DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Il periodo che stiamo vivendo – crisi strutturale, pandemia, guerra, recessione, degrado sociale, scempio della natura e altre piacevolezze – non fa che confermare il contrasto sempre crescente che si sviluppa nell’attuale regime sociale capitalistico tra le forze produttive e i rapporti di produzione. A fronte di questa situazione, a meno di cadere una volta di più nella facile trappola della demagogia, può sembrare che la risposta classista tardi a tornare sulla scena e ad affermarsi; e che, con l’attivo contributo dell’ideologia dominante e di tutti i suoi mezzi di diffusione, abbiano il sopravvento reazioni dettate dallo sconcerto, dalla paura, dalla disillusione, dall’isolamento, in un diffuso ripiegamento su se stessi o su problematiche isolate e incapaci di coordinarsi e aprirsi a una vera prospettiva di radicale sovvertimento dell’attuale regime sociale.

Questa realtà non ci sorprende né ci spaventa. La nostra classe è ancora bloccata e sopravvive sempre peggio sotto il peso micidiale di una controrivoluzione pluridecennale (democratica, stalinista, nazi-fascista e post-fascista), che l’ha fiaccata sul piano sia teorico che pratico-organizzativo. Invece di scambiare lucciole per lanterne, noi non esitiamo ad andare una volta di più contro corrente nel ricordare che non tutti i “momenti” sono favorevoli a un’autentica rottura rivoluzionaria. Proprio per questo motivo, la necessità del partito rivoluzionario, con la sua attiva difesa della continuità del programma comunista a contatto con la nostra classe, si fa sentire con forza e urgenza ogni giorno più drammatiche. Dovrà insomma passare ancora del tempo prima che quel contrasto, le contraddizioni che si gonfiamo nel seno della società capitalistica, riescano a esercitare la spinta oggettiva necessaria a demolire il macigno che ha gravato e continua a gravare sulle spalle dei proletari. Materialisticamente, non c’è scorciatoia volontarista che possa aggirare questa realtà: soltanto il duro lavoro di riorganizzazione a livello teorico e pratico può assicurare che, quando la situazione oggettiva maturi, gravida delle potenzialità rivoluzionarie, l’occasione non vada persa e si imbocchi davvero, senza facili illusioni e tentazioni demagogiche, la strada che porta alla società senza classi.

Non neghiamo certo che, nell’accumularsi delle contraddizioni, esplodano reazioni anche vigorose a questo stato di cose, soprattutto là dove la crisi strutturale del capitalismo si sta abbattendo con maggior violenza su società uscite da non molto dal giogo coloniale e precipitate nel gorgo dei rapporti capitalistici di produzione.

È quanto succede alla periferia del mondo capitalistico: ma è una periferia sempre più centro. L’abbiamo visto soprattutto con le cosiddette “primavere arabe”, e lo stiamo vedendo nei moti di ribellione che stanno attraversando l’Iran o, appena ieri, hanno attraversato l’America Latina. Ma lo cogliamo anche, e con entusiasmo, nelle magari ancora fragili (e prontamente ingabbiate dal sindacalismo di regime) risposte alla crisi sociale in paesi di “vecchio” capitalismo come la Francia o la Gran Bretagna, o l’Italia, dove non possiamo dimenticare la vigorosa combattività dei proletari della logistica manifestatasi sull’arco di almeno un decennio. Tutte vicende che dimostrano che la contraddizione centrale che attraversa la società borghese non può essere eliminata o cancellata.

Lo dimostra anche il proliferare di “movimenti” sviluppatisi a partire da situazioni specifiche, da problematiche particolari o parziali, che comunque affliggono un numero sempre maggiore di strati sociali, proletari o in via di proletarizzazione e in caduta libera. Noi non sottovalutiamo questi segnali, ma non vediamo in essi ancora quell’apertura verso una prospettiva di radicale sovvertimento della società attuale che sola può sostenerli nel tempo e trasformare una “richiesta” o una “rivendicazione” in una reale arma di cambiamento strutturale, in una rottura della pace sociale e in un attacco al dominio borghese.

Le reazioni, dunque, non sono mancate: movimenti più o meno spontanei in difesa di “diritti minacciati” (quando mai impareranno, questi movimenti, che non esistono “diritti” nella società dominata dal Capitale, ma solo eventuali conquiste strappate duramente con la lotta e da difendere con la dura lotta?!); tentativi di organizzazione al di fuori del controllo soffocante di sindacati che dimostrano d’essere puntelli dello Stato e delle sue istituzioni; scioperi, cortei, manifestazioni che protestano contro il degrado diffuso, contro il peggioramento delle condizioni minimali di vita o di sopravvivenza, contro la violenza a tutti i livelli di cui è intrisa la società del profitto, contro la progressiva devastazione della natura; o che si oppongono ai soprusi padronali e resistono all’aperta repressione poliziesca e alle pesanti “vendette” di una magistratura che dimostra una volta di più di essere tutt’altro che super partes (non dimentichiamo che “gli attuali rapporti di produzione sono protetti e difesi dal potere dello Stato borghese che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l’organo della difesa degli interessi della classe capitalista”) [1] .

E ben vengano, naturalmente, queste reazioni. Si tratta però di reazioni ancora parziali e iniziali: non tanto per la predominante gracilità delle “richieste” che avanzano e delle modalità con cui si esprimono, ma perché non riescono ancora a porsi la prospettiva di cui sopra – un sovvertimento radicale della società dominata dalla legge del profitto, della competizione, dello sfruttamento. Restano per l’appunto “richieste” che, dal “basso”, vengono più o meno violentemente indirizzate all’“alto”: ai politici, ai governanti, ai magistrati, alle istituzioni, agli “uomini di buona volontà”, ecc. ecc.. Non riescono a uscire da questo circolo vizioso: tutto resta, purtroppo ancora, dentro il recinto chiuso dell’illusione riformista. Non riescono insomma ancora ad avere fiducia nella propria forza potenziale e la lucidità e la passione necessarie a fare quel salto qualitativo che solo le può trasportare al grido di lotta, dall’accettazione passiva della società così com’è ma “migliorata” alla raggiunta convinzione che essa non può essere “migliorata”, ma va sovvertita. Solo allora quei movimenti, queste reazioni spontanee alla tragedia del vivere quotidiano in tutti i suoi aspetti, potranno divenire una forza reale con cui il dominio borghese dovrà fare i conti, una forza reale che, solo quando venga indirizzata dal partito rivoluzionario, si ponga l’obiettivo della presa del potere – unico modo per porre fine alla mortifera agonia del Capitale, strangolandolo finalmente, dopo due secoli in cui l’indubbio sviluppo delle forze produttive s’è accompagnato a una devastazione mai vista prima delle vite di esseri umani e della natura in cui viviamo. Generazione dopo generazione, oltre che delle generazioni future che ne pagheranno gli effetti.

C’è molto da lavorare e da organizzare, per i comunisti: senza scorciatoie demagogiche, senza perdere di vista la reale condizione in cui agisce la nostra classe e senza sopravvalutare inutilmente le reazioni che da quella condizione si sprigionano. Compito nostro, insieme a chi si ribella istintivamente, è indirizzarlo verso quella prospettiva che purtroppo oggi, dopo decenni di controrivoluzione, tarda a essere l’unico vero, necessario e possibile, obiettivo.

 

[1] Punto 2 del programma in dieci punti presentato a Livorno, nel gennaio 1921, dalla Sinistra Comunista all’atto di nascita del Partito Comunista d’Italia – Sezione dell’Internazionale Comunista.

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