DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Il 17/5/’08 si è svolta a Milano l’assemblea dei delegati delle tre organizzazioni di base, Cub, Cobas e Sdl intercategoriale. Buona la partecipazione dei delegati, non solo proveniente dal settore del pubblico impiego (scuola, comuni), ma anche da realtà di fabbrica (Pomigliano, Bosch, ecc) e dei servizi (Telecom, Aeroporti, Atm, Trasporti), ma anche molta la curiosità da parte di vecchi e neonati gruppetti politici, orfani dei referenti parlamentari, che si intralciavano con volantini e pubblicazioni varie per presenziare questo prossimo “soggetto sindacale unitario alternativo”. Una trentina gli interventi. Il rapporto unitario iniziale, che non si distingue in nulla dalla mozione finale, ha ricordato il percorso verso l’unificazione (dopo quella avvenuta nel gennaio ’07 tra Sincobas e Sult - oggi Sdl intercategoriale), che ha avuto la sua più recente espressione nello sciopero del novembre ‘07. Immancabile la presentazione dello scenario catastrofico del dopo elezioni e la “responsabilità delle sinistre nella sconfitta elettorale e nella perdita di fiducia dei lavoratori”. Anzi, è da questa valutazione che molti delegati sono partiti per dare libero sfogo alla loro rabbia contro il cosiddetto “governo amico”, che amico non è stato. Insieme a questa valutazione, gli interventi hanno sottolineato la “violenta lotta di classe” scatenata contro “i lavoratori e i ceti popolari dai padroni e dal potere finanziario ed economico” (i bassi salari, la precarietà, il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli immigrati, delle donne e del territorio, i “provvedimenti razzisti e le politiche securitarie”). E infine, ma non ultima, la valutazione dell’attacco portato avanti dalle tre confederazioni sindacali ai lavoratori con la concertazione, con l’abbassamento degli strumenti di difesa e di lotta (ridotti a pura rappresentazione teatrale), con la riduzione degli “spazi di democrazia nei luoghi di lavoro” e con lo svuotamento totalitario del Contratto nazionale, nella recente piattaforma confederale definita storica (“Linee di riforma della struttura della Contrattazione”), su cui scriveremo più ampiamente. In merito alla unificazione, “l'assemblea ritiene necessario proseguire nel percorso unitario intrapreso e, raccogliendo la forte richiesta di unità emersa in tutti gli interventi, di realizzare ‘strumenti permanenti di confronto’, azione e lotta unitari sia a livello generale che territoriale e categoriale”. La mozione, alquanto piatta, non raccoglie la spinta comunque forte (che viene da una minoranza di delegati) verso una generale mobilitazione, un più rapido processo di unificazione vincendo le “resistenze dei vertici”, la dura condanna dei “sindacati di regime”, la necessità di trasformarsi in vero “sindacato di classe”, né l’invito al “chiarimento interno”. Fallimento? No, continuità di un percorso, filiazione dalla storia delle grandi corporazioni sindacali nazionali (la cellula madre), fondati a tavolino nel 1944, inconsistenza e assenza di contenuti di classe (incapacità di guardare alla disfatta di classe prodotta dalla socialdemocrazia e dallo stalinismo e di comprendere la storia del movimento operaio e delle sue lotte con la trasformazione dei sindacati operai in sindacati di Stato), difesa dell’orticello di categoria o del “gruppo pseudosindacale” (facendo cominciare la storia del movimento sindacale al 1993), magari per ritrovarsi dopo l’unificazione su una scala più ampia di partecipazione (la Sdl vanta in un volantino 60.000 iscritti e si definisce sindacato di tipo nuovo, solidale, democratico, intercategoriale), irresistibilmente attratti verso deleghe più numerose, che permettano di entrare nel “salotto buono”, dove si persegue la finta battaglia con la controparte, con riconoscimenti e rappresentanze legali (Rsu), incapaci di comprendere che il “culto della democrazia” diretta o indiretta li condanna ad una regressione senza fine.

Venendo ai contenuti delle rivendicazioni, vere armi di lotta per noi perché è di quelle che può nutrirsi la possibilità (del tutto remota e illusoria) della trasformazione di questi organismi minicorporativi in sindacati di lotta, indipendenti dai padroni e dallo Stato, la mozione finale rilancia la vecchia lista della spesa del tutto estranea ai bisogni reali della classe, ma interni alla realtà del disfacimento della realtà piccolo borghese. Al centro, non c’è la lotta tra lavoratori e padroni, la lotta di classe contro classe, la lotta del salario contro il profitto. Al suo posto c’è la conquista di un reddito e della riscossione continua e costante dello stesso con meccanismi automatici di adeguamento a causa dell’aumento dei prezzi (mezzi di sussistenza, tariffe, affitti, spazzatura, Ici, Iva), si chiami questo “reddito da salario” o “pensione pubblica”, si chiami “cassa integrazione”, “salario minimo di sopravvivenza”, magari “dividendo di borsa” o “interesse bancario” per l’accensione di un mutuo in epoca di crisi... Il compito della scala mobile, del contratto, è dunque quello dell’adeguamento e della redistribuzione del reddito. E non è questo il senso del primo livello contrattuale, che i Confederali promettono nella loro piattaforma? Quale differenza sostanziale caratterizza queste “cellule figlie” dai sindacati di regime? Non si lamentano i padroni per l’aumento dei prezzi dei mezzi di produzione, delle materie prime, delle fonti energetiche? Forse si dovrà garantire anche a essi un reddito nella forma di profitti proporzionale agli investimenti produttivi?! Quale differenza sostanziale c’è tra le rivendicazioni delle confederazioni di base e la politica economica della classe dominante, quando quest’ultima, in nome di un profitto sicuro, promette e attua dittatorialmente, tramite agenzie e in privato, tramite sindacati di regime, una generalizzata riscossione di un reddito miserabile, congestionando il mercato del lavoro con forme contrattuali le più disparate, rendendo precaria e flessibile ogni attività lavorativa e schiavizzando la vita dei senza riserve? Non si vantano forse i governi d’Europa di aver messo in commercio enormi masse di ore lavorative, garantendo a tutti di accedervi in forma di elemosina? I giovani devono “farsi le ossa”: non è questo il primo comandamento dello sfruttamento minorile, delle donne, degli apprendisti, dei migranti? E allora che si fa? Invece di attaccare la classe dominante là dove i suoi nervi sono sensibili (salari e stipendi, orari di lavoro), la si invita a perseguire sulla strada delle elemosine, cercando di garantire ai lavoratori una “protezione a vita” (il consenso sociale), magari senza lotta, inventandosi una figura di lavoratore precario ribelle e magari rivoluzionario (vedi la “festa di San Precario” al Mayday, in cui il collettivo immiserimento si traduce in “scelta di vita”, bisognevole unicamente di un reddito adeguato!). O quando, parlando di forti aumenti di salari e pensioni, si giunge a lanciare la cifra di 3000 € annui scissa da alcun significato classista (perché non 4 o 5000 € ?). E perché non accettare allora la detassazione degli straordinari, se questo significa un aumento di salario e quindi un maggiore reddito? Non c’è dubbio che l’effetto sarà un aumento dell’orario di lavoro, turni più pesanti e nuovi omicidi sul lavoro: allora, si tratta di ridurre drasticamente l’orario di lavoro, abbattere i turni, impedire nuovi omicidi. Forse la detassazione non va bene perché questo aumento non è generalizzato, come da più parti si sostiene? E che rivendicazione è quella presente nella mozione, della “sicurezza nei luoghi di lavoro e sanzioni penali per chi provoca infortuni gravi o mortali”, che non si trasforma in rivendicazione di lotta organizzata e generalizzata volta ad interrompere e bloccare in ogni istante la produzione? Tutta l’impostazione è di matrice corporativa (reddito per tutti!) alle dipendenze dello Stato, a cui si chiede l’osservanza della Costituzione: il diritto al lavoro, alla casa, alla salute, alla previdenza, allo studio, al potenziamento dei servizi pubblici. Roba da sganasciarsi dalle risate. Riformisti ultrà o ultrariformisti, non si capisce perché dovrebbero impensierire lo Stato borghese, che in nome della pace di classe un contentino qui e uno là può sempre metterlo in conto, un “bonifico sociale”, un “tesoretto” può sempre trovarlo. L’importante è crearsi il “consenso sociale” adeguato alle situazioni e ai tempi, ma che non si parli di attaccare alla radice il profitto. Sulla democrazia sindacale, poi, il lamento dei sindacati di base nei confronti dello Stato che permette il diktat dei sindacati maggioritari corre di filato verso il cielo: “bisogna che sia restituito ai lavoratori  il diritto di decidere, parità di diritti per tutte le organizzazioni dei lavoratori, no alla pretesa padronale di scegliere le organizzazione con cui trattare!”. Ma i rivoluzionari di inizio Ottocento non affermavano che “chi ha forza, ha pane”, chi ha forza ha diritto? A quale livello di ignominia si è giunti, quando si pretende che, non la lotta ad oltranza, ma il diritto calato dall’alto, la protezione statale, la benevolenza dello Stato, saldino la discriminazione? Perché lo Stato, comitato d’affari della classe dominante secondo Marx, dovrebbe venire incontro alle suppliche? E queste dovrebbero convincere i proletari a ingrossare le loro file? Organizzazioni di servizi all’utenza o organizzazioni di lotta di classe, organizzazioni di pressione o sindacato di classe... o l’uno o l’altro, non c’è altra soluzione! La piattaforma espressa dalla mozione finale in realtà non è al centro di alcun conflitto di classe tra lavoratori e padroni. Ci auguriamo che le mobilitazioni, gli scioperi, le iniziative di lotta, che molti delegati operai ritenevano urgenti a difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro, non rimangano ancorate alla richiesta ultrariformista di un reddito (e ci auguriamo che le lotte sfuggano di mano agli esattori!), ma si spingano fin dentro il cuore del contrasto tra capitale e lavoro, nei salari, orari, contratti, licenziamenti, disoccupazione, precarietà, straordinari, discriminazioni, omicidi sul lavoro; che gli scioperi si estendano nello spazio e diventino a tempo indeterminato, mettendo in piedi il blocco della produzione e dei servizi; che si costituisca nel frattempo nel corso delle lotte una vera organizzazione sindacale di classe fondata su basi territoriali, che diventi come in passato centro di comando distaccato dalla fabbrica, spostando il conflitto dalla fabbrica alle strade, alle piazze e che tra le sue armi preveda, ben prima che le lotte abbiano luogo, casse di mutuo sostegno. Per quanto riguarda la parola d’ordine finale della mozione (“sconfiggere le politiche sociali imposte dal liberismo e dalla globalizzazione”), sarebbe tutta da ridere, se la situazione non fosse tragica.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2008)

 

 

 

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