DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Agli inizi dell’inverno 1968, i braccianti del Siracusano, aderenti alle tre confederazioni sindacali, decidono di intraprendere una grande azione unitaria: chiedono un aumento di paga del 10%, per raggiungere una parità nel trattamento salariale tra addetti a uno stesso lavoro in due diverse zone della stessa provincia – non tra Avola e Milano, ma tra Avola e Lentini, dove le paghe orarie erano rispettivamente di 3.480 lire e 3110 lire ed erano applicati differenti orari di lavoro (7 ore e 30 contro 8 ore). Di fronte al rifiuto degli agrari, 32.000 mila lavoratori agricoli incrociano le braccia e abbandonano gli aranceti e, dalle piazze dei paesi, dilagano lungo le stradi provinciali e innalzano blocchi di pietre nella speranza che le interruzioni del traffico attirino l’attenzione del governo. Il 2 dicembre, ad Avola, negli stessi luoghi in cui nel 1943 era stato firmato l’armistizio, scoppia la battaglia fra i braccianti e la polizia accorsa da Siracusa e Catania. Nel primo pomeriggio, davanti a un blocco composto da un centinaio di scioperanti intorno a uno sbarramento di pietre, giungono nove camionette della polizia, una novantina di uomini armati di mitra, bombe lacrimogene, elmetti d’acciaio. Viene intimato lo smantellamento del blocco: i braccianti, esasperati dall’aperta provocazione, reagiscono con un primo lancio di pietre. Una scarica di bombe lacrimogene piove sugli scioperanti, sprigionando un densa nuvola di fumo bianco: ma, trasportato dal vento, il gas, invece di intossicare i lavoratori, investe gli stessi poliziotti, fatti segno di altre bordate di pietre. La battaglia si frantuma in una serie di piccoli episodi di violenza, uomo contro uomo, e dalla strada si trasferisce nei campi circostanti, dove altri braccianti accorrono dalle case coloniche vicine. Dispersi e privi di collegamento, i poliziotti cominciano a sparare: in pochi secondi, le grida vengono coperte da una serie di scariche, un inferno che soffoca il gemito dei feriti. Le file dei braccianti indietreggiano, la polizia rimane padrona del campo: a terra rimangono due lavoratori uccisi dai proiettili e una trentina di feriti. Sull’asfalto, narrano i giornali, un ammasso di pietre e bossoli; attorno, carcasse fumanti di automezzi blindati dati alle fiamme; perfino un autotreno messo di traverso sul rettilineo stradale e sforacchiato dai proiettili, oltre alle numerose motorette dei braccianti colpite dal fuoco dei poliziotti. Dopo aver operato una decina di fermi e aver smantellato il blocco stradale, gli agenti abbandonano la zona di Avola.

Alcuni mesi dopo, il 9 aprile 1969, nel corso dello sciopero contro la minacciata chiusura della fabbrica, le operaie del tabacchificio di Battipaglia, appena a sud di Salerno, sulla Piana del Sele, sono attaccate dalla polizia, che ha già occupato militarmente la città ponendola in stato d'assedio. Infuriano i caroselli, i pestaggi e il furibondo lancio di candelotti lacrimogeni. Due persone restano uccise, un giovane tipografo colpito alla testa da un proiettile sparato da agenti di P.S. che morirà un'ora dopo all'ospedale e un’insegnante colpita da un proiettile mentre era affacciata alla finestra di casa propria. 119 manifestanti vengono arrestati. Il giorno dopo, in tutta Italia, il nuovo eccidio poliziesco provoca un'ondata di collera: 12 milioni di lavoratori entrano in sciopero, l'intera provincia di Salerno rimane bloccata per 24 ore, violentissime cariche di polizia si verificano a Roma, Firenze e Milano. A Battipaglia, per giorni continuano le manifestazioni e gli scontri: il commissariato è assediato e dato alle fiamme insieme a diversi mezzi della polizia.

Nella società italiana degli anni ‘60, uscita dalla “guerra per la democrazia” e trasformata dal “miracolo economico”, l’idiozia piccolo-borghese propagandava il credo che “la polizia non può più sparare contro i lavoratori”. Ma il boom aveva voluto dire un costo enorme per i proletari, messi alla catena per quindici anni con salari bassissimi e ritmi estenuanti, sotto il “piombo democratico” della Celere e del ministro degli interni Scelba (il ministro-mitra) e con il controllo delle corporazioni sindacali e dei partiti nazionalisti di sinistra che avevano assecondato il trapasso senza traumi dal fascismo alla democrazia. E quando le lotte riprenderanno in Italia, come altrove nel mondo (in Francia, in Germania, negli Stati Uniti), per l’avvicinarsi di una grande crisi economica di sovrapproduzione mondiale (quella del 1975, da noi prevista fin da metà anni ‘50), la polizia tornerà a sparare con la stessa determinazione dell’epoca di transizione, servendosi anche di apparati cosiddetti illegali che semineranno stragi a ripetizione e inaugurando di lì a poco (Milano, piazza Fontana) il decennio della “strategia della tensione”.

***

Di seguito, riproduciamo i volantini che il nostro Partito diffuse all’epoca delle stragi di Avola e Battipaglia.

 

 

VIVA I BRACCIANTI DI AVOLA!

Dalla Sicilia.

Ancora una volta gli zappaterra hanno indicato la via maestra della violenza di classe. Niente li ha fermati: né la mole gigantesca del nemico venuto in assetto di guerra, armato di bombe lacrimogene e mitra, né la vigliacca presenza dei sindacalisti traditori. Hanno indicato la strada agli zolfatari, chiusi in quella fossa della terra che è Caltanisetta, a quelli dei sali potassici, ai marmisti, agli operai delle grosse raffinerie di Priolo, tutti concentrati nella miserevole esistenza di sfruttati in un raggio di pochi chilometri. Ma non solo ad essi: a tutti i proletari essi hanno gridato la verità di classe: Basta con la democrazia, basta con la pianificazione democratica, con l’aziendalismo, con lo statalismo, trappole di un sindacalismo corporativista più fetente del suo predecessore fascista.

Le vestali della nazione con i mitra sotto le vesti, con i simboli della lotta di classe come croci, hanno immediatamente aperto il diversivo: indignazione, interpellanze, interrogazioni sui responsabili diretti: il questore, gli sbirri; sciopero di sei ore in tutta la “Sicilia colpita dal grave lutto”, venti minuti di sciopero nelle fabbriche del Nord. Persuasori non occulti di lacrime in grande stile, hanno chiamato la televisione, come è nel loro costume, per mostrarci le facce senza vita di questi senza-terra in cui la sbirraglia sindacale ha alimentato per 40 anni l’illusione della terra, della “terra a chi la lavora”, facendoli lottare con mezzadri, coloni, piccoli e grandi contadini, facendo occupare terreni che regolarmente abbandonavano. E i senza-terra, attraverso un lungo processo, sono in buona parte giunti al mare di Augusta, alle grandi raffinerie. Gli altri, dopo essere stati sottoposti ad uno sfruttamento senza pari, sono stati ancora una volta cacciati non dalla miseria, ma dalla ricchezza, dalla sovrapproduzione.

 

I cani da guardia sindacali, sotto la marea ascendente degli scioperi sempre più vigorosi della classe operaia, che sapevano della forza dei braccianti, avevano fatto di tutto per frenare la loro azione invocando la “responsabilità”, la “civile” manifestazione di protesta di tutti. Ma il diritto allo sciopero, sancito dalla Costituzione, vuoto per gli sfruttati, pieno delle eccelse porcherie di “patria, civiltà, nazione, economia nazionale” per gli sfruttatori, è stato stracciato come ogni dichiarazione di pace sociale promossa da quello schifoso partitone elettorale che è il PCI, e i braccianti con la forza delle braccia che gli danno fame, hanno attaccato, spaccando non solo i muri della strada ma anche la bestiale controrivoluzione di 40 anni, hanno afferrato la verità rivoluzionaria che lo stato borghese non deperirà ma morrà di morte violenta. Nati dalla stessa “madre economia”, dalla stessa crisi che investe il pianeta e che va galoppando verso la rivoluzione, i braccianti si sono collegati con i proletari francesi, con i negri d’America. Ancora una volta la violenza spontanea è stata battuta; la storia ci parla spesso di questa violenza impotente. Occorre indirizzarla al cuore della società, lottando contro gli opportunisti politici e sindacali che hanno tentato e tentano di dirottarla. Occorre il partito di classe che la diriga contro il partito del tradimento e della conciliazione di classe che ha tentato e tenta di spezzare le reni della violenza con il mito della pace, della democrazia, della coesistenza. Occorre il partito di classe contro i visionari del “popolo”, della “guerriglia”, della “democrazia rivoluzionaria”. Occorre, perché lo stato borghese è un’idra dalle mille teste, e dai mille volti, ma è debole e impotente di fronte alla violenza organizzata e centralizzata, perché ormai ogni angolo della terra è proletarizzato; dentro il suo stesso grande strumento di violenza, l’esercito, si annida il proletario, il bracciante. Daremo l’ostracismo alla violenza disorganizzata? No, essa ben venga, apra le porte della rivoluzione sbarrate dal “socialismo in un solo paese”. Il proletariato cercherà il suo partito di classe perché capirà l’impotenza dell’azione isolata, il bracciante capirà che egli, al là dei mezzi di lavoro, è proletario come il suo compagno delle raffinerie della Montedison, come il suo fratello della Renault, della Volkswagen, della Ford, delle grandi centrali americane e russe, del Nord e del Sud e che deve organizzare la sua guerra civile.

Pagherà lo stato borghese per questi nostri compagni proletari, e pagheranno i traditori di classe.

Viva i braccianti di Avola!

Viva la rivoluzione comunista!

 

 

SOLO COSÌ SI VENDICANO LE MILLE BATTIPAGLIE PROLETARIE

 

COMPAGNI! OPERAI!

Ancora una volta, a Battipaglia, i nostri fratelli si sono levai in una fiammata di collera contro la disoccupazione, lo sfruttamento e la fame che il capitalismo sotto qualunque governo regala ai proletari, e che solo riescono più intollerabili là dove la demagogica cortina fumogena delle “politiche di sviluppo” non può nascondere a lungo la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati. Ancora una volta, il capitale ha reagito nell’unico modo col quale possa affermare e sempre affermerà il proprio diritto storico di classe dominante e sfruttatrice: COL PIOMBO.

 

COMPAGNI! OPERAI!

A questo ennesimo eccidio di proletari disperatamente levatisi a gridare il loro odio di classe e la loro volontà di lotta, deve essere data una risposta che nessuno sciopero, meno che mai uno sciopero di tre ore vergognosamente proclamato in finta solidarietà dai sindacati opportunisti e dai partiti che li ispirano, potrà mai esprimere.

Battipaglia è una nuova dimostrazione del fatto che non v’è soluzione ai problemi della classe operaia nell’ambito del regime capitalista, sia pure il più “progressivo” e il più “riformatore”; è un’ennesima prova che la democrazia è uno strumento del capitale non meno del fascismo, e che è illusorio e criminoso attendersi da riforme, dialoghi e piagnistei, l’emancipazione dal giogo schiacciante dello sfruttamento capitalistico; è, nel suo bilancio sanguinoso, una conseguenza della politica che disarma i proletari nella illusione di pacifiche conquiste nel regno della democrazia e della “pace sociale”, e che divide gli operai in categorie, in località, in regioni o, peggio ancora, in patrie, abbandonandoli così isolati ed inermi in balia del capitale, del suo Stato e delle sue forze di intimidazione e repressione.

 

COMPAGNI! OPERAI!

Il grido che sale da Battipaglia e da Avola, come da Detroit, è uno solo: al fronte compatto della classe dominante schierata contro i suoi schiavi salariati deve rispondere il fronte imbattibile di tutto il proletariato deciso alla lotta rivoluzionaria; alla sua violenza quotidiana deve rispondere la violenza non individuale ma di classe, non sporadica ma politicamente organizzata, del proletaria industriale e agricolo. Lo Stato borghese non disarmerà mai; chiedergli di farlo significa pascere di illusioni se stessi e convincere il nemico che si è impotenti. Solo la forza gigantesca del proletariato può e deve DISARMARLO e infine ABBATTERLO.

 

COMPAGNI! OPERAI!

Basta con gli scioperi articolati, con le vertenze di categoria e di reparto, con le interpellanze parlamentari, con le invocazioni al “buon cuore” dei padroni “onesti” o alla misericordia del buon dio, con le “pacifiche” trattative al vertice, col “civile” dialogo fra capitale e lavoro, con le ubriacature pacifiste, riformiste, democratiche!

Riaffermino i proletari che i loro interessi sono EGUALI DOVUNQUE, e mai potranno essere conciliati con quelli della classe dominante borghese. Li difendano a viso aperto, imponendo la generalizzazione e non lo spezzettamento anche della più modesta lotta economica, opponendo la FORZA ALLA FORZA, giurando guerra al regno del capiate, democratico o fascista che sia, stringendosi intorno al partito della preparazione rivoluzionaria e dell’internazionalismo comunista.

Solo così si vendicano i morti delle mille e mille Battipaglia proletarie.

 

PER LA GUERRA DI CLASSE CONTRO LA PACE SOCIALE!

PER IL PARTITO COMUNISTA RIVOLUZIONARIO!

PER IL SINDACATO ROSSO!

VIVA LA CLASSE OPERAIA MONDIALE FIERA DELLA SUA MISSIONE STORICA DI AFFOSSATRICE DEL REGIME DEL SALARIO, DELLA MERCE E DEL PROFITTO; DEL REGIME DELLA FAME, DELL’OPPRESSIONE E DELLA GUERRA!

 


Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2008)

 

 

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