DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

 

 

I VENTI DI GUERRA SOFFIANO SEMPRE PIU’ FORTI.

 

E’ NECESSARIO CHE IL PROLETARIATO MONDIALE RITROVI LA PROPRIA AUTONOMA DI CLASSE,

CONTRO TUTTI GLI SCHIERAMENTI BELLICI, PRESENTI E FUTURI [4]
 
 

Intorno a metà agosto, una significativa ventata di schizofrenia ha percorso il mondo. A Pechino, si aprivano i Giochi olimpici, con il solito corredo di ipocrita retorica sulla “fratellanza universale” e sulla “democrazia come valore supremo”. Negli stessi giorni, nell’Ossezia del Sud, i carri armati georgiani entravano nella “regione ribelle”, mettendo a ferro e fuoco la capitale e attirandosi subito il duro castigo del protettore russo: migliaia di morti tra i civili, un numero imprecisato di feriti, fughe in massa verso nord, “pulizia etnica” nei confronti dei separatisti osseti... [1] Poi, tutto è sembrato rifluire nel consueto gioco diplomatico internazionale, con il tira-e-molla delle dichiarazioni, delle prese di posizione, dei vertici e delle mediazioni: ma è altro fuoco che cova sotto la cenere.

Dunque, questo si stava preparando dietro i fuochi artificiali? questo si nascondeva dietro la “santa protesta” a favore dei “diritti umani calpestati in Cina”? Da un lato, in nome dei buoni affari futuri, ecco sprigionarsi da tutti i teleschermi un autentico tripudio sul capitalismo cinese e i suoi grandissimi managers (uomini e donne), sulla storia millenaria della nazione cinese, sulla sua tecnologia e sul suo piccolo operaio, così minuto ma così preciso e scrupoloso nell’osservare i dettami del lavoro salariato. Dall’altro, i venti di guerra, alimentati da quello stesso modo di produzione in crisi che partoriva lo spettacolo “son et lumière” nella Città Eterna, spazzavano un’altra area economicamente, socialmente, politicamente e strategicamente sismica, il Caucaso, dopo aver devastato quella balcanica e quella mediorientale.

“Chi ha ragione?”, si domandava il sempre “problematico” Manifesto del 9 agosto. E continuava: “Il puzzle etnico, storico, politico e militare in quelle poche miglia quadrate alle falde del Caucaso, non è districabile. Ragioni e torti sono aggrovigliati e la tentazione di tagliare il nodo con la spada è forte”. Per cavarsi d'impaccio, allora non resta altro che consolarsi: non c'è un unico responsabile, è il destino di una terra martoriata, è la dissoluzione dell'URSS che non ha ancora trovato la sua conclusione, è colpa del petrolio, ecc. ecc... E si ricorda la precedente guerra, negli stessi luoghi e tra gli stessi protagonisti, nel 1991-92: scontri micidiali con migliaia di vittime e di rifugiati, finiti in uno stallo, in una sorta di autonomia non riconosciuta da nessuno, neppure dalla Russia.

E’ stato il presidente georgiano Saakashvili, marionetta nelle mani dell’imperialismo USA, a lanciare l’attacco contro la regione separatista: ma la provocazione è sfuggita di mano, rimarca Il Sole - 24 ore dello stesso 9 agosto, e la risposta di Mosca è stata immediata e durissima. Attraversata l'Ossezia del Nord, lungo i corridoi stradali permessi dalle montagne caucasiche, i carri armati si sono inoltrati nel territorio conteso, minacciando l’invasione della Georgia, mentre si risvegliava l’altra provincia separatista, quella dell’Abkhazia. L’imperialismo russo non accetta più di essere messo in un cantuccio dall’avanzare dell’area d’influenza dell’imperialismo concorrente: così, occorreva dare un segnale forte, mostrare i muscoli in queste terre che solo eventi imprevisti hanno spostato dal loro originario baricentro di forza, gettandole in braccio a nuovi protettori.

Le tonnellate di greggio e di gas che provengono dai giacimenti off-shore del Mar Caspio e gli oleodotti che devono giungere al Mediterraneo fanno, della Georgia, uno dei paesi chiave dell’area caucasica. Da gran tempo, in gioco era l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che dall’Azerbaijan, attraverso la Georgia e la Turchia, giunge al Mediterraneo, messo insieme nel 2006 da un consorzio costituito dalla British Petroleum e dalla Total, di cui fa parte anche l'Eni. Il petrolio azero riduce la dipendenza energetica europea dalla Russia, perché giunge nel Mediterraneo bypassandola. Pensare dunque a una qualsiasi forma di “autonomia” per questo, come per gli altri paesi dell’area, di fronte agli accordi internazionali tra i predoni imperialisti, è puro vaneggiamento. La loro esistenza si basa esclusivamente sul precario equilibrio diplomatico e militare tra USA (ed eventuali alleati occidentali) e Russia. La Georgia, alleata dell’imperialismo a stelle e strisce, ha dovuto inghiottire l’amaro boccone delle numerose basi militari russe posizionate sul suo territorio da oltre dieci anni [2], oltre alla più o meno artificiosa creazione di aree a tendenze separatiste. Fu questo il prezzo pagato dagli USA per garantire la sicurezza degli oleodotti destinati alle coste turche del Mediterraneo, e non c’è chi non veda come ciò rappresenti un punto nevralgico per l’economia europea oltre che una cospicua rendita legata al trasporto e al commercio degli idrocarburi. Nell’oleodotto georgiano-turco viaggia circa un milione di barili al giorno, l’1% della produzione mondiale: è una torta appetitosa, mal digerita dalla Russia, ma che ha fatto la felicità di alcune compagnie occidentali. La situazione, dunque, vede da una parte la Russia minacciata dalla costituzione in Georgia di un satellite economico in mano all’imperialismo occidentale, che vorrebbe trasformarlo in alleato strategico-militare facendone in breve tempo membro della Nato assieme all’Ucraina (da anni, l’inquadramento militare dell’esercito georgiano è “curato” dagli USA); e, dall’altra parte, questo stesso imperialismo occidentale, che ha comunque dovuto venire a patti con gli interessi russi, cedendo il controllo militare di parte del territorio georgiano e accettando la costituzione di autentici stati-fantasma, la cui natura si vuole radicare in pretese microidentità etniche, religiose o linguistiche.

 

Una situazione di questo tipo è evidentemente insostenibile, quando comincino ad affiorare tensioni economico-strategiche di raggio più ampio. Come i Balcani, l’intera area caucasica può trasformarsi rapidamente in una polveriera pronta a esplodere: il comune denominatore di queste situazioni è la lotta per il controllo delle principali aree strategiche in Europa e in Asia. Come i Balcani, anche l’area caucasica è vitale per i collegamenti Est-Ovest; come il Kossovo, anche la Georgia è foraggiata ed equipaggiata dagli USA; come qui, anche là si invocano o si invocheranno i “lesi diritti di etnie oppresse”. Sono stati (nei Balcani) e saranno (nel Caucaso) questi diritti a giustificare l’intervento “umanitario” e il confronto militare (ancora allo stato latente) tra gli imperialismi. Nei Balcani, la partita servì all’imperialismo yankee per fare la voce grossa contro le timide avanzate europee (tedesche in primis). Nel Caucaso, servirà per aggirare le ovvie resistenze della Russia a una penetrazione della Nato sui confini meridionali (cosa che, secondo dichiarazioni ufficiali, dovrebbe avvenire alla fine di quest’anno) con l’invio di “osservatori militari” Onu – il che non cambierà una virgola al nuovo quadro di tensione che si è venuto a creare.

 

Dopo che fu aperto il focolaio kossovaro con il lasciapassare americano ed europeo all’indipendenza di Pristina, alimentando l'irredentismo serbo, gli appetiti albanesi e greci sulla Macedonia e la separazione tra Bosnia e Erzegovina, scrivemmo che presto o tardi quel ritorno di fiamma si sarebbe esteso alle aree vicine, nelle quali, pretese e fasulle “irrisolte questioni nazionali” venivano alimentate da occhiuti mestatori internazionali [3]. Già allora, i commentatori si aspettavano una dichiarazione di indipendenza da parte dell'Ossezia del Sud e un riconoscimento formale; già allora, si sviluppavano i preparativi militari della Georgia e della Russia (il 15/7, si sono tenute due esercitazioni militari, una russa nel nord del Caucaso e una georgiana-statunitense; il 16/7, il parlamento georgiano ha approvato un aumento del 26,8% del bilancio militare, portando gli effettivi da 32000 a 37000; dati da Il Manifesto del 9/8). Ancor prima, il Risiko dei briganti imperialisti si è dilatato alle regioni più disparate della terra: agitando idee separatiste tra le regioni ucraine, filorusse e filoamericane, con il ricatto del blocco dei flussi di petrolio verso la Germania, alimentando furori revanscisti nei paesi baltici che si vedono attraversare gli oleodotti russi nel Baltico e promuovendo alleanze strategiche di guerra in Polonia e Cechia con gli scudi antimissili.

Gli attori che giocano al massacro sono sempre gli stessi; gli imperialismi di sempre sanno che queste aree sono strategiche in pace e in guerra: “destabilizzare per stabilizzare”, è da sempre il motto imperialista, a est come a ovest; terrorizzare le popolazioni inermi mettendo in moto macchine da guerra spaventose, che in un solo attacco “convenzionale” possono distruggere intere città, spalancare voragini immense, sventrare palazzi: questo è da sempre lo scopo. Dopo il crollo dell'Urss, anche qui, in queste aree, “tutto è cambiato, perché tutto resti come prima”. Il vecchio orso russo torna a riprendere la direzione di marcia interrotta e i venti della prossima guerra mondiale soffiano più forti. Sotto gli artigli della Federazione russa quest'area già si è tinta di rosso in Cecenia (200.000 morti) e nella vicina Inguscezia. L'Ossezia del sud (unico corridoio di transito per giungere rapidamente fino a Tbilisi) e l'Abkhazia sul Mar Nero sono due aree strategiche per la Russia: non è un caso che siano stati bombardati i siti missilistici e il porto georgiano di Poti, che queste regioni chiedano l'indipendenza dalla Georgia, resasi a sua volta indipendente dalla Russia dal 1991 e oggi sotto il mantello protettore dei dollari Usa e delle forze armate Nato. E il Nagorno Karabakh, sotto controllo delle forze armate armene, e l’Azerbaijan, la cui linea del cessate il fuoco è ferma dal 1994, quando riprenderanno a friggere? E il Kurdistan turco, non è a un tiro di fucile dall'Iran e dall'Armenia? Quanto tempo passerà prima che l'annunciato attacco all'Iran da parte di Israele e Usa diventi operativo (Israele è sempre la giustificazione delle giustificazioni per qualunque guerra “umanitaria, democratica e... santa”)? La micidiale capacità di attacco e di offesa, la presenza di missili a testata nucleare, la capacità di annientamento di qualunque vicino, spingeranno mai i proletari israeliani a sabotare il punto di vista di tutte le classi dominanti (“gli aggressori sono sempre gli altri”) e a volgerli verso la posizione di classe (“il vero nemico è nel nostro paese”)?

In mezzo, l'Europa (o quella che la piccola borghesia sogna: unita economicamente, militarmente... e culturalmente), costretta a muoversi tra i frangenti sperando che la tempesta si plachi. Intanto, può godere del fatto che la sua posizione di “cessate il fuoco” (espressa da Francia e Germania, in primis) è stata accolta e confermata dalla riunione dei paesi facenti parte della Nato. Certo, c’è stato un mare di contestazioni e di distinguo, ma al di là di questo c’è stata anche la mediazione tra interessi americani e russi, per la quale l’Europa s’è fatta forte della propria posizione di “pacifismo” nella guerra americana in Irak, del proprio posto di rilievo per la cessazione (?) dell'ultima guerra israelo-libanese, e della propria vigile tenuta nella situazione russo-ucraina prima che esplodesse la questione del transito del greggio. Ma per quanto reggerà tutto ciò? La pressione americana, che tenta di ridisegnare la Russia e d’impedirne la realtà “imperiale” e imperialista, è destinata probabilmente (o almeno nell’immediato) al fallimento come effetto del progressivo declino della potenza economica USA sullo scacchiere mondiale; e l’Europa lo sa per esperienza. La distinzione tra “vecchia” e “nuova” Europa è anch'essa insignificante. Si scopre che la Russia zarista e quella di Stalin, quella di Breznev e quella di Putin, a parte i filtri ideologici che in ogni tempo sono serviti a mascherare più che a svelare, si sono mosse, si muovono e muoveranno dentro lo stesso solco storico materiale: quello che il giovane capitalismo nazionale russo, prima, e il più rancido capitalismo della fase imperialista, dopo, si sono inevitabilmente tracciati. Di contro, i vecchi imperialismi inglese e americano, mettendo nello stesso calderone Nato (con i più spericolati affari finanziari) quasi tutti i paesi balcanici e baltici e quelli che facevano parte determinante del Patto di Varsavia, pensano di chiudere la partita con la Russia. In realtà, mettono in pericolo la stessa Europa, e in particolare la Germania, che ancor oggi ha bisogno di un “Ordine europeo” di cui faccia parte la Russia (lo richiede lo sviluppo stesso del suo capitalismo, grande esportatore di merci e di capitali). Infatti, l’Europa, questa giungla di nazionalismi, che nei Balcani ha già fatto le prove nella tragedia del “tutti contro tutti”, presto o tardi dovrà uscire allo scoperto, spezzando unità politiche fittizie, fatui accordi monetari e partner ingombranti come la Polonia e la Cechia. Né la copertura unitaria né l’allargamento a est basteranno a salvarla dalle pressioni mondiali; anzi, proprio essi finiranno per accelerarne il processo di disfacimento. Mentre, moderna Penelope, tenta di salvarsi dai contendenti allargando e poi sempre disfacendo la tela unitaria, essa dovrà arrendersi e trovare nuovamente il suo Führer: e lo troverà in quella stessa Germania, che dalla fine della Seconda guerra mondiale ha anteposto i propri interessi geopolitici a negoziati russo-americani sul suo territorio e a una “coesistenza pacifica” frutto di spartizione e codominio, e che – ancora una volta – chiederà il conto. Una Germania, tuttavia, che oggi è ancora costretta a coesistere con i vecchi vincitori, il primo (gli USA) in affanno e il secondo (la Russia) uscito da una crisi devastante. Dunque, poiché la via solitaria della Germania oggi le sarebbe fatale, quest’Europa deve fare buon viso a cattivo gioco: mediando e soppesando. Scrive non a caso Il Sole - 24 ore del 20 agosto: “Vasto è il terreno sul quale offrire alla Russia di essere non un'antagonista bensì un cogestore dell'ordine internazionale. Sarà utile evitare il senso di un assedio armato ai suoi danni, evitare accelerazioni provocatorie, soprattutto non accettare nella Nato Paesi che non offrano una stabile cornice democratica. Saggezza diplomatica e non sudditanza. La Russia potrà allora in un contesto di ritrovata sicurezza collettiva prospettare alle sue repubbliche di ieri un avvenire comune, riallacciare con esse rapporti economici e culturali. Anche gli Occidentali hanno bisogno della Russia, fra l'altro per confrontarsi con il disordine dell'Islam e l'ascesa della Cina, se la Russia tornerà a preferire un futuro di concordia oggi lontano rispetto alla facilità di una violenza immediata e sterile”. Via con i sorrisi, dunque, per adesso!

***

Tutto come da manuale, dunque: l’aggressore, l’aggredito, il difensore dell’aggressore, il difensore dell’aggredito, il vano gioco della diplomazia internazionale... Tutto già visto, dalla Prima guerra mondiale alla Seconda e alle centinaia di “piccole guerre” di cui ci ha deliziato il ‘900 all’insegna dell’imperialismo: per restare ai tempi recenti, non è in nome della “democrazia violata”, della difesa di un piccolo paese aggredito (Kuwait), che un mare di fuoco, con un milione di morti soprattutto civili, sta devastando l'Irak dal 1991? non è in nome di una presunta presenza di armi di sterminio di massa che la guerra, per un breve periodo interrotta, ha poi potuto continuare la sua marcia infernale? non è per catturare i cosiddetti “nemici della pace” (i talebani, già amici e alleati degli USA in funzione anti-russa) e la guerra ha potuto travasarsi in Afganistan?

Tutto come da manuale, dunque: ma Lenin ci ha già insegnato che, nell’epoca dell’imperialismo, è vano cercare chi è il paese aggressore e chi l’aggredito, perché sono tutti aggressori, e l’unico vero aggredito non è un paese, ma una classe, il proletariato mandato a massacrare e a essere massacrato, sulla linea del fuoco o nelle retrovie, nelle città bombardate e nelle campagne messe a ferro e fuoco.

Lo ripetiamo ancora, perché il disastro teorico-politico abbattutosi sul movimento comunista negli ultimi ottant’anni l’ha fatto dimenticare: i proletari del Caucaso, dei Balcani, del Medioriente, dell'Europa orientale devono tranciare definitivamente le catene pseudo-nazionali che, nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, li hanno legati mani e piedi alle mire imperialiste sul petrolio; e devono guardarsi dalla peste delle classi medie e dei loro ideologi imbecilli che fomentano “scelte di campo” a ogni pie’ sospinto. L'unico “campo” dei proletari è quello della lotta di classe contro le rispettive borghesie nazionali, contro la società dello sfruttamento e della fame; è la lotta per conquistare il potere sotto la guida del partito rivoluzionario e imporre la propria dittatura di classe.

“E' questione di petrolio, di confini, di indipendenza nazionale”, rassicurano i réportages: questioni risolvibili, a loro dire, con accordi economici e politici, e tanta buona volontà. La democrazia saprà riportare indietro l'orologio degli eventi e la pace continuerà a risplendere... sui cimiteri. A noi rimane la certezza che questo nuovo fronte di guerra è un ulteriore rintocco delle campane che suonano l’ora del macello generale: contro il quale solo un’autentica politica di classe, volta all’abbattimento del capitalismo, può rappresentare la via di uscita e risparmiare all’umanità gli orrori di una nuova guerra mondiale. Sappiamo che, contro questa politica, si scateneranno le eterne posizioni pacifiste, i cortei antimperialisti, le esortazioni alla pace sociale: ma abbiamo la certezza che il proletariato internazionale, stretto da una parte dall’incombere perenne della guerra, dall’altra dalle condizioni di vita sempre più insopportabili cui lo costringe la crisi cronica del capitale internazionale, saprà scegliere finalmente la strada giusta, indicata e rappresentata dal suo partito rivoluzionario: la liquidazione definitiva della società esistente.

 

 

Note:


1 Questo quadro di guerra, desunto dalla stampa quotidiana, va naturalmente preso con beneficio d’inventario: sappiamo bene che cos’è e a che cosa s’è ridotto il giornalismo, specie quando è “embedded” – vale a dire, diretta espressione di questo o quell’apparato nazionale di propaganda bellica. [back]

 

2. Cfr. “Il Caucaso, crocevia di poderosi interessi imperialistici”, Il programma comunista, n.1/1996. [back]

 

3. Cfr. “Futuri bagliori di guerra in Kossovo”, Il programma comunista, n.1/2008. [back]
 
4. L’articolo è stato scritto intorno al 20 di agosto: dunque, non prende in considerazione eventuali svolgimenti successivi, che verranno esaminati in articoli futuri.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2008)

 

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
ARTICOLI GUERRA UCRAINA
RECENT PUBLICATIONS
  • Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella
    Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella "Resistenza" antifascista
      PDF   Quaderno n°4 (nuova edizione 2021)
  • Storia della Sinistra Comunista V
    Storia della Sinistra Comunista V
  • Perchè la Russia non era comunista
    Perchè la Russia non era comunista
      PDF   Quaderno n°10
  • 1917-2017 Ieri Oggi Domani
    1917-2017 Ieri Oggi Domani
      PDF   Quaderno n°9
  • Per la difesa intransigente ...
    Per la difesa intransigente
NOSTRI TESTI SULLA "QUESTIONE ISRAELE-PALESTINA"
  • Israele: In Palestina, il conflitto arabo-ebreo ( Prometeo, n°96,1933)
  • Israele: Note internazionali: Uno sciopero in Palestina, il problema "nazionale" ebreo ( Prometeo, n°105, 1934)
  • I conflitti in Palestina ( Prometeo, n°131,1935)
  • Gli avvenimenti in Palestina (Prometeo, n°132,1935)
  • Israele: Fraternità pelosa ( Il programma comunista, n°21, 1960)
  • Israele: Il conflitto nel Medioriente alla riunione emiliano-romagnola (Il programma comunista, n°17, 1967)
  • Israele: Nel baraccone nazional-comunista: vie nazionali, blocco con la borghesia ( Il programma comunista, n°20, 1967)
  • Israele: Detto in poche righe ( Il programma comunista, n°18, 1968)
  • Israele: Spigolature ( Il programma comunista, n°20, 1968)
  • Israele: Un grosso affare ( Il programma comunista, n°18, 1969)
  • Incrinature nel blocco delle classi in Israele(Il Programma comunista, n°17, 1971)
  • Curdi palestinesi(Il Programma comunista, n°7, 1975 )
  • Dove va la resistenza palestinese? (I)(Il Programma comunista, n°17, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
  • Cannibalismo dello Stato colonialmercenario di Israele(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.