DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Mentre in Italia si chiacchiera e si litiga nelle aule parlamentari a proposito del salario minimo per legge, la stessa questione porta in piazza decine di migliaia di lavoratori in Bangladesh, disposti a sfidare la repressione violenta della polizia, anche a rischio della vita.  Abbiamo già dedicato ampio spazio in queste pagine alle lotte dei lavoratori del settore del tessile in Bangladesh[1]. La radicalità delle lotte è una smentita diretta e pratica alle interessate elucubrazioni degli intellettuali borghesi sulla scomparsa del proletariato a livello planetario, o di una sua integrata assimilazione agli interessi nazionali, che si manifesterebbe proprio con una riduzione, in quantità e intensità, delle sue lotte economiche.

Nei paesi di giovane capitalismo, invece, le stesse dinamiche tragiche che hanno segnato la nascita del capitalismo e della rivoluzione industriale in Europa smentiscono questa speranzosa illusione e confermano drammaticamente la brutalità del Capitale: monopolio borghese dei mezzi di produzione, concentrazione “in poche mani” della ricchezza prodotta, miseria crescente e aumento costante dei “senza riserve”... Chi seppellirà Il Capitale cresce e lotta!

Il contesto economico-sociale

Il Bangladesh è una delle maggiori economie dell’area. Secondi i dati della Banca Mondiale il suo PIL è cresciuto negli ultimi anni ad un ritmo di circa il 7% annuo, passando da 71 miliardi di dollari nel 2006 a 460 miliardi di dollari nel 2022. Saggi di profitto da capitalismo giovane, impossibili nei paesi di vecchio capitalismo.

Questo contesto da rivoluzione industriale si accompagna ovviamente al processo di proletarizzazione della popolazione contadina. La capitale, la grande Dhaka, ha una popolazione di 23 milioni di abitanti, e la sua crescita è avvenuta in modo caotico con un aumento medio annuo del 4,2%. Nel 1950 la popolazione della capitale era di 335mila persone. Complessivamente il Bangladesh ha più di 170milioni di abitanti, con la più alta densità di popolazione al mondo. Sotto la spinta di questa robusta crescita economica, nelle sue periferie si sono insediate numerose fabbriche manifatturiere, soprattutto del settore tessile. Dhaka ha attirato e continua ad attirare dalle campagne centinaia di migliaia di contadini alla ricerca di migliori condizioni. Nel 2023 ne sono giunti circa 732 mila: le loro speranze, nello scontro con la realtà, si trasformano in un incubo. 

Uno sviluppo economico che, come sempre avviene nella dinamica del capitalismo, sconvolge profondamente il tessuto sociale e assieme a esso il rapporto uomo-natura. Il tasso di mortalità infantile è ancora di circa il 21,5‰, dieci volte maggiore di quello in Italia (2,1‰), pur essendo diminuito di quasi cinque volte dal 1990 (99,4‰).

Nel dicembre 2019, il tasso di povertà era, secondo il governo, al 21,8%, mentre secondo rilievi della Banca Mondiale, nel 2020 esso era aumentato del 7%, giungendo al 30%. Ossia 20 milioni di nuovi poveri, che dispongono di meno di 2 euro al giorno.

I più “fortunati” tra coloro che sono immigrati nella capitale trovano un posto di lavoro che li costringe a lavorare oltre dieci ore al giorno, per sette giorni la settimana, durante le quali non hanno altra scelta che lasciare incustoditi e spesso per la strada i figli che si sono portati appresso.

Non potendosi permettere il costo di un alloggio singolo, il 97% dei lavoratori deve accettare di vivere in condizioni insalubri, con alloggi promiscui in dormitori o baracche, tetti in lamiera, in cinque o sei per stanza, un solo servizio sanitario e un solo fornello per cucinare.

Dhaka viene definita dagli osservatori occidentali come la “bolgia infernale”, sommerge i nuovi arrivati nel suo traffico senza regole, rumoroso e insostenibile, reti idriche e fognarie sono del tutto carenti o assenti. A proposito di scomparsa della classe operaia, non sembra di rivedere gli scenari della ottocentesca rivoluzione industriale in Europa?

Fino al 2015, il Bangladesh aveva il salario minimo più basso al mondo: 50 euro al mese. Naturalmente, sono stati proprio questi bassi salari ad attrarre il capitale internazionale, soprattutto nel settore tessile.

Dopo la Cina, il Bangladesh è il maggiore produttore al mondo di abbigliamento “pronto moda” e conta in questo settore circa 4,5 milioni di lavoratori, soprattutto donne, occupate in circa 5mila fabbriche. Stabilimenti che, singolarmente, impiegano anche 15 mila lavoratrici, ammassate in condizioni pessime e pericolose.

L’industria tessile è cresciuta, nel 2023, del 35%: il che ha corrisposto a un fatturato di circa 50 miliardi di dollari, pesa per il 18% sul prodotto interno lordo e vale l’80% delle esportazioni del paese. Molti dei padroni delle fabbriche siedono in parlamento ma i committenti, i finanziatori, sono i grandi marchi della moda del mondo libero e civilizzato. Per fare un esempio concreto: se una capo di abbigliamento viene venduta a 5 euro in Europa, il costo del lavoro equivale a nemmeno 2 centesimi! Ovvero al 3 per cento del prezzo finale.

Il Bangladesh, pur essendo considerato uno Stato autoritario, è ricercato come partner economico e commerciale da tutti  gli Stati imperialisti, soprattutto dagli storici Paladini della Democrazia, USA e Francia: “pecunia non olet”, e non sanguina!!

La lunga serie di incidenti e di lotte

Nonostante la retorica sul migliore dei mondi possibili, la storia del capitalismo è costruita sul sangue e sulle tragedie di cui sono vittime i proletari. Basti ricordare la tragedia della fabbrica Triangle Shirtwaist Company di New York, nel 1911, in cui morirono 146 giovanissime lavoratrici, o, nel 1991, l’incendio nella fabbrica di impermeabili nel Dongguan, in Cina, in cui morirono 81 lavoratori... Gli esempi potrebbero continuare. Allo stesso modo, in Bangladesh, il capitale ha importato le sue delizie. È difficile tenere il conto della lunga serie di incidenti mortali, spesso incendi con decine e centinaia di vittime, proprio nel settore tessile. Un paio di esempi, tra i dolorosissimi e tragici: 112 lavoratori morti nell’incendio scoppiato il 24 novembre 2012 nella fabbrica Tazreen Fashions, a Nischintapur, un villaggio a circa 50 km da Dhaka. Ogni volta che c'è un incendio in una fabbrica di abbigliamento i sindacalisti corrono sulla scena, cercano di entrare all'interno dello stabilimento ancora fumante per raccogliere le etichette dai vestiti in lavorazione, sbugiardando così gli importatori europei ed americani che cercano sempre di negare che i loro “capi” fossero prodotti in quella fabbrica.

Un evento in particolare ha segnato indelebilmente la lotta dei lavoratori tessili del Bangladesh, il disastro del Rana Plaza, il 24 aprile del 2013, a Savar, nella periferia di Dacca, quando un edificio di otto piani che ospitava diversi stabilimenti crollò. Molti degli operai stavano scappando dal Rana Plaza perché si erano accorti della comparsa di alcune crepe ma furono costretti a rientrare sotto  minaccia di licenziamento. Appena rientrati, il disastro: 1.134 morti e 2.515 feriti, fra cui non si contano gli invalidi. Da questo episodio e dalla sua eco a livello mondiale nacque lo scandalo per i grandi marchi europei e americani che, tramite un accordo sulla prevenzione degli incidenti e degli incendi, per tacitare le ipocrite coscienze loro e dei loro consumatori, si impegnarono a investire in prevenzione: solo pochissimi e marginali obiettivi di quell’accordo sono stati conseguiti, soprattutto  è stato rimandato sine die quello che prevedeva di realizzare la piena libertà di associazione per i lavoratori.

I sindacati indipendenti e la repressione

Per fortuna i lavoratori non si sono affidati ai formalismi e alle concessioni di Stato e padroni per difendersi. Il tragico episodio del Rana Plaza diede vigore all'organizzazione di sindacati indipendenti, migliaia di lavoratori furono spinti alla lotta e aderirono ai sindacati: negli ultimi mesi del 2013 il Bangladesh Center for Worker Solidarity triplicò le proprie dimensioni.

La più grande federazione sindacale indipendente si chiama Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation (BGIWF). A fine settembre 2013 organizzò uno sciopero per forti aumenti salariali di 200mila lavoratori con un blocco di più di 100 fabbriche di abbigliamento durato diversi giorni, nonostante durissimi scontri con la sbirraglia statale che ha sempre usato il pugno duro, dai gas lacrimogeni ai proiettili di gomma.

Alla faccia degli accordi su “sicurezza e libertà”, Stato e padroni hanno continuato a contrastare l'organizzazione indipendente dei lavoratori. Con la creazione di complici sindacati aziendali, ma soprattutto con l'azione violenta: squadracce di assassini contro i sindacalisti e licenziamento degli scioperanti. A giugno del 2023, Shahidul Islam, leader sindacale della BGIWF è stato picchiato a morte, aggredito dalle squadracce proprio dopo un incontro con i padroni per l’aumento dei salari. Non è l’unico esempio: nell’aprile 2012, un altro leader operaio, Aminul Islam, lui pure della BGIWF, fu torturato e ucciso.

Lo Stato (il Capitalista Collettivo, qui come dovunque) ha perfino istituito un apposito corpo di polizia, la polizia industriale, per la repressione delle agitazioni sindacali!

Per soffocare le proteste operaie, sono organizzati pattugliamenti congiunti tra il Battaglione d’azione rapida (RAB) dell'esercito e la Guardia di frontiera del Bangladesh (BGB) che operano appunto assieme alla polizia industriale e alle forze dell’ordine locali.

Nonostante tutto, lo scorso settembre il governo bengalese, anche su pressione internazionale, è stato costretto ad allargare la “libertà” di organizzazione sindacale nelle cosiddette Zone Economiche Speciali, mentre rimane il divieto nelle Zone di Trasformazione per l’Esportazione, dove si concentra gran parte della produzione industriale del “Garment”. 

Nemmeno questi divieti hanno fermato la lotta. Nonostante la dura repressione, i lavoratori non hanno smesso di lottare, soprattutto per un sacrosanto aumento salariale!

La ripresa delle lotte a fine 2023

Il 22 ottobre, sfidando l’apparato poliziesco e la legislazione anti-operaia, un corteo in rappresentanza di 65 federazioni sindacali del settore, riunite nella Garment Workers Alliance, ha marciato verso la sede della “Commissione per il salario minimo” per dire NO alla proposta del padronato di un aumento del salario del 25%, a 10400 TK (circa 95 euro), del tutto insufficiente, come quella del Governo di 12.500 TK (circa 105) parimente respinta, a coprire l’aumento dei prezzi.

Le condizioni di vita e di lavoro insostenibili costringono a lottare con coraggio i lavoratori bengalesi: rivendicano un salario minimo mensile pari a 196 euro, 23000 taka. Il minimo per vivere dignitosamente in Bangladesh, tre volte il salario medio attuale. L’inflazione è stata del 10 per cento di media per tutto il 2023, riferita ai beni alimentari ha superato il 12 per cento, la più alta degli ultimi 12 anni. Il malcontento che ne segue “sfugge” alle rilevazioni statistiche, è diffuso in tutto il Paese, specie tra i lavoratori informali, tra le fasce di popolazione più povere, tra coloro i cui stipendi sono stati erosi dall’inflazione, come i lavoratori del tessile. Hanno scioperato per mesi, fino alla fine del 2023, per un aumento del salario mensile. Decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori sono scesi in strada nei distretti attorno alla capitale – Gazipur, Savar, Ashulia, Hemayetpu – per manifestare la propria rabbia. Secondo molti osservatori sono state le più grandi proteste da oltre un decennio. Questi proletari hanno fermato l’attività in 500 fabbriche, hanno eretto barricate per le vie di Dhaka, bloccato arterie stradali, tra cui l’autostrada Dhaka-Mymensingh. Si sono scontrati con una sbirraglia di ben 30mila sgherri, difendendosi dai loro attacchi con lanci di mattoni, mentre questi maledetti hanno utilizzato gas lacrimogeni e sparato sulla folla causando 4 morti e centinaia di feriti. La rabbia proletaria si è rivolta contro i simboli del loro sfruttamento e della loro misera vita: sono state assaltate, saccheggiate o date alle fiamme centinaia di fabbriche. Purtroppo, non sono stati presi d'assalto i simboli e i luoghi del Capitalista Collettivo, che ha denunciato 11mila dimostranti.

Dai lavoratori bengalesi viene un esempio, una vera e propria lezione, per i proletari di tutto il mondo, anche e soprattutto per quelli “di vecchio capitalismo” narcotizzati da decenni di concertazioni e conciliazioni: solo il coraggio, la combattività, l'organizzazione, la lotta permettono, contro la violenta repressione dello Stato e dei padroni, di strappare almeno un salario sufficiente.

Non è ancora lotta politica, ma non è solo lotta economica...

[1]              “Bangladesh: ancora i lavoratori tessili”, il programma comunista, n° 5/2007; “In Bangladesh”, il programma comunista, n° 3/2011; "‘Killing is no murder’. Dedicato ai nostri compagni e compagne uccisi dalla fame di profitto del capitale”, il programma comunista, n° 4/2013; “Lavoratori in lotta”, il programma comunista, n° 6/2013.

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