DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Prometeo, giugno-luglio 1924, n.6-7

Il provvedimento con cui il governo fascista manda ai prefetti del regno di procedere ad libitum al sequestro e alle consequenziali diffide, incriminazioni e... soppressioni di quei giornali e di quelle altre pubblicazioni periodiche di cui il governo stesso e i suoi amici potranno un giorno o l’altro sentirne il bisogno di liberarsi non ci sorprende né, tanto meno, ci commuove. Diremo anzi di più: per un residuo di mentalità legalitaria di cui ancora non eravamo riusciti a liberarci, un provvedimento sulla stampa noi lo aspettavamo da tempo, nel desiderio di veder regolati da una legge gli arbitrî e i soprusi che si sono sempre esercitati contro i nostri giornali. Anche desideravamo che il governo fascista assumesse direttamente e senza equivoci la responsabilità di tutte le illecite sottrazioni e requisizioni a cui la nostra stampa veniva continuamente sottoposta da parte dei suoi sostenitori, ivi compresi certi occhiuti ufficialetti della posta che sistematicamente si facevano un dovere di sequestrare le nostre pubblicazioni. L’attuale decreto, in quanto non precisa né molto né poco i limiti entro i quali un giornale si deve contenere per sottrarsi alle sanzioni comminate, posto che un nostro giornale sia disposto ad uscire così col permesso delli superiori, e in quanto, peggio ancora, chiama giudice ed arbitro assoluto un funzionario politico della diretta dipendenza del governo e del suo partito, non soddisfa a dire il vero il suddetto nostro desiderio di legalità e anzi si risolve, né più né meno, in una inaudita estensione dell’arbitrio. Ciò non ostante noi non protestiamo né per questa ragione specifica né per la portata ultra-reazionaria del provvedimento.

* * *

E non protestiamo per due motivi.

Primo: perché non abbiamo mai seriamente creduto alla esistenza dei famosi “immortali principî” dai quali, secondo si dice, deriverebbero per tutti i cittadini il diritto, tra gli altri, alla libertà di stampa. Quella degli “immortali principî” fu una grandiosa invenzione della borghesia quando questa al tempo della rivoluzione francese mossa in guerra contro la società feudale e le classi degli aristocratici e degli ecclesiastici che di quella erano esponenti. La borghesia, già cominciata a svilupparsi come classe economica a sé, sentì in quell’epoca il bisogno di affrancarsi anche politicamente per meglio consolidare il suo sviluppo ed inalberò allora la bandiera degli immortali principî. Ma, una volta conquistato per sé il predominio politico, era ben naturale che dovesse tendere a negare alla nuova classe da cui sapeva di dover essere un giorno scalzata quei diritti in nome dei quali essa medesima si era prima agitata. E in fatti, sebbene mai abbia avuto il coraggio di negare di diritto i suoi famosi immortali principî, ha sempre costantemente rifiutato di riconoscerli di fatto alla nuova classe che si ergeva contro di lei. Questa è stata la pratica costante di tutti i governi demo-liberali che in nome della borghesia hanno esercitato il potere politico. Se non ché, dinanzi al crescente sviluppo del proletariato che sempre più va acquistando coscienza di sé e del suo avvenire, la borghesia ha dovuto un bel giorno rinunziare al suo metodo liberale, che si manifestava pericoloso, ed organizzare la propria disperata difesa, creando a tale scopo un vero e proprio esercito. Questo è stato il fascismo, che della borghesia costituisce l’avanguardia militante.

In nome e nell’interesse della borghesia il fascismo ha appunto instaurato nel paese un regime dittatoriale; in nome e nell’interesse della borghesia esso ha diviso i cittadini in due campi distinti: patrioti e antinazionali, ai primi dei quali tutto è lecito mentre ai secondi tutto è proibito; in nome e nell’interesse della borghesia esso esercita la compressione di ogni movimento proletario. Ma un governo che sia pervenuto al potere attraverso la violenza e il compromesso, quando non riesce, per la sua antistoricità, a raccogliere attorno a sé il consenso delle masse e anzi ha la sensazione di non avere più con sé nemmeno coloro che già lo ressero per le tirande nei suoi primi passi, deve necessariamente tentare di mantenersi in piedi con le baionette e con i decreti-capesto. È questa per il fascismo una necessità storica che lo spinge, ad ogni giorno che passa, a sempre più invilupparsi nelle pastoie dell’armatura dittatoriale e a seguire alla rovescia il processo rivoluzionario. In questo appunto sta anzi la caratteristica differenziale tra la dittatura borghese e dittatura del proletariato. Quest’ultima, essendo la dittatura di una stragrande maggioranza su una esigua minoranza, dopo aver ridotta questa nell’impossibilità di nuocere col solo privarla dei mezzi economici che prima la rendevano onnipotente, è destinata, sia pur lentamente, a scomparire per far posto ad un regime effettivamente democratico; l’altra invece, essendo esercitata in nome di una minoranza contro la maggioranza, è costretta, se vuol reggersi in piedi, a mai disarmare, e anzi deve fatalmente andar sempre più accentuando il suo carattere dittatoriale, fino a quando la maggioranza che le è sottoposta non sarà riuscita a spezzarla per sempre.

Ora al fascismo è accaduto appunto questo. Il delitto Matteotti e gli scandali vergognosi che son venuti alla luce gli hanno dato in quest’ultimo mese un colpo non indifferente. Se gli organizzatori del delitto Matteotti avessero potuto anche lontanamente prevedere quale formidabile ondata di sdegno il loro crimine avrebbe sollevato dall’un capo all’altro del Paese e se i non affatto onnipotenti signori d’Italia potessero oggi disfare il già fatto, è certo che i primi avrebbero infrenato il loro istinto belluino o questo rivolto ad altre vittime più umili, ed è certo anche che i secondi rinuncerebbero volentieri ad almeno cinquant’anni di dominazione sui sessanta calcolati dall’ineffabile Michelino, pur di poter riportare la situazione a quella che era prima del delitto.

Ma poiché i primi non seppero antivedere e agli altri sfugge il dominio del passato, il governo fascista si è venuto necessariamente a trovare dinanzi a questo dilemma: o lasciar che l’ondata di sdegno continuasse a ingrossarsi e si allargassero gli scandali da cui sono stati investiti e sommersi già troppi degli dei e semidei dell’improvvisato Olimpo fascista e altri ancora potrebbero essere abbattuti, o tentar di opporre un argine alla sempre crescente marea di ostilità e un freno all’allargarsi degli scandali. Nel primo caso si sarebbe andati incontro al pericolo di vedere ad una ad una cadere sotto i colpi dei marosi le colonne tutt’altro che robuste che ancora si reggono in piedi a sostegno della impalcatura su cui il duce ha collocato il suo trono di cartapesta; nel secondo resterebbe ancora la speranza di poter riuscire a dominar la tempesta, contro, s’intende, la possibilità di esser sommersi d’un colpo e spazzati per sempre in un attimo.

Il governo fascista, davanti a questo dilemma, ha reputato più opportuno appigliarsi al secondo corno, e da un canto ha dato mandato a Farinacci di organizzare su per le varie piazze d’Italia alcuni rumorosi schieramenti di militi, nel duplice intendo di rincuorar certi troppo pavidi amici che al primo stromir di fronda si erano affrettati a gettare nel ripostiglio il distintivo fascista e insieme ammonire e infrenar gli avversari, dall’altra ha incaricato Federzoni di imbavagliare la stampa.

La decisione può piacere o non piacere ma è ferreamente logica da un punto di vista storico-dialettico, se pure in aperta contraddizione con i ripetutamente affermati propositi di normalizzazione. È anzi un tal poco rivoluzionaria, nel senso e nel modo in cui fu rivoluzionario l’assassinio di Matteotti. Con questo il fascismo volle liberarsi di uno dei capi della opposizione che più gli dava, per il momento, fastidio; con l’imbavagliamento della stampa vuole ora liberarsi dei non piacevoli strascichi del delitto. Non è improbabile che si tenti domani con nuovi gesti del genere di soffocare i movimenti oppositori a cui il decreto-bavaglio potrà dar luogo.

Quanto al decreto-capestro è chiaro che con esso il fascismo vuole impedire che la stampa di opposizione segua troppo da vicino lo svolgimento del processo, cosa questa che colpirebbe in doppio modo il fascismo: direttamente, concorrendo ad aggravare la posizione degli attuali imputati, il che potrebbe spingere qualche Dumini a fare – come già è stato minacciato – come Sansone; indirettamente, accrescendosi il discredito che già circonda il partito stesso. Il decreto-bavaglio potrebbe invece tutto accomodare, in quanto è certo che la sola minaccia che possa essere applicato varrà a tenere a freno certa stampa.

Ma nemmeno col decreto-capestro il governo riuscirà ad allontanare dal suo capo la tempesta. Sui delitti che interessano la massa – in quanto è certo che in Matteotti si è cercato di colpire un capo popolare – è la massa che giudica e si assume il compito di eseguire, quando che sia, la sentenza pronunziata. E il delitto Matteotti è stato giudicato insieme ai mille e mille altri delitti in cui caddero e Lavagnini e Di Vagno e Piccinini e Oldani.

In questo senso perciò il decreto fallirà al suo scopo. Tutt’al più varrà a provare ancora una volta quanto insinceri siano sempre stati i propositi di normalizzazione manifestati dal duce e accettati come oro colato da tutti, noi eccettuati, gli oppositori.

Per concludere su questo punto, il decreto sulla stampa non è che un necessario sviluppo (meglio si direbbe inviluppo) del regime. Ogni protesta cartacea contro di esso sarebbe perciò ridicola e comunque insufficiente. La lotta a parità di condizioni esiste soltanto nelle consuetudini sportive e nelle esercitazioni cavalleresche in cui due sangue-blu si battano per un futile motivo, con l’intesa di fare alt “al primo sangue”. Ma quando la lotta deriva da sostanziali contrasti economici e deve protrarsi fino a quando una delle parti in lizza non sia caduta per sempre; quando essa dura così da secoli, aspra, feroce, implacabile, allora è vano pretendere di prestabilire delle regole alla lotta stessa. Sarebbe la stessa cosa come pretendere che la borghesia si arrendesse senza combattere, in quanto è certo che a parità di condizioni non potrebbe resistere per più di un attimo. Ma la guerra è guerra, e ciascuna delle parti si avvale delle armi che ha. Il fascismo, avanguardia della borghesia, ne aveva già molte a sua disposizione contro una massa di inermi. Quelle non bastandogli, provvede ora a toglierci di diritto l’unica arma che ancora ci fosse rimasta, sebbene anche quella ci fosse stata tolta di fatto da tempo.

Ma il fascismo è in linea, come è in linea, checché se ne dica, Farinacci.

* * *

Chi invece non è niente affatto in linea è la cosiddetta ala sinistra della borghesia che, attraverso le sue oche liberali e demo-sociali, strilla a più non posso e protesta contro l’ultimo provvedimento fascista. Questi signori che auspicarono o accettarono di buon grado l’avvento fascista, giustificandone fino ad jeri tutti i crimini e tutti gli arbitrî, hanno oggi torto marcio a protestare, ed è questo il secondo motivo per il quale noi ci vorremmo astenere dal formulare una nostra protesta.

A noi quasi verrebbe voglia di protestare contro le proteste altrui. Perché non riusciamo a vincere la repugnanza di doverci trovare gomito a gomito nella lotta con questi nuovissimi zelatori della libertà che sono rimasti sempre beatamente assenti quando ad essere conculcata era soltanto la libertà altrui. Coloro che oggi protestano, e alla cui voce noi dovremmo aggiungere la nostra, non sono forse quelli stessi che ancora ieri applaudivano o passavano beatamente sotto silenzio tutti i soprusi e tutte le violenze compiute dai ricostruttori contro di noi ? Non hanno anzi, essi per i primi, incoraggiato persecuzioni e soprusi nella speranza di poterne trarre un vantaggio per sé e per le combriccole politico-finanziarie che li sostenevano ? Non hanno, i vari Giornali d’Italia, manifestato fin nei titoli il loro compiacimento per tutte le violenze compiute contro il proletariato ? Codesti messeri speravano, è vero, di potersi servire del fascismo come di qualche cosa da gettare, dopo l’uso, nella spazzatura. Speravano essi, in altre parole, di potere, attraverso il fascismo, consolidare le loro posizioni. Il fascismo ha fatto invece nei loro confronti come non di rado facevano certi eserciti di ventura i quali, dopo aver vittoriosamente condotto una guerra al soldo di questo o quello stato, finivano molte volte con l’impadronirsi direttamente delle città conquistate. Non solo, ma il fascismo, con i suoi eccessi e le sue intemperanze, mette oggi in serio pericolo la esistenza stessa della stato borghese. Ed ecco che la borghesia italiana insorge davanti al pericolo che si affaccia, tentando di gabellare la sua nuova manovra per una presa di posizione in difesa della libertà. La borghesia vuole salvarsi ad ogni costo e tenta, attraverso i suoi campioni liberali e demo-sociali, di rifarsi una verginità. Dopo avere invano tentato di ammansire con la sua astuzia il movimento fascista, essa tenta ora, per salvare sé stessa, di gettarlo a mare, convinta com’è della impossibilità in cui il fascismo stesso si trova di prolungare all’infinito il suo regime di violenza.

Questo giuoco non deve riuscire. Certo, alla borghesia farebbe assai comodo conservare i vantaggi procuratile dall’azione fascista in quattro anni di violenta reazione antiproletaria e crearsi contemporaneamente un alibi morale per non perdere il diritto all’eredità. Ma la borghesia italiana, auspicatrice e sostenitrice fino ad jeri di tutte le violenze commesse contro il proletariato, ha oggi il dovere di stringersi intorno al suo governo forte. La borghesia deve oggi, voglia o non voglia, prendere su di sé la sua parte di responsabilità per i delitti e gli arbitrî commessi e per quelli che ancora si commetteranno. Perché gli arbitrî di oggi sono la conseguenza degli arbitrî di jeri. Perché non si può contemporaneamente volere i risultati di una determinata azione e non volere l’azione stessa. Dal giorno in cui, in nome della borghesia, assunse violentemente il potere il fascismo ha trovato dinanzi a sé già tracciata la via da percorrere. Per questo chi l’ha comunque giustificato da principio deve giustificarlo fino alla fine, e risponderene direttamente domani davanti al proletariato.

Noi rifiutiamo per conto nostro certe equivoche alleanze dell’ultima ora e mettiamo in guardia il proletariato contro questo turpissimo giuoco.

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