DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Il socialismo moderno, il nostro comunismo, si organizza come pratica politica, come critica del modo di produzione capitalistico (e di tutte le società classiste fin qui esistite) e come unica teoria della rivoluzione proletaria, nello svolto storico del 1848 con la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista.

In quelle pagine, con la presentazione cristallina e sintetica dell’alfa e dell’omega della nostra dottrina (storceranno pure il naso i nostri nemici amanti del “libero pensiero” e della “critica innovatrice”, ma la parola – anzi la pallottola – è questa), si smantellano tutti i tipi di socialismo “ideati” da esponenti degli strati sociali in perenne bilico tra noi proletari e la borghesia (cfr. il capitolo III, intitolato “Letteratura socialista e comunista”, con le sue sezioni sul socialismo reazionario, sul socialismo conservatore borghese, sul socialismo e comunismo critico-utopistico). Nella sezione dedicata alle grandi utopie del secolo XVIII, leggiamo: “I primi tentativi fatti dal proletariato per far valere direttamente il suo proprio interesse di classe in un tempo di fermento generale, nel periodo di rovesciamento della società feudale, dovevano di necessità fallire, sia per il difetto di sviluppo del proletariato, sia per la mancanza di quelle condizioni materiali della sua emancipazione, le quali non possono essere che il prodotto dell’epoca borghese. La letteratura rivoluzionaria che accompagnò questi primi moti del proletariato è, per il suo contenuto, necessariamente reazionaria. Essa insegna un ascetismo universale e una rozza tendenza a tutto eguagliare” (un compiuto superamento dialettico di questo “primitivismo” lo ritroviamo poi nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx).

Ma è soprattutto nei nostri scritti “Sul filo del tempo” (una lunga serie di articoli che, soprattutto nel corso degli anni ’50, riconnettevano i fatti contemporanei ai grandi nodi teorici, politici e tattici della dottrina marxista) che il superamento del materialismo borghese “rozzo e volgare” inchioda ogni progetto riformista (illusorio e dunque reazionario), con l’identificazione delle dorsali invarianti della futura società comunista.

Tuttavia, non è con “sufficienza” o “insolenza” che noi comunisti guardiamo a quei tentativi “preborghesi”, o che – da “egualitari conseguenti” – tallonano immediatamente le varie tappe della rivoluzione borghese, soprattutto quando squarciano la pretesa civilizzazione borghese con la forza della rivolta degli oppressi. Nel trattatello di uno storico americano dal cuore libertario sulla pirateria (fenomeno che accompagna dal 1650 al 1730 il mercantilismo borghese con la sua prima sistemazione degli antichi imperi coloniali spagnoli, francesi, portoghesi, inglesi e olandesi) [1], abbiamo trovato la maledizione che un “capitano” pirata sputa in faccia a un capitano “gentiluomo”, rappresentante di quella “legge” che regolarizzava l’espropriazione sistematica dei “poveri” rendendoli proletari: la merce forza lavoro che costituirà la base dell’accumulazione primitiva del nascente industrialismo borghese. Essa dice: “Dannazione a voi, non siete che un vile cucciolo di cane, e così sono tutti quelli che accettano di essere governati dalle Leggi che i ricchi hanno fatto per la loro propria sicurezza, perché altrimenti questi botoli codardi non hanno il coraggio di difendere quanto hanno ottenuto con la loro malizia: dannazione a voi tutti, a loro che sono una banda di furbe carogne, e a voi che li servite, quel pacco di teste di legno dal cuore di gallina. Ci trattavano da delinquenti, le carogne, quando non c’è una differenza, loro rubano ai poverelli con la copertura della legge, sissignore, e noi prendiamo ai ricchi con la protezione del nostro coraggio”.

L’oscuro nostro antenato lanciò il guanto di sfida, noi altrettanto oscuri discendenti non ci limitiamo a perpetuarla ma la rendiamo ancor più ferma e invincibile, perché la rivoluzione proletaria non si limiterà a ridistribuire la ricchezza. Sempre il Manifesto del 1848:

“Ciò che distingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese.

“Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella produzione e appropriazione dei prodotti, che poggia sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni per opera degli altri. In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione, abolizione della proprietà privata.

“E’ stato mosso rimprovero a noi comunisti di voler abolire la proprietà acquistata col lavoro personale, frutto del lavoro di ciascuno; quella proprietà che sarebbe il fondamento di ogni libertà, di ogni attività e di ogni indipendenza personali. Proprietà acquistata, guadagnata, frutto del proprio lavoro! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese o del piccolo agricoltore, che precedette la proprietà borghese? Noi non abbiamo bisogno di abolirla; l’ha già abolita e la abolisce quotidianamente lo sviluppo dell’industria.

“Oppure parlate voi della moderna proprietà borghese privata?

“Ma che forse il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea a quest’ultimo una proprietà? In nessun modo. Esso crea il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di generare nuovo lavoro salariato per nuovamente sfruttarlo. La proprietà nella sua forma odierna è fondata sull’antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo.

“Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare nella produzione una posizione puramente personale, ma una posizione sociale. Il capitale è un prodotto comune e non può essere messo in moto se non dall’attività comune di molti membri della società, anzi, in quest’ultima istanza, soltanto dall’attività comune di tutti i membri della società.

“Il capitale, dunque, non è una potenza personale; esso è una potenza sociale.

“Se dunque il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, ciò non vuol dire che si trasformi una proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. Essa perde il suo carattere di classe” [2].

Il “capitano” pirata, il nostro “oscuro antenato”, non poteva ancora assurgere a una concezione scientifica della società. Ma dal 1848 la scienza della rivoluzione c’è e, sulla base delle leggi da essa scoperte, generazioni di proletari si sono battuti e continueranno a battersi per il comunismo – via lunga e difficile, ma sempre più urgente e necessaria.

 

Note:

1. Marcus Rediker, Canaglie di tutto il mondo, Elèuthera 2005.

2. Manifesto del Partito Comunista, Cap. II: Proletari e Comunisti, Editori Riuniti 1974, pp.77-79.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2008)

 

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