DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nell'articolo pubblicato sul numero scorso di questo giornale (“USA: La Signora è da buttare”), abbiamo esposto le ragioni che ci inducono ad auspicare il crollo dell'imperialismo americano, crollo di cui oggi si cominciano a intravedere le possibilità reali in conseguenza dell'andamento della guerra in Ucraina, dei notevoli mutamenti nel quadro internazionale, dell'evolvere della critica situazione interna agli Stati Uniti. L'auspicio, che trova fondamento nei nostri testi degli anni ’50 e nelle valutazioni della Sinistra Comunista sulle due guerre mondiali, diventa finalmente attuale, e con esso si ripropone la questione del complesso rapporto tra guerra e lotta di classe. Auspicare la sconfitta di uno dei contendenti in uno scontro tra concentramenti di potenza non significa per noi aderire in alcun modo alla crociata dei suoi avversari, ma intravedere le possibilità che le nuove condizioni prodotte da quella sconfitta riservano alla lotta di classe – lotta che resta al centro delle dinamiche capitalistiche e solo fattore in grado di demolire l'assetto della società presente e aprire la strada a quella futura.  

La questione del rapporto tra guerra e lotta di classe viene altrimenti interpretata da alcune specie di “marxisti”, o convinti di esserlo, di cui si danno varie testimonianze sul web. Non intendiamo qui sollevare una sterile polemica, né individuare “deviazioni” (niente di più lontano da noi!), ma riaffermare la nostra concezione come argine a errori potenzialmente fatali nel difficile processo di riattivazione del movimento proletario. Prendiamo come esempi due visioni opposte del rapporto tra guerra e lotta di classe, l'una tutta sbilanciata sul protagonismo proletario, l'altra sugli esiti del conflitto. Appartiene al primo tipo un articolo (1) il cui autore si pregia di utilizzare un metodo di indagine “marxista”, dove si nega che la guerra in corso coinvolga la NATO in una prospettiva strategica, adducendo come prova dati che attesterebbero il lungo declino delle spese per armamenti e l'assenza di una situazione di “economia di  guerra” come quella che caratterizzò i due conflitti mondiali e in certa misura l'intervento americano in Vietnam. Non entriamo nel merito della questione dei “dati”, che di per sé non costituiscono un criterio assoluto di  “scientificità”, men che meno riprova dell'adozione del “metodo marxista”. In questo caso, ci sembra un criterio sufficientemente “scientifico” affidarci all'evidenza dei fatti.

Se non siamo ancora in presenza di una “economia di guerra” in senso classico, con piena destinazione delle risorse finanziarie e umane all'impegno bellico in vista di un pieno dispiegamento di uomini e mezzi per una guerra generale, tuttavia è evidente che è in atto una forte e crescente mobilitazione ideologica e di risorse, oltre che strettamente militare, con grande dispiegamento di armamenti (anche nucleari) e forze americane in Europa (particolarmente preoccupante la loro rafforzata presenza in Romania, in Scandinavia e nei ringhiosi staterelli baltici). È altrettanto evidente che sia già in corso una guerra su più piani, dei quali quello militare è solo l'aspetto più visibile. È una guerra a tutti gli effetti che per la prima volta dal dopoguerra ad oggi mette in discussione un equilibrio imperialistico ormai superato dalle dinamiche innescate dalla crisi della metà degli anni ’70. Si tratta di dinamiche strutturali, economiche, che attengono alla natura del capitalismo e alla sua evoluzione catastrofica. Senza considerare gli aspetti storici relativi al corso del capitalismo e ai cambiamenti sopravvenuti nei rapporti tra i concentramenti di potenza mondiali, i motivi della guerra diventano incomprensibili e non si può trovare di meglio che ridurla a esercizio di distrazione di massa. Scrive infatti il nostro “marxista”:

 “Non si capisce come mai tutto l’occidente sia salito sul carro degli Stati Uniti nel sostenere una guerra che non ha alcun senso se non quello di risolvere i problemi di consenso dei cosiddetti leader dei paesi sulla scena mondiale. Non è certo uno scontro tra imperialismi come ribadiscono alcuni che hanno rispolverato dalle soffitte la chincaglieria politica del ‘900 senza rendersi minimamente conto del cambiamento radicale assunto dall’economia mondiale. Men che meno tutti gli sproloqui sciorinati dagli osservatori delle riviste di geopolitica sempre presenti nello spettacolo mediatico. Secondo la teoria dell’imperialismo ci troveremmo di fronte ad uno scontro tra grandi potenze per il dominio del mercato o per rapinare le materie prime come è accaduto in passato per i paesi del terzo mondo”.

Dunque, non si tratterebbe di uno scontro tra imperialismi, ma di una scazzottatura senza altro motivo se non distrarre l'attenzione delle masse dai problemi che le opprimono con forza crescente. Messa giù così, la questione rimanderebbe direttamente allo scontro di classe sul piano mondiale, di fronte al quale la guerra costituirebbe solo il classico fattore di rimbambimento e disciplinamento di massa. Certo: la guerra, qualunque guerra, è anche questo, ma ridurre quella in corso, con tutte le implicazioni che ne derivano, a un evento in sé privo di contenuto, ci sembra esercizio assai poco “marxista”.

In generale il ricorso alla guerra è l'estremo tentativo del Capitale di porre rimedio alle sue potenti contraddizioni e di contrastare la lotta di classe o prevenirne la ripresa, scaricando all'esterno tutti i problemi cruciali che si trova a fronteggiare. Nello specifico, il contenuto della guerra in corso – che è già potenzialmente una guerra generale – non risiede nella volontà di dominare il mercato e rapinare le materie prime secondo uno schema imperialista predatorio che ha come posta in gioco l'Ucraina. Questo è certamente, allo stadio attuale di sviluppo capitalistico, un aspetto reale ma secondario rispetto al mantenimento del controllo centralizzato dei flussi di capitale che nell'attuale sistema è appannaggio degli Stati Uniti. Che sia questa la materia del contendere, rispetto alla quale i flussi energetici costituiscono solo il sottostante materiale (“solo” per modo di dire, giacché la componente energetica è capitale fisso che gioca un ruolo sempre più decisivo nella formazione del valore, proprio in considerazione del ridursi progressivo dell'apporto del capitale variabile) è confermato dagli accordi in via di stipula tra Arabia Saudita e Cina che prevedono il pagamento del petrolio in yuan. In questo riposizionamento della monarchia del Golfo – storico puntello del dominio yankee – si intravedono le premesse per un ridisegno della mappa mondiale dei flussi di capitale che porterebbe l'area asiatica tendenzialmente fuori dall'utilizzo del dollaro come moneta di interscambio mondiale. Un ridimensionamento del dollaro minaccia non solo la supremazia americana, la riduzione della superpotenza a un ruolo transcontinentale nello spazio atlantico, ma l'esistenza stessa degli Stati Uniti per come li conosciamo. Una sconfitta militare della Nato in Ucraina darebbe vigore alla tendenza dei Brics ad allontanarsi da Washington e al processo di sganciamento dal dollaro, e gli effetti di un tale movimento avrebbero ricadute devastanti sulle linee di faglia che attraversano gli Stati Uniti al loro interno, in primo luogo quelle tra le classi. Ma per il nostro “marxista” questa guerra in Ucraina “non ha alcun senso”, è “assurda”. Leggiamo infatti:

“Ora le interpretazioni più diffuse sulla cause di questa guerra ripeto ‘assurda’ non reggono sulla base dell’evidenza empirica ma possiamo notare, come abbiamo fatto in precedenza, che le corporation che producono armamenti stanno godendo di ottima salute (e non solo quelle USA) realizzando profitti rilevanti come hanno fatto le Big Pharma durante la pandemia. Sono queste multinazionali che condizionano la vita della gente comune e la politica; non i governanti totalmente impegnati nel perpetuare la loro scomoda posizione di potere. Come ho già ribadito più volte le corporation non hanno nazione, infatti le 500 maggiori aziende statunitensi non finanziarie avrebbero accumulato circa 1 trilione di dollari nei paradisi fiscali. L’unico obiettivo delle corporation è fare profitti quando c’è l’occasione, pronte a precipitarsi a capo fitto nel business senza alcuna reticenza, se no perché le chiamiamo più correttamente multinazionali? It’s economics stupid!” 

Insomma, secondo questa lettura, mentre la politica ovunque sbarella e arranca, a comandare sono le multinazionali che approfittano di ogni occasione – pandemie, crisi, guerre – magari mettendoci pure lo zampino, per fare profitti. Un mondo in balia delle multinazionali, con guerre “assurde” che non si spiegano altrimenti che con la smania di incrementare i dividendi azionari e di creare consenso patriottico. Questa totale riduzione della complessità del capitalismo mondiale all'economico, nel suo preteso materialismo “marxista” si converte in soggettivismo, dal momento che tutto rimanda alla volontà di potere e profitto di pochi grandi gruppi multinazionali. Da questa logica, consegue che alla volontà delle grandi agenzie del capitale va contrapposta la soggettività proletaria disintossicata dall'imbonimento della propaganda, in cui lotta economica diviene immediatamente lotta politica (immediatismo).

L'orizzonte teorico con cui abbiamo qui a che fare rimanda a un “marxismo” di matrice operaista/kapedista, incline a liquidare, senza tanti riguardi, la grandiosa esperienza bolscevica come una faccenda riconducibile al nazionalismo grande-russo (2). È significativo che questa tendenza, collocabile nel variegato spettro del marxismo “occidentale”, almeno nella voce dei suoi emuli non tenga in nessun conto la differenza specifica tra i concentramenti di potenza oggi in campo, né il conseguente potenziale rivoluzionario sotteso allo scontro in atto e ai suoi possibili sviluppi. Nell'articolo in questione, si sostiene non esservi più alcuna differenza specifica tra Stati capitalisti, tutti indifferentemente alle prese con una recessione senza fine e con la mancanza di risorse da sfruttare (3). In questa visione, la vera guerra non sarebbe quella tra Stati, ma quella condotta dal potere pervasivo delle multinazionali contro le masse, sottomesse dalle varie politiche emergenziali e narcotizzate dalla propaganda. Piuttosto, la guerra degli eserciti farebbe comodo a tutti i contendenti, accomunati dall'obiettivo di mettere nel sacco i poveri cristi. Giusta la seconda: ma sulla prima nutriamo qualche dubbio. La guerra in Ucraina vista da parte americana non ha gli stessi caratteri nell'ottica della dirigenza russa: per i primi, è un passaggio offensivo imposto dalla crisi in un percorso strategico di lungo periodo; per i secondi, è in ballo la sopravvivenza della Federazione.

Beninteso, che la formazione del consenso abbia un grande ruolo nella gestione della crisi sociale prodotta dalla crisi generale del modo di produzione capitalistico è del tutto evidente, come pure che il ricorso all'“emergenza permanente” sia  criterio guida delle politiche governative al servizio del grande capitale. La costante della politica emergenziale induce di per sé un clima di “guerra” che condiziona lo scontro di classe. La questione che va posta è: attraverso quali processi si perviene alla ripresa della lotta di classe e del processo rivoluzionario. Per Lenin, tanto bistrattato da certo “marxismo occidentale” (cfr nota 2), è la stessa guerra, se la rivoluzione non interviene a prevenirla, a creare le condizioni per un esito rivoluzionario attraverso la sua trasformazione in guerra civile.

L'Operazione Militare Speciale (OMS) russa in Ucraina ha significato la violenta irruzione della politica nel contesto di equilibri mondiali sotto il controllo ormai vacillante degli Stati Uniti. L'iniziativa russa, andando oltre le intenzioni di chi l'ha promossa, ha sfidato l'assetto internazionale dominante mostrandone la fragilità e così ha rimesso in discussione non solo il superpotere del colosso atlantico, ma anche delle corporations che in quell'assetto hanno modo di grandeggiare. Nulla resterebbe della loro potenza se non disponessero per i loro fini dello strumento ineguagliabile dello Stato federale americano, delle sue articolazioni interne e internazionali, delle sue basi militari presidianti l'Eurasia, delle sue portaerei. Qui c'è in gioco ben altro che “il consenso”: c'è la sopravvivenza degli stessi concentramenti di potenza che si fronteggiano, entrambi sottoposti a una tremenda pressione ed entrambi a rischio di collasso. Più ancora, è in gioco la tenuta dello stesso sistema capitalistico, in bilico tra un assetto mondializzato ormai irrinunciabile – pena la restrizione delle basi stesse della valorizzazione – e le conseguenze di uno scontro internazionale a cui il concentramento di potenza dominante non può sottrarsi, pena la perdita della supremazia.

Un altro aspetto della situazione presente conferma la limitatezza fuorviante delle posizioni teoriche riconducibili all'economicismo di certi “marxisti”. All'attuale grado di sviluppo capitalistico, gli interessi economici del grande Capitale non possono realizzarsi senza creare ovunque le condizioni politiche e sociali più adatte alla loro piena soddisfazione. Tali condizioni abbisognano di un assetto totalitario tanto sul piano interno dei singoli Paesi quanto sul piano mondiale. Vi è un centro che detta le condizioni, le “regole”, a tutti i soggetti economici, politici e istituzionali che si confrontano sul mercato planetario. È un tentativo supremo di superare l'anarchia capitalistica, l'anarchia del mercato: di organizzare il caos. Un tentativo di questo genere è oggi in atto da parte del principale concentramento di potenza mondiale e dei suoi alleati, e la sua valenza ha un significato politico senza precedenti nella storia: si tratta del tentativo di dare un'organizzazione totalitaria a un mercato mondiale libero da ogni sorta di vincoli. L'orientamento ci sembra ben sintetizzato nella descrizione che ne dà un ex ufficiale Usa:

Per la classe politica dominante contemporanea a Washington, il globalismo implica qualcosa di più dell'acquisto di prodotti realizzati da manodopera a basso costo in paesi non occidentali. Il globalismo guidato da Washington ora promette la dissoluzione delle tradizionali forme politiche e sociali di organizzazione umana – governi nazionali, confini, identità, culture – e le sostituisce con un mondo di consumatori uniti solo dalla dipendenza dalle multinazionali. (ONG) e istituzioni sovranazionali. In altre parole, il globalismo è ora sinonimo della visione della sinistra progressista dell'ordine di sicurezza internazionale liberale del dopoguerra che deve espandersi per sopravvivere. La guerra per procura di Washington in Ucraina è un progetto globalista per trascendere la continuità della storia, della cultura e della geografia incarnata dallo Stato-nazione, al fine di omogeneizzare popoli disparati nel processo di assimilazione dei rapidi cambiamenti sociali e tecnologici. In questo senso, il recente appello del presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Washington e ai suoi partner strategici per stabilire il controllo globale delle armi nucleari russe si allinea perfettamente con la visione globalista progressista dell'amministrazione Biden” (4).

Ci sembra una sintesi efficace del significato politico dell'azione del centro imperialista dominante, che tuttavia per noi prescinde dalla sua ispirazione progressista o di altro segno, in quanto è frutto della necessità di superamento dei limiti all'espansione del Capitale posti da nazioni, gruppi, culture, religioni, classi. Solo appiattendo tutta la loro varietà alla dimensione eternizzata della produzione e del consumo è possibile proseguire nella perenne espansione cui è condannato il capitalismo. Da ciò discendono alcune considerazioni. Il tentativo di disciplinare centralmente il capitalismo mondiale può sfociare in due esiti: il più probabile è il suo fallimento e il passaggio a un nuovo “ordine multipolare”, ancora e sempre precario e segnato dall'anarchia del mercato e dal conflitto (sociale e tra concentramenti di potenza); l'altro è la conservazione dello stesso capitalismo con il passaggio a un ordine in cui il funzionamento delle categorie mercantili (merce, denaro, salario, profitto e rendita) non conosce più limiti, così nello spazio come nella dimensione dell'individuo produttore/consumatore, ma dove esse sopravvivono come simulacri vuoti di significato e preludono al loro definitivo abbandono. In questo caso, si realizzerebbe la condizione che i “marxisti economicisti” attribuiscono al presente, e cioè la contrapposizione diretta tra Capitale mondiale e masse proletarizzate, dove diventa essenziale il controllo totalitario di ogni manifestazione della vita umana per far sopravvivere una forma capitalistica che non corrisponde più alla sostanza della sua struttura materiale.

Un tale esito – preludio alla dissoluzione dello stesso capitalismo – vive solo nei sogni visionari e nella presunzione di onnipotenza di alcuni centri di potere del Capitale occidentale, come pure nelle semplificazioni di certi “marxisti”, anch'essi “occidentali”, di oggi. Di mezzo, c'è la complessità di un mondo dove l'aggredito è finalmente nelle condizioni di non dover calare le brache di fronte all'arroganza dei “colonialisti versione 2.0” e si difende aggredendo. Di mezzo, c'è la guerra in atto e una frattura che si va allargando tra i processi di integrazione atlantica e di integrazione eurasiatica. E soprattutto di mezzo c'è la prevedibile ripresa della lotta di classe internazionale.

Cerchiamo di trarre alcune conseguenze politiche da quanto premesso. L'impostazione di un certo “marxismo” che si pone all'esterno delle lotte reali coinvolgenti forze reali, non direttamente riconducibili allo scontro proletariato-borghesia ma pur sempre da esso generate, non è in grado di cogliere il diverso orientamento di quelle forze e le conseguenze che, per le prospettive della lotta proletaria, derivano dalla vittoria dell'una o dell'altra. Allo stesso modo, quell'impostazione tende a non riconoscere nei movimenti che insorgono per effetto della crisi e della guerra il potenziale di sviluppo verso forme apertamente classiste. Infine, il riconoscere che esiste un nemico principale nemmeno lontanamente comporta fare fronte con i suoi avversari, ma indirizzare le forze verso il centro vitale dell'intero schieramento di classe nemico. Contro di esso deve convergere la lotta del proletariato occidentale, attraverso la pratica del disfattismo e la denuncia del carattere imperialista della guerra. In Oriente e nel restante mondo, la consegna del rifiuto del crociatismo non esclude l'auspicio del crollo dell'imperialismo egemone. Con la caduta della potenza dominante cadrà l'ultimo alibi a sostegno dell'anti-imperialismo nutrito di ostilità all'Occidente, solido puntello delle borghesie nazionali dei concentramenti di potenza minori, con cui esse giustificano la repressione delle lotte proletarie nei loro paesi.

Per il momento, ci fermiamo qui. In un prossimo articolo, prenderemo in esame critico un altro genere di “marxisti”: quelli inclini ad affidarsi ànema e core alle sorti di chi affronta il Nemico principale. Ieri, potevano essere Saddam, Gheddafi e perfino, perché no?, l'islamismo radicale; oggi, Putin e Santa Madre Russia; domani, la Cina.

 

NOTE

1- A. Pagliarone, “The new recession e la guerra in Ucraina”, reperibile in Sinistrainrete.

2- Il nostro “marxista” si spinge a scrivere: “Tra l’altro non possiamo non menzionare la tesi delle minoranze dell’ultrasinistra secondo cui siamo di fronte ad uno scontro inter-imperialistico multipolare dove tutti gli attori sono imperialisti per qualcosa, naturalmente innalzando le bandiere con lo slogan 'dalla guerra imperialista alla rivoluzione proletaria' che tanti guai ha procurato ai lavoratori di tutto il mondo specie a quelli della Russia zarista.” La matrice di certe posizioni denigratorie del momento più alto raggiunto dal movimento comunista mondiale si trova negli scritti di Paul Mattick, già membro della KAPD e tra i massimi esponenti del “comunismo dei consigli”. In un articolo del 1935 (La leggenda di Lenin), Mattick sostiene cheLa chiamata di Lenin per la rivoluzione mondiale era primariamente una chiamata in supporto e per il mantenimento del potere bolscevico […]Al fine di renderla più lunga possibile, Lenin istituì la sua Internazionale. Essa stabilì per se stessa un doppio compito: da una parte, subordinare i lavoratori dell’Europa occidentale e dell’America alla volontà di Mosca; dall’altra, rafforzare l’influenza di Mosca sulle genti dell’Asia orientale”. Infine, vede nella teoria del “socialismo in un solo paese” la “conseguenza diretta di una pseudo-politica di rivoluzione mondiale perseguita da Lenin stesso”,  https://www.marxists.org/italiano/mattick/leglenin.htm  (evidenziature nostre)

3- A suo dire,“le potenze imperialiste del passato si trovano attualmente in una condizione economica  molto simile a quella degli altri paesi, di conseguenza non esistono più risorse da spolpare anche perché l’economia capitalista che ormai domina il pianeta vive ormai una recessione di lunga durata.” (A. Pagliarone, cit.)

4- Si tratta del colonnello Douglas Mc Gregor (https://www-dedefensa-org.translate.goog/article/la-guerre-globaliste-en-marche?_x_tr_sl=fr&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc).

 

II Parte - Guerra e lotta di classe (II) Parte Seconda: Deliri e paradossi resistenziali

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