DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

La crisi, prima apparentemente in veste immobiliare, poi finanziaria e quindi, finalmente, nella sua vera natura, generale, ossia produttiva, ha investito anche le cittadelle fortificate dell’imperialismo. Queste, avendo vissuto più crisi, e per il loro ruolo di centrali di controllo e difesa di un modo di produzione, e quindi avendo più esperienza, dovrebbero essere più attrezzate per una caduta più morbida o per lo meno per la capacità di rinviare la crisi e farla pagare, nell’immediato, ad altri. In questo quadro, le ripercussioni maggiori della crisi economica, fatta pagare ovunque ai proletari, gravano però in particolare su quei settori della classe operaia che abitano nelle aree più deboli dell’imperialismo.

Prendiamo un esempio: la Sardegna, periferia della periferia dell’imperialismo, ossia periferia dell’imperialismo straccione italiano. Ci siamo già occupati, nei numeri di maggio-giugno e novembre-dicembre 2007 di questo giornale, di alcune vertenze in corso: la cassa integrazione nelle fabbriche tessili della Legler e l’annunciata chiusura della Unilever di Cagliari. Nel frattempo, queste vertenze hanno seguito il corso tragico che avevamo annunciato: la Legler è stata messa in liquidazione e la Unilever ha chiuso definitivamente (altri 180 operai che si aggiungono all’elenco sempre più lungo di disoccupati).

Gli opportunisti, che vivono spacciando promesse e illudendo la classe con le vie più facili, ci dipingono come gli uccelli del malaugurio. Noi non rispondiamo subito a tali accuse: prima, è necessario terminare il quadro delle condizioni economiche oggettive e poi evidenziare la prassi sindacale e politica che accomuna ogni vertenza; poi, passare a fare considerazioni sul perché di tali sconfitte e sulla loro prevedibilità. Negli anni passati, abbiamo seguito il processo di smantellamento del già debole tessuto produttivo nell’isola. Questa tendenza, in termini di dati oggettivi, è confermata dai fatti recenti. L’industria isolana era stata fondata, a partire dalla fine degli anni ’60, incentrandola sul settore petrolchimico e metallurgico, con forti interventi statali. Ora, quel poco che era rimasto della chimica, dopo le dismissioni degli anni ’80 e ‘90, segue un copione già scritto: la INEOS, compagnia inglese con stabilimenti a Cagliari e Porto Torres, oltre che a Porto Marghera, ha annunciato all’inizio dell’estate il proprio stato di difficoltà finanziaria, e quindi di voler abbandonare la produzione in Italia o perlomeno in Sardegna, al limite concentrando la produzione a Porto Marghera. La chiusura della Ineos, che produce plastiche impiegate in vari settori (dall’edilizia all’industria automobilistica e sanitaria), coinvolgerebbe in Sardegna 1200 lavoratori. Il consiglio d’amministrazione della Ineos ha lanciato l’allarme e ha poi rinviato ogni decisione a settembre, ovviamente confidando nell’“allarme sociale” per strappare, eventualmente, le migliori condizioni di sostegno economico dallo Stato, e quindi un maggiore sfruttamento ed estorsione di pluslavoro dagli operai, spinti ai sacrifici con in testa la spada di Damocle della disoccupazione, prima della chiusura definitiva. Ma continuiamo con l’elenco tragico delle fabbriche agonizzanti o già morte e sepolte: chiude la Otefal, nel polo metallurgico di Portovesme, 270 licenziati; la Equipolymers, che con i suoi 120 dipendenti è la principale azienda dell’area industriale di Ottana, ferma gli impianti per due mesi, poi... si vedrà. Gli operai in cassa integrazione sono in continuo aumento. A conferma di quanto diciamo, prendiamo uno stralcio da un giornale borghese: “Duemilaottocento l'elenco di chi fa già i conti con una cassa integrazione agli sgoccioli. Trentasei aziende annaspano e una fetta sempre più consistente di impianti (dal 33 al 40 per cento) rischia di finire sepolta dalla ruggine un po' in tutta l'Isola. I numeri fotografano la stagione nerissima dell'industria sarda. Il peso del settore secondario sul prodotto interno lordo della Sardegna sta scivolando su percentuali sempre più basse (15 per cento), che si ritrovano ben al di sotto della media nazionale (25 per cento) e sono lontane anni luce dalla quota del Nord (33 per cento)”. (L’Unione Sarda, 3/6/ 2008). Inoltre, secondo un’indagine del Sole - 24 ore, se il reddito medio del contribuente italiano, dal 1999 al 2007, è stato di 16.249 euro, in Sardegna nel 2007 ha toccato quota 13.286 euro, in calo del 2,9% rispetto al rilevamento del 1999. Il tasso di occupazione (rapporto tra abitanti in età da lavoro e occupati) è poco sopra il 50%.

Fino a qui la cronaca. Ma il dato politico e sindacale comune, che più ci interessa e che più dobbiamo evidenziare, consiste in una situazione in cui, nonostante le condizioni oggettive da crisi economica grave, a scorno di qualsiasi meccanicismo, la classe operaia continua a dibattersi tra mille contraddizioni, tutte dovute a una ostinata fiducia nei soliti metodi cui l’ha costretta l’opportunismo – una fiducia traballante e accordata quasi per inerzia, perché non si è in grado di concepire spontaneamente niente di diverso. M tant’è: la classe operaia non riesce a uscire dalla gabbia democratica, collaborazionista e aziendalista costruita dall’opportunismo. Nelle loro assemblee e nei loro volantini, operai che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena chiedono ai sindacati e ai politici di fare fronte comune nel difendere la fabbrica, in termini di concorrenza capitalistica sul mercato. L’accusa che gli operai lanciano ai sindacati e ai politici si riduce quindi a quella di non essere dei bravi manager, mentre, da parte loro, gli operai si fanno un vanto dei loro alti indici di produttività; e dunque si stilano classifiche in concorrenza con operai di altre fabbriche o s’invidiano i politici di altre regioni che hanno maggiore capacità imprenditoriale. E’ questo che accomuna ogni vertenza e che quindi è motivo di ogni sconfitta,  e questa impostazione, che ha dimenticato ogni natura classista della società, sarà motivo di altre sconfitte.

Lungi da noi farne una colpa agli operai, magari disprezzandoli per la loro debolezza e arretrattezza, ed attendere fatalisticamente che la crisi li riporti alla riscoperta dei metodi di lotta e alle rivendicazioni di classe. Non ci soddisfa nemmeno dire che tale situazione, doppiamente tragica (dal punto di vista oggettivo e soggettivo), è la conferma della nostra tesi sul ruolo irrinunciabile del partito rivoluzionario. Esiste sicuramente una spontaneità della combattività operaia, che spinge alla lotta di classe attraverso le sconfitte e il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Ma tale tendenza si scontra a sua volta con la tradizione precedente, e noi continuamente ricordiamo che l’opportunismo si è radicato per quasi un secolo nella classe. E’ per questo che la lotta di classe, nonostante non possa essere suscitata volontaristicamente, ha comunque bisogno di essere continuamente ricordata e chiarita nei suoi metodi e obiettivi, a una classe che ha tremendamente bisogno di essere indirizzata da un organizzazione politica che sappia darle forza storica e unitaria. Non si tratta di incolpare la classe per la sua debolezza attuale, di cui devono essere invece accusati i dirigenti sindacali e politici opportunisti: si tratta di svolgere il proprio ruolo di comunisti in ogni spiraglio di lotta, anche minima, per quanto arretrata possa essere al suo stato attuale. Nel centro dell’impero come alla sua periferia, tra gli operai di fabbrica così come tra i disoccupati, questo è il compito dei comunisti. Certo, i rapporti di forza sono per noi attualmente sfavorevoli, e dunque non sempre e ovunque si riesce ancora ad assolvere questo compito: ma tale resta sempre e comunque.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2008)

 

 

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