, e riconosciamo nell’esercito sterminato delle sue vittime proletarie il prezzo che a due grandi rivoluzioni, vittoriosa l’una prima d’essere sconfitta, vinta l’altra prima di giungere al trionfo, ha imposto la nostra incapacità di sradicare fino all’ultimo dalle nostre file i miti paralizzanti della democrazia, del frontismo, del bloccardismo, per imboccare la strada lucida e diritta della preparazione rivoluzionaria, centralizzata dal partito di classe. In questo riconoscimento è la condizione affinché sia chiuso per sempre il capitolo della nostra preistoria e si apra quello della storia della rivoluzione – dittatoriale, monoclassista e monopartitica – del proletariato mondiale. Sulla sua onda risorgeranno, nelle nuove generazioni operaie fieramente decise a combattere e vincere, le migliaia e migliaia di proletari caduti in Cina nel 1927.

 

Note

  1. Discorso al Plenum del CC e della CCC del PCUS, 1 agosto 1927, in La révolution défigurée, Paris, 1929, p.162.
  2. Il generale Galliffet fu uno dei massacratori dei Comunardi parigini del 1871, mentre Moltke era il comandante in capo dell’esercito prussiano che nel 1870-71 assediava Parigi.
  3. Almeno in questo si può dar credito al Malraux di La condition humaine (1933).
  4. Da allora, per lo stalinismo, non ci sarà più evento giudicato “impossibile” il giorno prima che, l’indomani, non diventi “previsto in anticipo”: sarà la sua perenne giustificazione e, insieme, la condanna senza appello dei capri espiatori, masse intere o dirigenti singoli, chiamati sul banco degli imputati per aver disatteso l’infallibile “prognosi” del Padre dei Popoli... Le citazioni in questo paragafo sono attinte da H.R. Isaacs, La tragedia della rivoluzione cinese, 1925-1927, tr. it., Milano, 1967, cap. VII, VIII, IX, X, XI.
  5. Parte II, par. 10, “Questione nazionale”.
  6. Nel 1926, le due “condizioni” indicate sulle nostre “Tesi di Lione”, in stretta aderenza con quelle del 1920 a Mosca, erano riunite: lotta di classe in pieno corso nella metropoli imperialistica più direttamente impegnata in Cina e, insieme, chiave di volta nell’ordine imperialistico mondiale, e lotta a carattere nazionale e perfino razziale nell’Estremo Oriente. Si misuri da questo eccezionale concorso disituazioni la profondità del tradimento staliniano.
  7. “Primo discorso all’VIII Esecutivo Allargato”, maggio 1927, in Die chinesische Frage, Hamburg, 1928 p. 35, ovvero P. Broué, La question chinoise dans l’Intemationale Communiste, Paris, 1976, p.297
  8. Sullo Sciopero Generale inglese del 1926 e sul suo boicottaggio e tradimento da parte dello stalinismo, cfr. il lungo articolo uscito sul numero 3/2006 di questo giornale. L’Internazionale gialla di Amsterdam riuniva i sindacati a influenza socialdemocratica, che avevano rifiutato di aderire all’Internazionale dei Sindacati Rossi.
  9. Die chinesische Frage, cit., pp.11-12.
  10. “Tesi del VII Esecutivo Allargato”, dicembre 1926, in P. Broué, cit., p.78.
  11. “Tesi dell’VIII Esecutivo Allargato”, maggio-giugno 1927, ivi, p.335.
  12. Va detto a onore di Trotsky che, nel 1926-1927, egli non solo non si lasciò prendere dalla tentazione di proporre al proletariato cinese hic et nunc una “via socialista” ricalcata sul modello russo del “socialismo in un solo paese”, ma la respinse come puramente demagogica. Si veda in particolare la lettera ad Alsky del 29 marzo 1927, in L. Trotsky, On China, New York, Monad Press, 1926, pp. 128-132. In essa, Trotsky sostiene bensì con forza la tesi di “governo operaio e contadino” come forma di dittatura rivoluzionaria delle due sole classi veramente interessate a portare fino in fondo la rivoluzione democratico-nazionale, ma mette in guardia dal confondere il problema di una lotta per questo obiettivo con quello di una “via non capitalista” di sviluppo della Cina: “Quest’ultimo problema può essere posto solo in via condizionata ed entro la prospettiva dello sviluppo della rivoluzione mondiale. Solo un analfabeta della varietà social-reazionaria può credere che la Cina di oggi, con le sue attuali fondamenta tecniche ed economiche, sia in grado con le proprie forze di saltare al di sopra della fase capitalistica”. Caratteristicamente, invece, sia Radek che Zinoviev (come Stalin e Bucharin, ma questi per mera demagogia) civettavano con una prospettiva immediata del genere. Trotsky vi ricadrà in seguito.
  13. Discorso al Plenum del CC e della CCC del PCS, 1 agosto 1927, in La révolution défigurée, p.154.
  14. Cfr. “La rivoluzione cinese e le tesi del compagno Stalin”, 7 maggio 1927, in P. Broué, La question chinoise dans l’Internationale Communiste, Paris 1976, p.204.
  15. Per Lenin, cfr. Opere, Vol. XXXIII, p. 456. Per Trotsky, cfr. Trotsky Papers, L’Aja, 1964, 1, 1917-1919, pp. 623-627. Trotsky non esclude qui che in tale svolta possa recitare una parte decisiva l’Armata Rossa, come – ben s’intende – braccio armato dell’Internazionale Comunista; ed ha davanti agli occhi non tanto la Cina, quanto l’India. E’ notevole del resto come ancora al Congresso dei Popoli d’Oriente (Mosca, gennaio 1922), nel discorso di Zinoviev la valutazione delle prospettive rivoluzionarie cinesi sia estremamente cauta.
  16. Non possiamo qui che accennare a un tema che dovrà essere posto al centro di uno dei nostri studi di Partito, e che non si può racchiudere nei soli confini della Cina. Ci limitiamo a sollevare uno dei problemi più difficile della dittatura proletaria in fase di prolungato isolamento, un problema per la cui soluzione non esistono ricette.
  17. Cfr. il testo della risoluzione della Commissione presieduta da Trotsky, in L. Trotsky, On China, cit., pp.102-110.

 

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