DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La Trieste di oggi, se non si presenta più come la città proletaria e internazionalista di ieri, conserva tuttavia una dimensione internazionale nel porto, sempre più cruciale nei flussi vitali che alimentano il modo di produzione capitalistico, e in un proletariato tutt'altro che omogeneo per composizione etnica e linguistica. Ciò fa sì che nella città batta ancora un cuore proletario, e nella sua natura profonda covi ancora un'anima internazionalista che la predispone a divenire, in un futuro che noi speriamo non lontanissimo, banco di prova delle più grandi battaglie. Infatti “è in queste frange di incontro dei popoli, in queste zone bilingui, che l''internazionalismo proletario deve fare le sue prove rifiutando le bandiere di tutte le patrie per quella unica e rossa della rivoluzione sociale” (Il proletariato e Trieste, 1950). E' il porto il cuore della  città proletaria, non solo in ragione della presenza operaia, ma per le battaglie coraggiose dei portuali che hanno dato origine all'esperienza, forse unica e non ancora ben studiata, di unità fra lotte di difesa della condizione operaia e lotta politica coinvolgente il territorio.

La forza potenzialmente dirompente di quelle battaglie trova conferma oggi nell'isolamento e nella repressione cui è fatto oggetto quel solido nucleo proletario da un fronte compatto di istituzioni, media, magistrati, sindacati di regime, col loro codazzo di servi, spioni e provocatori. Tutte forze convergenti nell'obiettivo di impedire che si ripresenti la minaccia di una saldatura dei diversi settori di classe presenti nel territorio a partire dalla lotta esemplare di un piccolo nucleo operaio capace – in virtù della collocazione nei gangli vitali della circolazione mondiale delle merci – di incidere sulla propria condizione di lavoro, e di dimostrare con questo al proletariato tutto la possibilità reale di contrastare i progetti di un nemico solo in apparenza invincibile.

Non è intento di questa nota fare la storia della lotta dell'ottobre 2021 al molo VII, dell'opposizione al Green Pass, dei tanti che portarono solidarietà fattiva a quell'avanguardia di resistenti, degli scontri, delle grandi manifestazioni che attraversarono la città e della loro eco internazionale, del blocco poliziesco che tentò di isolarla, delle provocazioni, e tanto altro. Nemmeno intendiamo soffermarci sui suoi i limiti, tutti riconducibili all'illusione che una lotta nei fatti e nelle intenzioni pacifica e democratica  possa essere riconosciuta legittima e per ciò stesso degna di essere accolta nelle sue ragioni e richieste dallo Stato democratico. La sola risposta che ne venne fu la repressione violenta, la gogna mediatica, la condanna inappellabile in nome dell'ordine democratico, della salute pubblica, dei grandi e piccoli affari ruotanti attorno al porto. L'indignazione che ne seguì tra quanti vi avevano partecipato o aderito idealmente fu occasione di una presa di coscienza, un passaggio necessario per giungere alla consapevolezza che l'epoca di un più o meno accettabile e duraturo compromesso tra le classi è definitivamente conclusa ed è giunto il tempo in cui l'unica conquista possibile è la società futura. Di fronte a questo insegnamento che ogni proletario può e deve cogliere, errori, ingenuità,  limiti soggettivi e personalismi scompaiono e rimane un pezzo di storia vivente del proletariato che lotta per sé, e così facendo chiama tutti gli oppressi alla lotta per il proprio riscatto. La lotta ha smascherato una volta ancora la natura di classe dello Stato democratico, la violenza di cui è capace, l'attitudine ferocemente repressiva, la falsità senza pudore degli organi preposti alla costruzione del consenso, il servilismo dei suoi sindacati.

Il fronte del porto oggi è silente, ma sotto la cappa opprimente di una restaurata normalità cova la brace che riaccenderà le lotte future sul terreno fertile di una maggiore consapevolezza della posta in gioco e della natura e forza del fronte nemico.

Ai trionfali proclami dei grandi traguardi di un porto in espansione per volume di merci e bacini di utenza si aggiunge alla cronaca di questi tempi la morte di un portuale precipitato in mare col suo carrello elevatore. Come da rituale vi hanno fatto seguito  unanimi le lacrime di coccodrillo e lo stucchevole richiamo al rispetto delle condizioni di sicurezza del lavoro.  Anche questo rientra nella routine, come l'ennesima morte bianca, frutto della stessa normalità restaurata dopo le lotte degli anni trascorsi. Il Collettivo Lavoratori Portuali di Trieste (CLPT), l'organismo al centro di quelle lotte, è da tempo sottoposto all'attacco concentrico delle forze preposte agli affari del capitale: padroni, istituzioni, mezzi di informazione e sindacati. Il Collettivo nacque nel 2014 sulla spinta della necessità di organizzare una difesa delle condizioni di vita e di lavoro operaie, in cima la tutela della sicurezza, in assenza di iniziative in tal senso dei sindacati ufficiali che non fossero di pura facciata. Da allora l'organismo divenne protagonista di un'azione sindacale che riuscì nel tempo a strappare miglioramenti significativi in termini di contratti, assunzioni, condizioni di lavoro, tanto che i suoi principali rappresentanti furono oggetto di squallide manovre, miseramente fallite,  volte a screditarli (1).

Durante la pandemia il collettivo denunciò la mancanza di provvedimenti in grado di contenere il rischio di contagio tra i lavoratori del porto, e a fine estate 2021 – per decisione a maggioranza dell'assemblea – si oppose alla imminente introduzione del Green Pass sui luoghi di lavoro, giudicato di nessuna valenza sanitaria e fortemente discriminatorio. L'obbligo di vaccinarsi, o in alternativa di farsi i tamponi – peggio se a pagamento – scaricava completamente sui singoli lavoratori la responsabilità della propria salute, quella che i gestori del porto si erano rifiutati di assumere per tutto il tempo della pandemia. Per istintiva solidarietà di classe, i portuali accolsero l'offerta dei tamponi gratuiti a condizione che fosse estesa a tutte le categorie, e fecero la proposta alternativa di rendere i tamponi obbligatori e gratuiti per chiunque entrasse in porto – ciò che per semplice buon senso avrebbe comportato un minimo di sicurezza effettiva.

Manco a dirlo la proposta non fu accettata, a conferma del fatto che alle autorità portuali interessava assai più il disciplinamento dei lavoratori che la loro salute. Ne seguì lo sciopero di metà ottobre 2021 e la conseguente interruzione delle attività portuali. Attorno alla  iniziativa di lotta si attivarono forze eterogenee unite dall'opposizione al complesso dei provvedimenti sanitari del governo, dei quali si denunciavano i rischi di ordine politico e per la stessa salute pubblica (2). Al di là delle valutazioni sul carattere di queste forze e sulle diverse motivazioni, a volte sconclusionate ma comunque frutto di una reazione spontanea a provvedimenti scientificamente controversi e senz'altro liberticidi, appariva con chiarezza che la capacità di mobilitazione sociale dell'iniziativa dei portuali costituiva un esempio, se generalizzato, in grado di far crollare tutto l'impianto politico, sanitario e mediatico attorno al quale, con pochi distinguo, solidarizzavano tutte le forze dell'arco costituzionale, le istituzioni, i mass media e i cosiddetti intellettuali.

Al primo segnale di riflusso del movimento, pertanto, l'attacco al CLPT non si fece attendere: l'autorità portuale disconobbe il protocollo che ne riconosceva la rappresentatività sindacale e le aziende del porto interruppero senza darne motivazione le trattenute in busta paga degli iscritti al coordinamento. Di fatto per loro il CLPT cessava di esistere, veniva di fatto bandito dalla realtà portuale. Contestualmente le grandi aziende che operano nel porto, con al seguito le numerose ditte terziste, hanno cominciato a instaurare un clima di intimidazione nei confronti dei lavoratori, ricorrendo a licenziamenti e sospensioni nei confronti di chi aveva partecipato alle lotte, in modo particolare se si era esposto in prima linea. L'azione, dal chiaro significato ricattatorio, intimava a tutti i lavoratori portuali di piegare la testa e di rinunciare a qualsivoglia iniziativa difensiva per non incorrere nella stessa sorte. Il tutto nel totale silenzio degli organi di informazione locali, per non dire di quelli nazionali. All'ostracismo si aggiungeva così la scomparsa dalla cronaca del CLPT, se non in forma di sbrigative note di condanna dell'operato, presentato come irresponsabile, dell'organismo sindacale. Un vero clima di omertà mafiosa, motivata dalla volontà unanime della borghesia di non toccare la lucrosa operatività del porto e tutto il gran giro di affari che vi gravita attorno, comprese le ricadute sulle attività economiche locali, sul sempre più fiorente turismo certamente favorito dalla crescente importanza del porto negli scambi internazionali, sull'immagine di una città dipinta come pacifica e operosa, occasionalmente disturbata dal comportamento sciagurato di pochi esagitati. A smentire l'amena storiella rimaneva la indiscutibile rappresentatività del CLPT tra i portuali, testimoniata dalla  massiccia adesione allo sciopero incriminato; altrettanto innegabile fu la solidarietà che la città operaia e popolare aveva manifestato nei confronti degli scioperanti.

Su tutto ciò è caduto il silenzio ed è in corso un'opera unanime di rimozione, mentre altre emergenze aziendali vengono gestite secondo i rituali ipocriti della solidarietà delle istituzioni e dei preti nei confronti delle maestranze. Collaudato meccanismo per fregarle, ma ancora intriso – almeno nelle forme – di riformismo socialdemocratico (3).

La parola d'ordine è cancellare la vicenda dalla memoria, quasi un'adesione alla famigerata cancel culture, una delle recenti squallide mode di matrice americana. La cosa equivale a negare la realtà e la storia per crearne una pienamente conforme ai desiderata della classe dominante e utile a esorcizzarne le paure. La cancellazione della realtà e della storia pare anche essere il criterio adottato dal Tribunale del Lavoro di Trieste per respingere il ricorso contro il licenziamento dell'ex presidente del CLPT. Il giudice ha motivato la sentenza di rigetto per la... “non dimostrata rappresentatività del coordinamento” nell'azienda, sebbene risultassero iscritti all'organismo sindacale ben 71 lavoratori sui 200 totali, probabilmente più di quanti ne contassero gli altri sindacati messi assieme. Di fronte a un dato oggettivo che non poteva essere ignorato, il tribunale non si è arreso. Ha così valutato autonomamente che poiché gli iscritti non si erano opposti alla sospensione delle trattenute sindacali e le schede di adesione erano vecchie, il CLPT non era più rappresentativo.  A rafforzare l'impianto della sentenza –  evidentemente traballante – hanno ritenuto di aggiungere che dopo le manifestazioni di ottobre 2021 “il consenso attorno al sindacato era notevolmente calato”. Da dove abbiano ricavato questa convinzione non è dato sapere, considerato che dalle aziende non è pervenuto agli interessati alcun provvedimento formale, alcuna comunicazione, alcuna convocazione che riguardasse una verifica della rappresentanza. Hanno fatto tutto loro, padroni e magistrati, in pieno accordo e sinergia, in applicazione dei loro concetti di verità e giustizia. Questione chiusa, per loro. Questione scomparsa dagli organi di informazione locali, dicevamo, non prima però che questi si prodigassero per demolire l'immagine dei lavoratori del CLPT con una campagna di vera e propria criminalizzazione, costruita sull'accusa di aver messo in pericolo salute pubblica, economia e benessere della popolazione. Questione rimossa dalle agende dei politicanti locali, che dopo aver lisciato il pelo al Coordinamento individuandone un  interessante bacino di voti, hanno aderito pienamente alla campagna orchestrata per diffamarne le iniziative e si sono arroccati nell'aureo mondo di partiti e istituzioni. A completare l'allineamento di tutte le forze a difesa del Capitale si aggiungono gli altri sindacati, nessuno dei quali ha alzato un dito contro i licenziamenti. Probabilmente la messa al bando dell'unico organismo sindacale realmente orientato alla difesa del lavoro in ogni sua manifestazione, attivo nella segnalazione di problemi legati alla sicurezza, disposto a intraprendere vere azioni di lotta fa comodo anche a questi fantasmi che non possono contare ormai su altro che sull'assenza di una organizzazione sindacale degna di questo nome per continuare a giustificare la propria presenza. Con loro la santa alleanza contro il CLPT  è completa.

Il lavoratore morto in mare può essere considerato un caduto di questa guerra totale, e non è certo un caso se gli incidenti sul lavoro nel porto sono di nuovo in crescita. Guerra totale, perché i caduti della guerra di classe di ieri, oggi e domani sono vittime dello stesso meccanismo affaristico e sfruttatore che conduce ai conflitti armati, agli scontri tra concentramenti di potenza, alle ecatombe di civili e di proletari in divisa di ogni età mandati al macello per spianare il terreno al Capitale. Sotto questo aspetto il porto di Trieste è più che mai al centro di questa dinamica che sacrifica vite umane per ottenere profitti e potere. Lo è perché da quando il conflitto russo-ucraino ha comportato il blocco del porto di Odessa, naturale sbocco di Kiev verso i bacini del Mediterraneo, Trieste è divenuta il terminale marittimo dell'Ucraina, passaggio obbligato di merci in arrivo e partenza, a cominciare dalle armi (4). Ecco un'altra buona ragione per imporre la messa al bando del CLPT, ieri avanguardia della lotta alle politiche emergenziali pandemiche e domani in grado di riproporsi in questo ruolo nella lotta contro l'emergenza bellica. In gioco c'è il funzionamento della macchina in perenne movimento che assicura il riarmo e il sostegno logistico delle truppe di Kiev, da un lato; dall'altro la garanzia che merci vitali provenienti da quel paese continuino ad affluire ai Paesi capitalisti d'Occidente. Ma ancor più, in prospettiva, lo snodo vitale del porto giuliano dovrà assicurare l'afflusso di capitali, merci e forza lavoro necessari alla tanto annunciata ricostruzione del Paese. Dopo averlo indotto a indebitarsi fino al collo, saccheggiato e impoverito con privatizzazioni selvagge,  averne smantellata la ricchezza produttiva in industria e agricoltura, dopo averlo ridotto a bacino di migranti economici e profughi di guerra, dopo aver mandato a morire al fronte centinaia di migliaia di giovani e meno giovani in età produttiva, stanno completando la mission di farne una landa desolata su cui finalmente ricostruire (5).

Hanno fatto un deserto e l'hanno chiamato pace”, scriveva Tacito a proposito dell'imperialismo di Roma.  L'imperialismo di oggi, quello delle graziose democrazie d'Occidente guidate dal bestione atlantico, si dispone a banchettare sulle macerie di un Paese mandato a morire in nome degli affari di pochi grandi gruppi dominanti il mercato mondiale. La voracità del Capitale spinge a intraprendere questa civilissima missione prima ancora che si intraveda uno spiraglio di tregua, quando ancora il martellante tamburo guerrafondaio non rivela cedimenti di ritmo. Che guerra sia, dunque, mentre il sacrificio dei molti nutre il grande banchetto che celebrerà un nuovo trionfo dell'affarismo criminale.

Tutto è perduto, dunque? Lorsignori sanno che non è il caso di farsi troppe illusioni. D'altra parte, la messa in campo di forze smisurate per combattere la guerra esterna ed interna è segno inequivocabile del terrore di veder crollare le basi su cui si regge la mostruosa e inarrestabile macchina dei profitti. La forza della controrivoluzione – non smetteremo mai di ricordarlo – è direttamente proporzionale alla forza potenziale della rivoluzione. Ogni sforzo del Moloch affaristico per preservarsi e accrescersi in potenza è destinato a sua volta a nutrire la forza proletaria. La guerra di classe può conoscere tregue e compromessi, ma non può scomparire finché non perirà l'ultima società di classe, e se oggi le vittime si contano solo tra i proletari, i crimini e le ingiustizie dilaganti fanno da coltura ai germi delle rivolte a venire, pregne di futuro.

Mesi fa nel Golfo si è affacciata la grande portaerei americana Truman, quasi ad ammonire: Trieste è nostra. Nulla di nuovo, se già nel 1950 la nostra corrente riconosceva che, in quanto “testa di canale verso il cuore dell'Europa, Trieste interessa il modernissimo imperialismo e i piani americani di controllo” (Il proletariato e Trieste, cit). In una delle vie centralissime, dove ha sede il Movimento Trieste Libera, campeggia a grandi caratteri la scritta UK & USA, come back!, segno che la memoria dell'amministrazione alleata della zona A del Territorio Libero di Trieste (1947-1954) ha ancora i suoi nostalgici cultori e i suoi generosi finanziatori. La città è tornata ad essere oggetto di contesa, non più tra nazioni confinanti ma nel grande scontro che si profila tra l'imperialismo atlantico e la crescente potenza cinese che ha nel porto triestino un terminale fondamentale del progetto delle Nuove Vie della Seta (6). Oggi la posta in gioco non riguarda la risistemazione di territori limitrofi, ma l'intera Europa. Il destino di questa città si gioca nella sua realtà di punto di incontro dei popoli, snodo di interessi economici mondiali e appetiti di dominio dei grandi concentramenti di potenza. La guerra in Ucraina ripropone lo scontro diretto tra grandi potenze, attiva gli attriti tra Stati ed etnie, ma annuncia anche il potenziale ritorno della aperta lotta di classe.

Nel porto di Trieste si fronteggiano il Capitale e un ridotto contingente operaio – come si conviene a un'economia capitalistica fortemente concentrata quanto a mezzi di produzione e centralizzata quanto ad assetto proprietario. Quel piccolo nucleo si è rivelato capace non solo di inceppare il meccanismo dei traffici portuali, ma di catalizzare ampie forze sociali contro una politica di disciplinamento di massa, preludio all'instaurazione di un clima di guerra. Se un movimento tutto sommato circoscritto localmente e politicamente debole è stato in grado di mandare nel pallone un intero assetto di potere economico, politico e istituzionale, allora trovano una spiegazione il terrore e la massiccia reazione messi in campo dagli agenti del Capitale.

Il passato recente si lega in un arco di secolo alla Trieste proletaria e internazionalista del primo Novecento. Le accelerazioni improvvise del tempo riducono la distanza e ripropongono in forme nuove condizioni che sembravano definitivamente tramontate. Che cosa è cambiato da allora? Tutto e niente: sono crollati gli imperi, mutati i confini, cresciute smisuratamente le forze produttive, cambiati i regimi. Non è cambiata la natura profonda dei rapporti di classe, e la tendenza alla guerra tra le classi e tra gli Stati è oggi più forte che mai.

Tra quanti si contendono Trieste e il suo porto nessuno, sia esso italiano o slavo, americano o inglese, tedesco o cinese potrà dirsi padrone della città, perché negli scontri tra Stati e tra grandi potenziali imperiali sarà sempre in agguato l'incognita della lotta di classe. Anche se nel suo porto l'ingranaggio capitalistico ora funziona al pieno regime, il proletariato è tornato a farsi sentire, e tanto è bastato a produrre sinistri cigolii nel possente edificio. Nunzio vobis...

Note

1-   https://www.youtube.com/watch?v=1qPBQdpZfIQ. Intervista a un portuale del CLPT, febbraio 2023. Le informazioni che riferiamo in questo articolo sulla situazione attuale del CLPT nel porto di Trieste è tratta da questa testimonianza.

2- A distanza di due anni si può trarre una valutazione del significato politico e sanitario del periodo dell'emergenza Covid 19. Innumerevoli elementi e dati statistici concorrono ad avvalorare la tesi che le stesse condizioni portate a giustificazione dell'emergenza sono state in larga misura manipolate e influenzate per instaurare un clima di terrorismo sanitario, funzionale al disciplinamento di massa e a avviare meccanismi affaristici estremamente lucrosi per i grandi gruppi finanziari, quantomeno indifferenti alle ricadute sulla salute pubblica della somministrazione di milioni di dosi di sieri sperimentali. Facilmente liquidabile come  “complottista”, la tesi trova fondamento nella estrema centralizzazione che caratterizza l'evoluzione del capitalismo e nel totalitarismo politico che ne sorge materialisticamente come tendenza; tendenza che la nostra corrente ha delineato e previsto fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso sulla scorta della lettura marxista delle dinamiche del Capitale. La stessa gestione repressiva delle lotte ricordate in questo articolo, che ha visto convergere interessi capitalistici, istituzioni e mass media in un'unica strategia, ne dà conferma.

3- Riteniamo vada sottolineata la vistosa differenza di trattamento che lo Stato e i mezzi di informazione hanno riservato alle due “vertenze”. Ciò che ha fatto imbestialire i padroni, e che si è tradotto nell'operato e nelle parole dei loro servitori ai vari livelli, è l'azione autonoma dei portuali del CLPT sia sul terreno sindacale sia nell'intraprendere percorsi di collegamento con l'esterno – noi diremmo con le classi coinvolte direttamente e indirettamente nella lotta – del tutto estranei ai percorsi in cui tuttora sono regolarmente fatte confluire le situazioni di crisi aziendale; rituali che tolgono ai lavoratori la possibilità di iniziativa indipendente e ne demandano la gestione agli organismi dello Stato corporativo democratico. L'oscuramento del CLPT è il prezzo che l'organismo sindacale sta pagando per essersi mosso seguendo la volontà operaia, forse con piena consapevolezza della posta in gioco maturata solo a battaglia conclusa. Alla vertenza Wartsila abbiamo dedicato note di aggiornamento nei numeri 4 e 5-6/2022 de Il programma comunista

4- In proposito due articoli del quotidiano Il Piccolo del 3/03/2023: “Urso: Dai motori spaziali al grano, così Trieste diventerà porto di Kiev”; “Operatori: Non solo armi, va aiutata l'industria. Noi pronti a giocare un ruolo di primo piano”.

5-https://strategic—culture-org.translate.goog/news/2023/02/23/marketing-ukraine-reconstruction-fuel-war/?_x_tr_sl=en&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc.

6- Una piattaforma logistica triestina è per il 51% di proprietà del porto di Amburgo, a sua volta in quota alla società cinese Cosco. Su questo un recente articolo  dal titolo “Il Dragone rilancia sui porti italiani e punta su Genova per fare poker”(La Verità, 8/03/2023).

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