DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Le lotte dei lavoratori e il ruolo del sindacato

 

Dopo vari mesi di agitazione, blocchi stradali e ferroviari, e di scioperi spontanei che hanno spinto Federmeccanica a richiamare le forze dell’ordine e la magistratura al loro dovere istituzionale (“o si contratta o si sciopera”!), e di cui Fiom, Fim e Uilm hanno negato la responsabilità politica (“mai dato indicazioni in proposito”!), l’accordo è passato sulla testa dei lavoratori: il referendum che sanzionerà l’accordo formale non farà che avallare la “bella democrazia” sindacale, tanto cara alla Fiom [1].

Ovviamente, nessuno ha chiesto ai lavoratori per quali obiettivi reali scioperavano, in forma spontanea, scavalcando le stesse indicazioni di lotta “passiva e inconcludente”: non erano certo in strada per il contratto in quanto tale, ma per ottenere aumenti, che garantissero la migliore difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Per esperienza, i lavoratori sanno che il contratto non lega due contraenti, ma uno solo: uno solo viene messo alla catena, per tirarsi dietro il diktat dell’azienda e farsi conciare la pelle. Sanno anche che il contratto nazionale, a differenza di quello decentrato e locale, può avere dalla sua l’incisività del numero: la lotta di un milione e mezzo di lavoratori metalmeccanici, mobilitati in uno sciopero nazionale generale, centralizzato territorialmente fuori dalle fabbriche, potrebbe segnare una svolta rispetto alle attuali impotenti azioni articolate per fabbrica e per regione (due ore qui, due ore là) cui li condannano i piccoli padroncini sindacali, aspiranti alle cariche istituzionali. Proprio per questo, i più combattivi hanno messo un notevole impegno nello spingere i compagni (ormai delle più varie nazionalità, realtà in sé straordinaria e importante) a battersi senza aspettare, come pretendevano i lacchè di turno, senza mettersi in “sala d’aspetto” per sentire come si svolgeva la trattativa. Lo stesso venditore di fumo Rinaldini ammette che, senza gli estesi scioperi nel corso della trattativa, la situazione sarebbe precipitata (?!) verso lo sciopero generale (se ne deduce che è stata la paura comune di sindacati e padroni a sollecitare la conclusione della trattativa).

Gli operai sanno che la resistenza per più giorni implica una perdita di salario notevole, non esistendo una cassa comune di sciopero: e in molti si sono chiesti perché questo non diventa una componente della lotta economica. Sanno per esperienza che la realtà di fabbrica è quella che li imprigiona e pertanto tracimano nelle strade, nelle città, tra i binari delle stazioni, ai caselli delle autostrade, per rendersi visibili difendendosi dall’oscuramento dei media. In buona parte, i lavoratori delle varie realtà aziendali locali hanno preso effettivamente in mano le decisioni e le iniziative di lotta, ma la saggia esperienza collettiva del passato sa che questa spontaneità, anche la più determinata, se non è organizzata e finalizzata non può offrire la possibilità di liberarsi dal cappio opportunista che si stringe sempre di più al collo. E il rientro immediato della lotta dopo l’accordo manifesta proprio la solitudine, l’isolamento, la divisione operata tra lavoratori, tra coloro che volevano continuare la lotta e quelli che rifluivano verso la fabbrica. Alcune denunce per i blocchi effettuati dai lavoratori nei giorni precedenti sono state messe in conto da varie procure (come prevedibile, la Digos ha fatto un lavoro capillare nel corso dei blocchi) e, finito il gioco delle parti, un certo numero di lavoratori pagherà un conto salato (occupazioni di binari e strade sono nel mirino della magistratura). Non sono poche le aziende che in questi mesi si stanno liberando con i licenziamenti di molti lavoratori combattivi, come denuncia lo Slai-Cobas.

I blocchi da metà di gennaio hanno interessato quasi tutte le aziende metalmeccaniche da nord e a sud. La strage dei sette operai alla Thyssen-Krupp, nelle condizioni di sfruttamento in cui si è manifestata, ha contribuito a togliere il velo a ogni illusione: ha mostrato qual è la condizione della classe operaia, non nell’Ottocento, ma oggi, e questo ha fatto alzare la determinazione operaia, e in parte molti blocchi duri hanno trovato alimento nella reazione di rabbia degli operai nei confronti dei sindacati, accolti a Torino come “bastardi” e “venduti” e al grido di “basta con la concertazione!”. I fischi a Rinaldini, segretario della Fiom, non potevano certo annunciare (né tanto meno scatenare) quella rottura sociale profonda, che noi ci auguriamo e per la quale operiamo. Troppo pesano ancora i decenni di attacchi e di svuotamento delle azioni di lotta che di tanto in tanto si sono aperte (autoferrotranvieri, Melfi), di svalutazione dei salari e di peggioramento progressivo delle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche (precariato, apprendistato, esternalizzazioni, sicurezza, flessibilità, straordinari, produttività accresciuta). E su questa condizione di peggioramento la bassa cucina riformista del “governo amico”, prima ancora dell’accordo sul contratto, ha cominciato a blaterare di “qualità e quantità delle risorse” da destinare agli operai, fornendo a Federmeccanica l’imbeccata per un aumento ridicolo del salario, non oltre l’inflazione, e rispolverando la leva fiscale a sostegno dei redditi bassi (le elemosine statali!) e un disegno redistributivo con l’onnipresente “pressione sulle rendite finanziarie”, oltre alla solita vecchia lotta populista all’“evasione fiscale”.

Quanto allo scambio salari-produttività che la Confindustria ha imposto nella trattativa, la bassa produttività industriale in Italia (ma dove?!) andrebbe ricercata, spiega il coro dei sindacal-critici, non negli alti salari, ma nel nanismo industriale (il ricco nord-est e poi il nord-ovest, tanto osannati prima per la vivace dinamica produttiva, tanto simile, si diceva, alla Silicon Valley, a quanto pare non tirano più come un tempo: “piccolo” non è più “bello”!). Obiettivo dunque per la Fiom doveva essere non la compressione dei salari, ma la “riqualificazione dell'apparato produttivo”: come se riqualificazione non significasse altro che intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro, accumulazione allargata, e quindi disoccupazione, flessibilità, precariato e (naturalmente) attacco ai salari. E di che si è occupato il programma del governo proposto dal protocollo del 23 luglio, se non della riqualificazione produttiva? Cosa sono stati la detassazione degli straordinari (causa prima della strage della ThyssenKrupp), l’aumento della flessibilità e della precarietà contenuti integralmente in quel protocollo, se non la spinta in alto della produttività in fabbrica? Il contratto appena firmato consegnerà nei prossimi tre anni gli operai alle aziende, con mani e piedi legati. Cosa pretendeva e cosa ha ottenuto in questo contratto la Confindustria se non nuova flessibilità, nuovi sabati di lavoro straordinario e un costo salariale che sa di elemosina. Cosa è stato opposto a questa volontà della Confindustria da parte sindacale? Nulla. Intanto, la Fiat può sbandierare nelle sue fabbriche, da Termini Imerese a Melfi, da Pomigliano a Mirafiori, una crescita portentosa del fatturato e del profitto. La ThyssenKrupp può vantare, a Terni e a Torino, una crescita straordinaria e un secondo posto in Europa nella produzione dell’acciaio. E i dati statistici possono affermare che il 10% delle famiglie della borghesia industriale e finanziaria si gode il 43% della ricchezza nazionale.

Certo la Fiom si è divisa, la sinistra sindacale di Cremaschi ha votato contro e vorrà far sentire il suo 10% di rappresentanza nel referendum. Ma non c’è da preoccuparsi: il ruolo di riportare all’ordine i dissenzienti è congeniale all’opportunismo vigile della sinistra sindacale, rientra nei suoi compiti.

Nel corso delle assemblee preparatorie del referendum, infatti, si tornerà ancora a pretendere che chi ha votato contro l’accordo si presenti a osannarne i meriti per farlo passare. Perché si giunga ad una qualche vittoria, i proletari devono arrivare alla consapevolezza che l’aristocrazia operaia, l’opportunismo, il tradimento delle lotte, non sono una realtà contingente, ma storica. Va tenuto a memoria, per esperienza ormai secolare, nell’epoca dell’imperialismo, che questa componente reazionaria della classe sarà sempre presente tra le sue file per scompaginare, distruggere, costituire il primo fronte di conservazione della società borghese. I lavoratori combattivi devono mettere in conto preventivamente lo scontro che presto o tardi avrà luogo, oltre che contro il nemico di classe, anche contro questo baluardo reazionario.

Il contratto

 

Non era un coro unanime quello di chi asseriva che i salari dei lavoratori metalmeccanici erano fra i più bassi d’Europa? Non era stato il ministro Damiano a sostenere che “con inflazione e caro prezzi negli ultimi anni salari e stipendi hanno perso 1900 euro in potere di acquisto”? Non era stata avanzata da destra e da sinistra la questione salariale come prioritaria? Gli operai non arrivano, si diceva, alla quarta settimana con gli attuali salari e gli aumenti dei generi alimentari, dell’energia, dei trasporti, del costo della vita pesano già troppo sulla busta paga. “Si deve ritornare alla scala mobile, che garantiva i salari dall’inflazione”, spiega qualche bella zucca, più a sinistra. Ma che specie di inflazione? Quella imposta (pardon, programmata!), quella legale secondo l’Istat o quella reale (delle tasche operaie)? “Basta con questi contratti miserabili”, grida con forza una parte “stravagante” della Confindustria, “lasciamo fuori i sindacati e diamo dei bonus sostanziosi ai lavoratori costringendo lo Stato a togliere le trattenute fiscali dalla busta paga!”. Nuovi amici degli operai!? Ma fateci il piacere! Da parte sua, l’azienda sindacale, di fronte a queste incursioni fuori dai tavoli contrattuali istituzionali, fuori dalla legalità (?), sono rimaste di sasso, hanno temuto il benservito e senza nemmeno il preavviso. E, come al solito, hanno invocato la protezione del Principe: lo Stato.

Com’è finito allora il duro lavoro di concertazione a tre? I metalmeccanici avranno un miserabile aumento di 127 euro lordi (quasi 115 netti) per la 5a categoria nell’arco di 30 mesi. Dunque, la scadenza del contratto è stata allungata di 6 mesi dopo un’altrettanta vacanza contrattuale (un bonus striminzito, una tantum, di 300€, pagabile a marzo, per la stessa categoria, coprirà il periodo, che non ripara nemmeno la perdita per i numerosi scioperi a singhiozzo imposti dalle corporazioni sindacali), con gli aumenti salariali distribuiti in modo tale che nella busta paga i lavoratori non si accorgeranno di averli presi... Ma i due anni e mezzo, con la prossima riforma del contratto (fra pochi mesi), diventeranno 3 anni! A parte qualche mugugno, gli obiettivi, dicono i tre compari (Governo, Sindacati e Confindustria), sono stati raggiunti! Per quanto riguarda l’orario di lavoro, viene accolto un altro sabato di straordinario obbligatorio, sicché i sabati di straordinario aumentano da 4 a 5 nelle imprese con almeno 201 dipendenti e da 5 a 6 per le aziende minori: le ore di straordinario complessive aumentano di 8, passando da 32 a 40 nelle imprese sopra i 200 dipendenti e da 40 a 48 nelle imprese sotto i 200 dipendenti (un sabato significa 8 ore di lavoro in più). E’ stata poi eliminata la franchigia per la “banca ore”: i lavoratori possono decidere di mettere in “banca ore” le ore di straordinario, a partire dalla prima. Per quanto riguarda le figure contrattuali, anche qui si è cantato vittoria. La proposta di regolarizzazione del rapporto di lavoro degli interinali e dei contratti a termine è stata portata al limite massimo di 44 mesi (invece dei 48 proposti dalla Confindustria!): quindi, per la trasformazione dei contratti precari in contratti a tempo indeterminato si dovrà stare in un limbo di quasi quattro anni, sempre che gli anni di precariato, per la continuità del rapporto di lavoro, siano stati svolti nella stessa azienda e in mansioni equivalenti anche non consecutivi (il che può significare che l’azienda può tenere fuori il lavoratore, in attesa di richiamarlo quando gli pare; inoltre, ci sarà una lista di presenza in ogni azienda). Per i contratti a termine, si fissa un tetto massimo di 8 mesi per eventuali proroghe. Il periodo di prova svolto con i contratti a tempo determinato, apprendistato, interinale, non viene ripetuto (ci mancherebbe?!) nel caso di assunzione a tempo indeterminato. Sui contratti di inserimento, part-time, appalti, ci sarà ancora da discutere. Tutte le figure contrattuali, come si vede, sono presenti e resteranno presenti a dispetto delle chiacchiere sulla loro graduale eliminazione!

Ma torniamo ancora al salario. Nei due anni e mezzo, gli aumenti (sempre lordi, si tenga presente) dalla 1a alla 5a categoria passeranno da 79 a 127: la prima tranche sarà pagata dal 1/1/08 (da 37 a 60 €), la seconda l’1/1/09 (da 23 a 37), la terza l’1/9/09 (da 18 a 30). La cifra forfettaria per coloro che non fanno contratti aziendali è di 260€ all’anno. Altra vittoria sarebbe poi la parificazione delle normative tra operai e impiegati in tema di ferie: dall’1/1/08, anche per gli operai inizierà a decorrere lo stesso trattamento degli impiegati (un giorno in più dopo dieci anni e 5 in più dopo 18 anni). Una vera conquista storica! Per avere un altro intero giorno di aria fuori dalla galera di fabbrica bisogna aspettare 10 anni e per altri 5 bisogna pazientare 18 anni. Un altro punto riguarda infine la perdita di 103 € annui per i nuovi assunti, anche se è compensata in parte (dicono) dalla nuova normativa sugli scatti di livello.

Questo è l’accordo. Noi ci auguriamo che i metalmeccanici sappiano spedirlo ai mittenti con la determinazione con cui hanno tenuto in piedi le lotte, e che nel corso delle assemblee respingano accordo e referendum, nella consapevolezza che il referendum stesso è l’ambito in cui si è più deboli, in cui l’isolamento impedisce di esprimere fino in fondo la propria forza collettiva, in cui la manovra burocratica, il crumiraggio, giocano le loro carte migliori. Sappiano che solo una organizzazione di lotta che, partendo dalla fabbrica, si estenda al territorio, coinvolgendo l’intera comunità dei lavoratori, può sconfiggere le forze dell’opportunismo tra le loro file.

 

 
Note:

 

1. E infatti la democrazia chewing-gum e forcaiola è riuscita a fare il solito miracolo. Il referendum sul contratto, tenuto nei giorni 25-26-27 febbraio, è passato con il 75% di voti favorevoli (285.267) e il 25% di voti contrari (129.401) e 11.000 schede nulle e bianche. Hanno votato solo in 525.325 (Il Sole 24 ore, 29/2/08), cioè il 61,47% degli aventi diritto (854.603 dunque). Ma non erano un milione e mezzo i metalmeccanici? A rigor di “logica democratica” ha votato circa un terzo (35 %) del totale (e all’occasione ci ricorderemo di questa democrazia del piffero!). Per nostro conto, nell’astensione non distingueremo tra disprezzo e indifferenza. In provincia di Torino, ha votato tra gli aventi diritto (?) il 57% (67,5% di sì); alla Fiat Mirafiori, ha votato sì il 53% e no il 47% (la quota di presenza è stata del 38,5%), alle Carrozzerie ha votato no il 64,4% e alla Powertrain il 52,4%. In Lombardia, ha votato il 60%, di cui il 78,3% ha accettato l’accordo (all’Iveco, alla Tosi e a Dalmine, il sì è passato tra il 60 e il 66%). In Toscana, il sì è passato con il 77,8%, ma alla Piaggio ha prevalso il no (53%), mentre alla Fiat di Melfi l’astensionismo è stato dell’81%. “Vittoria”, proclama Rinaldini della Fiom, ricordando che il numero di votanti è stato superiore a quello del 1999. “Dobbiamo rafforzare i risultati”, dice Caprioli della Fim, “nella contrattazione aziendale dobbiamo legare i salari alla produttività”. E Regazzi dell Uilm ha dichiarato: “Bisogna puntare sulla riduzione delle tasse sul lavoro dipendente”; e poi, tirando fuori dai denti la verità, ha aggiunto: “in questo referendum è emersa la bassa partecipazione al voto e l’insoddisfazione dei lavoratori”.

 

 

 

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