DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Siamo in presenza di uno svolto decisivo in cui crisi economica, crisi sociale, crisi politica e guerra convergono in un tutto denso di incognite e prospettive. Non è impresa facile districarsi tra tutti i fattori che determinano i nuovi scenari e individuare, almeno approssimativamente, la direttrice degli eventi in funzione dei loro inevitabili esiti catastrofici. In questo compito ci viene in aiuto il fondamentale lavoro di sistemazione dei capisaldi del marxismo rivoluzionario, compiuto dalla Sinistra comunista “italiana” nel secondo dopoguerra, che ci offre alcune linee di lettura. Una di queste riguarda la direttrice storica dell'”aggressione all'Europa”, espressa nell'omonimo articolo uscito nel 1949 su quello che allora era il nostro organo teorico, Prometeo, in cui si dava una valutazione del differente peso relativo degli imperialismi russo e americano.

 

Russia e America, differenti “concentramenti di potenza”

Fu, questo, uno dei temi che alimentarono la polemica interna che, agli inizi degli anni Cinquanta, portò alla scissione nel Partito Comunista Internazionalista e alla nascita del Partito Comunista Internazionale – Programma comunista. Poiché riteniamo che quella discussione fornisca elementi utili a valutare la portata e il significato dell'attuale scontro tra imperialismi, riproduciamo di seguito due passaggi sull'argomento, tratti dalla corrispondenza tra Onorio (Onorato Damen) e Alfa (Amadeo Bordiga):

“Non è possibile al partito rivoluzionario non praticare una politica di equidistanza, soprattutto se in periodo di guerra guerreggiata, tra un paese a massimo sviluppo capitalistico come gli U.S.A. e la Russia ad economia che tu fai tendere al capitalismo; potrebbe divenire la premessa teorica per nuove esperienze intermediste; in ogni modo verrebbe a turbare profondamente i termini della visione strategica del partito della rivoluzione nel corso della prossima guerra imperialista.” (Onorio ad Alfa, 6 ottobre 1951).

“Prendo prima la tua osservazione relativa alla pag. 3. Domandi: proprio soltanto l'America tende ad assoggettare etc.? Ma tu stesso hai riportato l'inciso mio: secondo la natura e la necessità di ogni grande concentramento metropolitano di capitale, di forza di produzione e di potere. Dunque non solo l'America, ma ogni concentramento. Dove e quali nei successivi momenti storici tali concentramenti? Qui il punto. Portiamo in conto: territorio e sue risorse, popolazione, sviluppo della macchina industriale, numero del proletariato moderno, possessi coloniali come materie prime, riserve umane, mercati, continuità storica del potere statale, esito delle guerre recenti, progresso nel concentramento mondiale delle forze sia produttive che di armamento. Ed allora possiamo concludere che, nel 1900, 5 o 6 grandi potenze erano sullo stesso fronte o quasi; nel 1914, poniamo si fronteggiavano Inghilterra e Germania; oggi? Esaminati tutti quei fattori si vede che l'America è il concentramento n. 1 nel senso – oltre tutto il resto, ed oltre la probabilità di vincere in ulteriori conflitti – che sicuramente può intervenire ovunque una rivoluzione anticapitalista vincesse. In questo senso storico dico che oggi la rivoluzione, che non può che essere internazionale, perde il tempo se non fa fuori lo stato di Washington. Ciò significa che ne siamo ancora lontani? Okei.” [corsivo nostro – NdR] (Alfa ad Onorio, 9 luglio 1951).

***

I nostri lavori di partito degli anni Cinquanta individuavano le forze storiche che presiedevano alla duratura conservazione del modo capitalista di produzione nelle vittoriose formazioni statuali

anglosassoni, Stati Uniti in primis, rafforzate dalla riduzione a vassalli dei capitalismi sconfitti. Quanto alla natura economica e sociale della Russia allora sovietica, e dei vassalli suoi, se ne affermavano con chiarezza i tratti capitalistici e il ruolo internazionale controrivoluzionario, smontando qualunque illusione sulla capacità di quelle forze di competere, pacificamente o meno, con lo sviluppo impetuoso dei capitalismi d'occidente a partire da un modello economico e sociale presunto alternativo e superiore, “socialista”, che fosse di riferimento per i popoli “colorati”, che, in quell’epoca, stavano tentando di scrollarsi di dosso il dominio imperialista. La storia fece il suo corso e, alla fine della bella sfida (che tutto fu fuorché pacifica), ciò che restava dello Stato che aveva tradito e usurpato l'Ottobre rosso pacificamente collassava sotto la pressione delle dinamiche democrazie d'Occidente, ben più attrezzate di quello in termini capitalistici e superiori per statistiche di produzione e reddito, avendo lo Stato russo accettato da tempo di combattere con le armi del nemico e sul terreno del nemico – pienamente capitalistico – una battaglia impari.

L'effettivo sviluppo storico si è occupato di dare il responso su chi, sulla questione discussa nella corrispondenza tra Onorio ed Alfa, si ponesse allora nella corretta prospettiva marxista. Lo stesso richiamo dovrebbe valere per orientarsi oggi sul problema della guerra in corso, e non correre il rischio di limitarsi a una generica opposizione alla guerra imperialista che avrebbe ben poco a che vedere con gli insegnamenti di Marx, Engels e Lenin. Non intendiamo per questo sottovalutare il pericolo (segnalato da chi sostenne allora la tesi dell'“equidistanza” del partito comunista rispetto a qualsivoglia imperialismo, a prescindere dai suoi connotati di potenza) che il riconoscimento del principale nemico da battere potesse portare a smottamenti su posizioni frontiste e partigianesche. Il principio che i comunisti non parteggiano per e non si schierano in agglomerati di forze spurie rimane scolpito nella roccia.

Nel lontano 1946, e sempre su Prometeo, nel delineare le prospettive del dopoguerra, il nostro movimento aveva posto chiaramente la questione:

“Noi affermiamo senz'altro che alle diverse soluzioni non solo delle grandi guerre interessanti tutto il mondo, ma di qualunque guerra, anche la più limitata, hanno corrisposto e corrisponderanno diversissimi effetti sui rapporti delle forze sociali in campi limitati e nel mondo intiero, e sulle possibilità di sviluppo della azione di classe...” (“Prospettive del dopoguerra in relazione alla piattaforma del Partito”, Prometeo, n.3, 1946).

Se dunque gli esiti di qualsivoglia conflitto, a più forte ragione se tra blocchi mondiali, decidono i percorsi e le sorti della lotta di classe, i comunisti non possono essere indifferenti alla vittoria dell'uno e dell'altro contendente e affidarsi unicamente al dato di fatto che entrambi sono forze di classe nemiche del proletariato.

A evitare fraintendimenti, nello stesso testo si precisavano “tre arbitrarie posizioni” che sarebbero potute discendere dalla premessa e che così sintetizziamo: la prima, che il proletariato si faccia ingannare dagli obiettivi, sempre nobilissimi, progressivi e financo “rivoluzionari”, che fanno da carburante ideale alle guerre borghesi; la seconda, che non tenga conto che a una vittoria militare può corrispondere una sconfitta politica e viceversa (Waterloo non impedì il trionfo delle forze borghesi in Europa e il fascismo sconfitto in guerra fu vittorioso nel generalizzarsi delle forme totalitarie di dominio di classe in tempo di pace); e infine che “quando anche le due soluzioni del conflitto siano apportatrici di diverse possibilità, sicuramente prevedibili e calcolabili per il movimento, la stessa utilizzazione di queste possibilità non può venire assicurata che evitando di compromettere nella politica dell'infeudamento opportunista, le energie principali di classe e le

possibilità di azione del Partito”. Perno irrinunciabile, dunque, l'indipendenza del Partito e la salvaguardia del suo invariante programma integrale. Il pericolo di scivolare nell'opportunismo è scongiurato se il Partito mantiene la propria totale autonomia, non persegue obiettivi “intermedi” assieme ad altre forze politiche e, in caso di guerra, rispetta la consegna di non deflettere dal disfattismo radicale in casa propria, sia essa la casa di una borghesia imperialista dominante o di una vassalla. Il concetto è espresso a chiare lettere proprio nell’articolo “Aggressione all'Europa”. Citiamo:

“Le guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari.” (Prometeo, n.13, agosto 1949)

Nella discussione che precedette la scissione del 1952, i gruppi del Partito che facevano capo a Onorato Damen equiparavano i due imperialismi che si spartivano il mondo del dopoguerra, attribuendo anzi all'URSS la forma capitalistica più avanzata storicamente quanto a centralizzazione e totalitarismo, e derivavano da questo giudizio la necessità di un atteggiamento di equidistanza o, si potrebbe dire, di indifferentismo, in rapporto agli esiti di uno scontro tra i due blocchi. Riportiamo il punto dell'ordine del giorno del II congresso del Partito comunista internazionalista, che sancì la scissione:

“Di fronte al concentramento russo di capitale, di forza, di produzione e di potere, dichiara che esso è, quanto quello americano, una forza egemonica sul piano delle forze capitaliste in urto sulla scena mondiale.” (https://www.leftcom.org/files/2019-quaderni-st07.pdf, p.33.)

Per contro, i compagni che avrebbero dato vita a Il programma comunista, individuata nella immane concentrazione di forza controrivoluzionaria dell'imperialismo americano il pilastro che reggeva l'impalcatura del dominio capitalistico nel mondo, ne traevano la necessaria conclusione che solo la sua liquidazione avrebbe posto le condizioni per il crollo dell'intero sistema, mentre ogni sua ulteriore vittoria sarebbe stata foriera di tempi ancor più duri per il proletariato di ogni luogo, per un periodo “misurabile a decenni o generazioni”. Il fattore dirimente era rappresentato dalla valutazione della natura economica e sociale dell'URSS, pienamente capitalistica per Onorio, tendente al capitalismo per Alfa:

“Camminare verso il capitalismo, dove le basi sono ormai edificate (come in America) significa camminare in senso inverso al socialismo. Ma camminare verso il capitalismo, ove queste basi storicamente mancano o sono incomplete, significa l’opposto, ossia camminare nel senso che conduce al socialismo. È chiaro che il secondo caso allude alla Russia, e ancora più agli arretrati Stati satelliti e alleati. E quindi costoro non vanno vituperati per la politica economica del potere, ma per la politica anti-classista del partito, che spaccia l’andare al socialismo per lo stare nel socialismo, con incalcolabili effetti anti-rivoluzionari in tutto il sistema internazionale”. (“Deretano di piombo, cervello marxista, Il programma comunista, n.19/1955 – disponibile sul nostro sito).

Dalla diversa valutazione del concentramento di potenza rappresentato dall'URSS allora e in prospettiva storica, si ricavava il seguente indirizzo tattico:

“Sconfessione di ogni appoggio al militarismo imperiale russo. Aperto disfattismo contro quello americano” (in “Per la riorganizzazione internazionale del movimento rivoluzionario marxista”, Il programma comunista, n. 18/1957 disponibile sul nostro sito) (1).

 

Il crollo dell'URSS, avvenuto senza uso di missili né invasioni né “rivoluzioni”, confermò quanto sostenuto dalla nostra corrente circa la natura dell'imperialismo sovietico, sintetizzata nella definizione quasi ossimorica di “imperialismo debole”, data fin dal 1977:

“La struttura commerciale e il livello di indebitamento permettono di dire che l'URSS, mentre svolge una politica imperialistica e detiene una corrispondente area di influenza politica ed economica, toccatele nell'ultima grande ripartizione del pianeta fra ladroni imperialistici, è tuttavia un 'imperialismo debole' nella misura in cui hanno per essa un carattere tutt'affatto secondario l'esportazione di capitali e la tessitura della corrispondente rete di interessi economici e particolarmente finanziari in tutto il mondo, sulla quale molto più saldamente che sul semplice prepotere militare fonda il suo dominio l'imperialismo statunitense. Persino al livello meno evoluto della semplice esportazione di merci, la Russia non è ancora in grado di tenere validamente testa a molti concorrenti di assai minore peso politico ed anche economico quanto a produzioni assolute. All'opposto, essa si presenta sui mercati finanziari mondiali in cerca di capitali, e su quelli commerciali come acquirente di prodotti industriali.” (“La Russia si apre alla crisi mondiale”, 1977, riprodotto in Perché la Russia non era socialista, Quaderni del Partito comunista internazionale, n.10, 2019).

Pur con tutti i suoi limiti, il gigante “sovietico” rappresentò per oltre quarant'anni un argine all'espansione mondiale del capitalismo atlantico, sottraendogli fisicamente un territorio vastissimo ed esercitando un'influenza politica e ideologica, oltre che economica, su Paesi appena agli albori di un moderno sviluppo, e proponendosi loro come alternativa alla soggezione “neocoloniale” all'Occidente. Con il crollo “sovietico”, dai primi anni Novanta del ‘900 il mondo intero divenne aperto terreno di caccia per i capitali occidentali affamati di valorizzazione, mentre l'enorme apparato politico-militare statunitense proliferava e si estendeva, con le buone e con le cattive, a tutti i gangli vitali di un interscambio di merci e capitali, via via sempre più vasto e interconnesso.

In questo contesto di forsennata conquista e predazione, la traiettoria imperialista per la Russia ex-sovietica sembrava definitivamente spezzata dalla perdita della sfera di influenza in Europa orientale, dalla svendita delle proprie immense risorse alle agenzie d'Occidente per tramite di una borghesia sbocciata dai ranghi dell'alta burocrazia “sovietica”, dal tracollo sociale, dalla prospettiva della dissoluzione della federazione in un mosaico di nuovi Stati indipendenti. Il proletariato russo pagò un prezzo durissimo. (2)

 

Dopo il crollo del 1990, il processo di liquidazione di ciò che restava dello Stato nato dalla rivoluzione d'Ottobre non fu conseguenza di un confronto militare, ma effetto della enorme concentrazione di potenza rappresentata dal capitalismo USA. Nell’articolo “Aggressione all'Europa”, si metteva in conto la possibilità che il “vassallaggio” della Russia agli Stati Uniti avvenisse non per effetto di una sconfitta militare, ma nella forma della corruzione della “organizzazione dirigente russa” :

“Tale processo potrebbe svilupparsi anche senza una guerra nel senso pieno tra Stati Uniti e Russia, se il vassallaggio della seconda potesse essere assicurato, anziché con mezzi militari e una vera e propria campagna di distruzione e di occupazione, con la pressione delle forze economiche preponderanti della massima organazione capitalistica nel mondo – forse domani lo Stato unico Anglo-Americano di cui già si parla – con un compromesso attraverso il quale la organizzazione dirigente russa si farebbe comprare ad alte condizioni [...]”.

 

È precisamente quanto si verificò nel terribile decennio finale del secolo scorso quando, sotto il governo di El'tsin, la Russia fu sottoposta a saccheggio dall'Occidente capitalista, e una rinnovata classe dirigente venduta si arricchì a dismisura a spese di una popolazione esposta alle delizie del mercato liberato dai “lacci e laccioli” del controllo pubblico. Finalmente i proletari russi conobbero, con la nuova miseria, la vera democrazia.

Alla fine degli anni Novanta, tutto sembrava preludere alla genuflessione definitiva anche della Russia all'unico imperialismo dominante il globo. L'implosione dava conferma inequivocabile di quanto la nostra corrente aveva sostenuto intorno alla natura economica e sociale dell'URSS: nel suo progredire verso il capitalismo, era crollata per l'azione dei fattori caratteristici di una società pienamente mercantile, senza la quale né la sconfitta in Afghanistan né le manovre degli imperialismi avversari – che pure ebbero un ruolo – avrebbero potuto tanto. A provocare il crollo furono la formidabile pressione dei mercati mondiali sulla ancor fragile struttura capitalistica dell'URSS e dei suoi satelliti, la progressiva penetrazione di merci e capitali occidentali entro i confini del suo vasto spazio protezionistico, cui si accompagnava, come portato egemonico, quella relativa agli stili di vita e al modo di pensare della “civiltà occidentale”.

Tanto la propensione dell'imperialismo statunitense al dominio globale quanto la relativa debolezza dell'imperialismo russo trovarono conferma negli eventi della storia, ma erano già chiari alla nostra corrente in tempi di pieno “bipolarismo”:

“Coloro che sono abbacinati dall'imperialismo russo fino a dimenticare la tremenda forza di dominazione ed oppressione della potenza statunitense, rischiano di cadere vittime delle deviazioni democratiche e liberaloidi che sono il peggior nemico del marxismo. Non a caso la predicazione liberal-democratica ha il suo pulpito nella sede del massimo imperialismo odierno. Essi non vedono come la Russia, il cui espansionismo si volge tuttora nelle forme del colonialismo (occupazione del territorio degli Stati minori), è ancora alla fase inferiore dell'imperialismo, l'imperialismo degli eserciti, cioè il tipo che per due volte è stato sconfitto nella guerra mondiale[...] Tutti gli Stati esistenti sono nemici del proletariato e della rivoluzione comunista, ma la loro forza non è eguale. Quel che conta soprattutto per il proletariato, il quale vedrà coalizzarsi contro di lui tutti gli Stati del mondo appena si muoverà per conquistare il potere, è prendere coscienza della forza del suo più tremendo nemico, il più armato di tutti e capace di portare la sua offesa in qualunque parte del mondo” (“Imperialismo delle portaerei”, Il programma comunista, n.2/1957)

Le deviazioni democratiche e liberaloidi, di cui alla caduta dell'URSS si volle celebrare il definitivo trionfo con la pomposa formula della “fine della storia”, rimangono tuttora il peggior nemico del marxismo, con immutata carica ideologica e col sostegno di un colossale apparato propagandistico in grado di spacciare la più spudorata azione di assoggettamento, ove necessario culminante nella devastazione bellica, per una meritoria azione di liberazione e progresso, nella migliore tradizione del vecchio colonialismo portatore di civiltà ovunque vigesse arretratezza e ignoranza.

L'Occidente pretende ancor oggi di imporre al mondo intero un'ideologia quanto mai logora e decadente, che associa al liberismo economico un'idea di “libertà” tutta centrata sull'individuo e sui suoi sconfinati “bisogni” da soddisfare nel mercato; libertà solo apparentemente in contrasto con l'introduzione nelle società “libere e democratiche”, segnate da crescente violenza e spinte disgregatrici, di forme di controllo sociale totalitarie malamente mascherate dall'ipocrisia mediatica. Quale effetto del sistematico ribaltamento della verità storica e del sistematico travisamento di fatti che altrimenti smonterebbero i racconti ufficiali, non sorprende che in difesa dell'Ucraina aggredita siano fatti passare per eroi patriottici e difensori della libertà gli odierni seguaci dell’ultra- nazionalista e filo-nazista ucraino Stepan Bandera (1909-1959), emuli dei collaborazionisti massacratori di ebrei e di proletari russi e polacchi durante l'occupazione tedesca (3).

Non sorprende neppure che oggi, in Germania, i più sfegatati sostenitori della guerra contro l'“autocratica” Russia si trovino nel “sinistrissimo” partito dei Verdi, già radicalmente pacifista e detentore del dicastero degli Esteri nel governo di coalizione. La Ministra degli esteri green sembra convinta dell'idea che, schiacciata la Russia, si prospetti il tramonto dei combustibili fossili – di cui la Russia è colpevolmente esportatrice – e con le bombe si apra la via maestra al mondo floreale delle energie rinnovabili. Simili idioti si trovano ovunque, nel variegato panorama delle sinistre europee, e l'unica difficoltà consiste nel distinguere tra questi i veri, utilissimi idioti, dai menarrosto prezzolati (in tempi di ingegneria genetica non è esclusa l'ibridazione tra i due tipi). L'abbiamo sempre sostenuto: sotto la patina del pacifista si cela il guerrafondaio, sotto quella del democratico cova il fascista... Che i falsi opposti siano destinati a unirsi nell'abbraccio antiproletario è una necessità storica di cui la nostra Sinistra Comunista ha sempre segnalato e che oggi sempre più spesso trova riscontro nei fatti. Buon segno per chi sa leggere negli apparenti paradossi l'inappellabile giudizio della Storia.

 

Limiti dell'imperialismo russo attuale

Per concludere sul “concentramento di potenza” rappresentato dagli imperialismi in campo, non c'è alcun dubbio che gli Stati Uniti rappresentino tuttora e di gran lunga quello dominante, tanto da potersi permettere, in qualità di stato rentier alla scala globale, un perenne e crescente deficit con l'estero a garanzia del flusso continuo di merci e capitali attraverso continenti ed oceani.

Come possiamo definire la natura dello Stato russo oggi? A cavallo tra la fine del secolo scorso e l'attuale, a scongiurare il rischio che la Russia scomparisse come autonomo “concentramento di potenza”, la borghesia russa ha ripreso il controllo del potere statale con l'azione dei governi di Putin, che hanno impresso una svolta istituzionale autoritaria e riaffermato il legame tra Stato e grandi gruppi monopolistici su nuove basi, ridando una prospettiva strategica al concentramento di potenza russo.

La svolta “bonapartista” voluta dalle forze sociali ed economiche che Putin rappresenta non ha incontrato una forte resistenza nel proletariato, nelle cui file era fresca la memoria dell'esperienza “lacrime e sangue” vissuta nel decennio in cui imperversavano le meraviglie della democrazia occidentale. D'altra parte, il nuovo corso ha imposto anche una forte limitazione alle faide interne alle oligarchie e all'azione indipendente dei settori oligarchici più legati ai centri finanziari occidentali, protagonisti negli anni Novanta di una imponente fuga di capitali nei paradisi fiscali esteri. La stabilizzazione ha favorito un significativo flusso di rientro nell'ambito di un generale aumento dei movimenti di capitale da e per l'estero, in forma di investimenti diretti. Va sottolineato che il flusso in entrata “si è concentrato soprattutto nell’energia e nelle materie prime, nel commercio al dettaglio e in altri servizi, con una modesta partecipazione dei settori industriali a eccezione del comparto alimentare, in netto contrasto con la Cina.” (4)

Sono dati significativi per definire la natura del capitalismo russo e i suoi limiti. Se consideriamo l'esportazione di capitali, tratto caratteristico dell'imperialismo, risulta che gli investimenti diretti esteri russi, pur notevolmente cresciuti dagli anni Novanta, nel 2021 ammontavano a circa il 4% di quelli americani (dati UNCTAD), ed erano indirizzati in un'area in buona parte coincidente con i territori ex “sovietici”. La rendita di cui si nutre il flusso di investimenti in entrata si è concentrata prevalentemente sui settori energetici e delle materie prime, trascurando quello industriale, dove permane la dipendenza dalle produzioni estere.

Tutti questi elementi confermano che la definizione di imperialismo debole, attribuita dalla nostra corrente all'URSS, in buona parte si attaglia tuttora alle misure della potenza russa, oggi meno esposta al debito estero e più dinamica nell'export di capitali, ma ancora fortemente dipendente dai prodotti industriali di importazione e dalla rendita energetica. L'ambizione russa ad assumere nuovamente un ruolo imperialista già rivestito in passato (con molti limiti, tant'è che non ha retto il confronto ed è collassata) ha dalla sua una significativa capacità militare non supportata da una adeguata base economica, dipendente com'è dalle esportazioni di energia e materie prime e dai loro prezzi estremamente variabili.

Con questi presupposti, l'imperialismo russo – proiezione degli interessi dei grandi gruppi monopolistici interni – è in grado di esercitare un'influenza entro un'area a ridosso dei pur vasti confini della Federazione, ben lontana da ambizioni di egemonia oltre uno spazio ritenuto di “sicurezza”, per quanto piuttosto esteso. Come ai tempi dell'URSS, “l'esportazione di capitali e la tessitura della corrispondente rete di interessi economici e particolarmente finanziari in tutto il mondo” rimane un carattere secondario rispetto ai tratti dominanti da imperialismo degli eserciti. L'intervento in Ucraina, come in passato quelli in Caucaso e nell'Asia centrale, ne è la conferma e, per quanto le iniziative militari in Siria e in Africa settentrionale diano alla Russia una proiezione che va ben oltre i confini di potenza regionale, i loro obiettivi rimangono dettati principalmente da considerazioni strategiche e militari, di risposta e contenimento alla pressione dell'imperialismo USA. La minaccia da Occidente, che in Ucraina ha senz'altro connotati militari nell'allargamento della NATO verso Est e si avvale anche di un formidabile sistema di intelligence (5), è funzionale a preparare il terreno alla penetrazione finanziaria, al saccheggio delle risorse agricole, minerarie ed energetiche ucraine, allo sfruttamento bestiale del proletariato di quel Paese, e in quanto tale ha connotati pienamente imperialisti (6).

Considerati i limiti dell'imperialismo russo, l'”operazione militare” in Ucraina sarebbe stata un'iniziativa suicida se il contesto generale non fosse già mutato, se non fossero già saltati i vecchi equilibri tra avversi concentramenti di forze e se non si appoggiasse a una prospettiva strategica più ampia, di respiro eurasiatico. Il progetto di integrazione eurasiatica fu annunciato dallo stesso Putin nel 2015, preceduto dalla fondazione dell'Unione Economica Eurasiatica (2014, l'anno stesso del colpo di stato di Maidan), ed è in via di realizzazione attraverso i numerosi progetti infrastrutturali di cui la Cina è il principale promotore e finanziatore (7).

Nel suo perenne oscillare tra Oriente e Occidente, la Russia si vede oggi respinta dall'Europa e gettata nelle braccia dell'emergente potenza cinese. Se infatti l'imperialismo russo ha i limiti “militari” che abbiamo detto, “ La Cina ha tutte le caratteristiche classiche dell'imperialismo come delineato da Lenin: capitalismo statale-monopolistico, esportazione di capitale, una spinta all'espansione per conquistare mercati stranieri e sfere d'influenza, una politica estera espansionistica volta ad ottenere il controllo delle rotte commerciali, ecc. L'imperialismo russo ha un carattere diverso. I suoi obiettivi sono più limitati e dettati principalmente da considerazioni strategiche e militari.” (8).

Il consolidamento del legame tra Russia e Cina è il fattore che sta imprimendo una svolta verso nuovi scenari.

 

Guerra all'Europa con obiettivo Eurasia

Ci preme ora tornare all'articolo di Prometeo del 1949, sorprendente per la lucidità quasi profetica nel tracciare le direttrici storiche lungo le quali si sarebbero effettivamente posti gli eventi nello scontro tra imperialismi. Alla base di quelle previsioni, non v'era nulla di intuitivo e geniale, ma una visione storica che, su fondamento marxista, supera le visioni immediatiste e proietta la prospettiva sul lungo periodo. L'attuale crisi ucraina conferma la fondatezza di quelle previsioni, comprese quelle attinenti alle caratteristiche che avrebbe assunto la guerra a venire. Ci sono voluti oltre settant'anni? Okkei!

Alla domanda “che razza di guerra sarebbe la eventuale prossima dell'America per la quale si votano crediti militari immensi... “, si risponde dunque che sarebbe stata “la più clamorosa impresa di aggressione, di invasione, di oppressione e di schiavizzamento di tutta la storia”. Non solo, ma si aggiunge che “essa è già in atto, essendo tale impresa legata da stretta continuazione con gli interventi nelle guerre europee del 1917 e del 1942, ed essendo in fondo il coronamento del concentrarsi di una immensa forza militare e distruttrice in un supremo centro di dominio e di difesa dell'attuale regime di classe, quello capitalistico, la costruzione dell'optimum delle condizioni atte a soffocare la rivoluzione dei lavoratori in qualunque paese.” (“Aggressione all'Europa”, cit.)

La guerra in Ucraina ha fornito alla potenza atlantica l'occasione, fortemente cercata, di riaffermarsi padrona indiscussa del consesso occidentale a scapito degli alleati-rivali d'Europa a cui ha imposto la linea su tutti i fronti decisivi (informazione, politica interna, energia, guerra, economia).   Quella in corso si presenta pertanto come la nuova tappa di quella “aggressione all'Europa” iniziata nel lontano 1917, che la nostra corrente ha riconosciuto essere la direttrice fondamentale dei rapporti inter-imperialisti. Se ieri castrare l'Europa significava annientare l'unico potenziale avversario imperialista nell'impresa di conquista del mondo, oggi – dopo averne favorito la nullità politico militare ingabbiandola in un non Stato (la UE) – l'aggressione continua con il tentativo di demolirne la forza produttiva, di annullare le condizioni alla base del surplus tedesco e, dopo averne reciso i legami strutturali con i vasti mercati eurasiatici, ridurla a una succursale anche economica del centro imperialista atlantico. (9)

Con la guerra in Ucraina, la completa subalternità dell'Europa si è manifestata in modi che avrebbero del sorprendente se non ne fossero chiari i presupposti storici. Lo sciagurato e incondizionato supporto offerto dalla borghesia europea – in alcuni settori con ostentata convinzione, in altri digrignando i denti – alla volontà americana di una guerra prolungata contro la Russia sancisce il declino e il completo asservimento dei vecchi capitalismi d'Europa, che si negano perfino l'esercizio di una politica autonoma di difesa dei propri vitali interessi economici. Spezzare il naturale legame tra l'economia dell'Europa occidentale e le fonti energetiche russe colpisce prima di tutto l'apparato industriale tedesco e le sue vaste ramificazioni continentali. È un attacco diretto alle basi stesse del capitalismo europeo ruotante attorno al magnete tedesco, dove l'assoggettamento politico militare svolge in prospettiva la stessa funzione dei bombardamenti a tappeto che rasero al suolo la potenza produttiva dell'Asse.

È anche la prosecuzione dell'attacco all'Euro come sfida all’egemonia del dollaro. Alla sua introduzione, infatti, gli Stati Uniti “reagirono come d’uso, cercando di creare isole di destabilizzazione, tra le quali in Medio Oriente spiccò la vicenda irachena ed in Europa quella Jugoslava. Il bombardamento del paese europeo comportò, in particolare, una immediata svalutazione del 30% dell’Euro (che era partito molto bene) mentre l’invasione dell’Iraq del 2003 provocò un vertiginoso incremento del prezzo del petrolio e quella della Libia la fine del progetto di una moneta pan-araba ancorata all’oro”. (A. Visalli, Krisis, cit. in nota 2).

Gli esempi sarebbero molti, ma si tratta di quella che l’autore chiama con formula di effetto “la geopolitica del caos”.

Tra i primi effetti della guerra in Ucraina e delle sanzioni comminate alla Russia non vi è stato, come prevedevano invece i “sanzionatori”, il crollo del rublo – che, anzi, si è apprezzato in parallelo all'esplosione dei prezzi energetici – ma dell'Euro, precipitato in breve tempo sotto la parità col dollaro.

Quella in Ucraina è dunque in tutta evidenza una guerra per procura tra Stati Uniti e Russia, ma è combattuta sul suolo europeo, con carne da cannone europea, con ricadute devastanti sulle strutture economiche europee, sulle condizioni di vita dei proletari europei. È quindi, ancora una volta e in primo luogo, una guerra contro l'Europa. Nonostante i rovinosi precedenti storici – da Napoleone a Hitler – l'Europa ripete l'errore di guardare alla Russia come una minaccia da Oriente, come tale da sottomettere e depredare, anziché considerarla essa stessa Europa e ponte verso l'Oriente asiatico. Così, come nelle precedenti guerre mondiali, il “gregge dell'imbecillità borghese d'Europa” (vedi “Ancora America”, Prometeo, n.8, 1947), cui nel secondo conflitto si unì l'URSS di Stalin, contribuisce grandemente al proprio declino affidando le proprie sorti all'ingombrante alleato atlantico, generosamente disposto a rifornire i gonzi europei di crediti, bombe e oggi anche costosissimo gas (di pessima qualità).

Per gli Stati Uniti, stringere la presa sull'Occidente è anche la condizione per accelerare la manovra di accerchiamento dell'Eurasia. L'obiettivo è, nell'ordine, arruolare l'Europa a dominanza tedesca in posizione subordinata, per poi procedere a schiacciare la Russia, e di seguito la Cina. La nuova tappa è l'ultima “di una unica invasione, passata da Versailles nel 1917-18, diretta a Berlino. Solo a Berlino? No, insensati ancora plaudenti, diretta anche a Mosca...” (“Aggressione all'Europa”, cit.).

Oggi la platea di insensati ancora plaudenti si estende alla vastissima pletora di un ceto politico più che mai miserabile e corrotto che ancora tiene nelle mani le leve dei governi per conto del padrone atlantico, anche se oggi con meno sicurezza di ieri, dopo aver disceso di molti scalini “nella vendita dell'onore del suo Stato” (“America”, Prometeo, n.7, 1947) – fatto che per i comunisti non è motivo di sdegno, giacché in regime capitalista tutto si riduce a una questione di prezzo. (10)

La potenza della capacità predittiva del marxismo si conferma quindi a oltre settant'anni dalla pubblicazione di “Aggressione all'Europa” e Mosca – poco importa se non più “sovietica”, visto che è ancora lì a interporsi al nuovo slancio imperialista di conquista del mondo – rimane l'obiettivo di una nuova ondata che ambisce a completare il progetto di sottomissione eurasiatica.

La Russia rappresenta ancora oggi l'estremo baluardo europeo contro l'espansione dell'imperialismo USA dall'Atlantico agli Urali, superati i quali si apre l'immenso spazio dell'Eurasia, delle sue immense ricchezze da contendere al nuovo grande nemico, la Cina. La forza attuale della Cina è prodotto della stessa espansione dell'imperialismo americano e occidentale da quando, con l'avvento del mondo “unipolare”, i capitali in eccesso cominciarono ad affluire dai centri imperialisti d'Occidente agli immensi bacini asiatici di forza lavoro a basso prezzo, alimentando lo sviluppo impetuoso del capitalismo cinese. Man mano che esso – sotto la guida dello Stato centralizzato – si sviluppava fino a contendere e superare nelle statistiche economiche i record del vecchio padrone atlantico, man mano che riforniva di merci e capitali il mercato americano in cambio di dollari si è fatta via via più evidente e insostenibile la realtà di un interscambio che a un polo forniva forza lavoro, merci e capitali frutto di processi produttivi, e all'altro pagava in moneta fiduciaria internazionale garantita da un debito pubblico crescente e finanziato dagli stessi fornitori di capitali e di beni. Con lo sviluppo del processo, sono necessariamente mutati i rapporti di potenza economica, che se a un capo vedevano aumentare a dismisura i valori finanziari – in parte crescente fittizi – all'altro vedevano l'enorme montare delle forze produttive, cioè del requisito fondamentale alla base di quella potenza.

Gli stessi processi economici di espansione del capitale, che avevano logorato l'assetto protezionistico dell'area di influenza “sovietica” fino a disgregarlo, hanno minato in modo irreversibile le fondamenta della potenza economica statunitense. Nell'assetto “unipolare” a baricentro americano si era stabilita un'interdipendenza da cui tutti i principali attori hanno tratto frutti. I capitali, per quanto con difficoltà crescente entro la tendenza generale alla caduta del saggio di incremento della produzione, trovavano modo di valorizzarsi nella fucina produttiva dell'Asia orientale per poi rifluire ai centri finanziari dell'imperialismo dominante. Il meccanismo ha funzionato fino alla crisi della cosiddetta globalizzazione innescata dal crollo del 2008-2009. Sola garante dell'interdipendenza funzionale all'ordine capitalistico mondiale si poneva e si pone tuttora la potenza militare USA, ineguagliabile quanto a finanziamenti, tecnologie, dispiegamento di forze in ogni area del mondo, strategie di intervento diretto o tramite partigianerie reclutate direttamente sul campo.

L'espansione della Nato in Europa orientale rappresenta uno dei principali movimenti strategici americani nell'ambito di una manovra a tenaglia che punta all'accerchiamento dell'Eurasia, dove si concentrano le minacce alla perpetuazione dell'influenza globale dell'imperialismo americano. Siamo al punto in cui gli schieramenti della futura (o presente?) guerra sembrano ormai definiti: mondo anglosassone, Giappone e UE da un lato, Cina, Russia, Iran dall'altro. Il resto del mondo è alla finestra, in attesa di valutare l'evolvere dei rapporti di forza. Vecchi capitalismi in declino, ma estremamente aggressivi, contro capitalismi emergenti. Per la Cina, fautrice di un'espansione “pacifica” della propria influenza, l'Ucraina costituiva uno snodo fondamentale del progetto di creazione di infrastrutture di interscambio terrestri e marittime (Vie della Seta) in direzione della vecchia Europa. La penetrazione cinese in Ucraina è avvenuta attraverso ingenti investimenti, nella classica modalità di un imperialismo in espansione. La si chiami pure “pacifica”, ma la via cinese rientra nella dinamica del confronto-scontro tra imperialismi e come tale facilmente può volgere in guerra, dal momento che viene brutalmente ostacolata dall'imperialismo dominante che la legge a sua volta come un'”aggressione” al vecchio ordine.

Se l'Ucraina rappresenta uno snodo vitale per tutti e tre i principali concentramenti di potenza (Stati Uniti, Russia e Cina), la sua invasione è una sfida alla secolare egemonia occidentale sul mondo, come tale inaccettabile da parte dei vecchi dominatori. Il fatto stesso che la Russia abbia osato sfidare il colosso atlantico sul terreno della guerra è segnale che quell'egemonia è messa in discussione. O si riafferma su nuove basi di forza o scompare.

 

La posta in gioco è il capitalismo

A una visione superficiale, il quadro generale propone l'alternativa tra il rafforzamento del predominio mondiale atlantico e l'affermazione di un nuovo ordine che si vorrebbe multipolare, articolato lungo le diverse silk roads che si snodano dai centri produttivi cinesi, grandi infrastrutture terrestri di integrazione eurasiatica con prolungamenti marittimi in direzione dell'Africa e dell'America latina.

Il solo porsi di tale alternativa rivela un fronteggiarsi di concentramenti di forze che può tradursi in uno scontro diretto e volgere in una nuova guerra generale. La tensione sale nell'intero emisfero settentrionale: in Europa, è ancora una volta cruciale l'atteggiamento della Germania, fino a ieri con i piedi in due staffe: quello economico rivolto a oriente, quello politico stabilmente schierato ad occidente. La situazione le impone una scelta. Sembra che il prezzo che gli Usa siano disposti a pagare per la fedeltà dell'alleato-nemico sia il via libera al suo riarmo in funzione antirussa, ma al momento è proprio la Germania a pagare il prezzo più alto delle sanzioni imposte alla Russia in termini economici e sociali. Su scala più ampia, e in una fase assai più avanzata dell'”aggressione all'Europa”, si ripropone lo scenario della guerra per il Kosovo quando, col pretesto della discriminazione della popolazione albanese kosovara, la Nato attaccò la Serbia, con la Russia impotente a reagire. Non a caso al confine tra Kosovo e Serbia si sta pericolosamente riaccendendo il focolaio di tensione, dai cui possibili sviluppi bellici oggi difficilmente la Russia potrebbe tenersi fuori. La guerra della Nato alla Serbia è stata prima di tutto un argine alla presenza della Germania nei Balcani dopo che la guerra civile jugoslava aveva spalancato le porte ai capitali tedeschi nell'area. Fino ad oggi l'allargamento della sfera di influenza tedesca a Est rientrava in un orizzonte economico e solo di riflesso politico. Oggi, se gli sviluppi lo confermeranno, la guerra potrebbe rilanciare la Germania come imperialismo attivo anche militarmente, per quanto in un ruolo ancora subordinato.

Anche nell'area del Pacifico la tensione evolve pericolosamente, alimentata dalle provocazioni USA (ultima, la visita della Pelosi a Taiwan). La linea del fronte è tracciata tra la costa orientale della Cina e il Giappone a Nord, Formosa e, più a sud, lungo tutto l'arco costiero e insulare che marca le vie marittime di transito tra gli oceani Pacifico e Indiano. Anche il Giappone è in fase di deciso riarmo, e potrebbe avere il via libera dagli Usa a sviluppare l'atomica (se non l'ha già avuto).

Lo scenario presenta un mondo sull'orlo dello scatenamento di una guerra generale, ma dobbiamo tener presente che lo scontro in atto è effetto della crisi terminale del modo di produzione capitalistico. Se le ricorrenti crisi economiche, con la brutale svalorizzazione di capitale fisso, licenziamenti, ecc., creano le premesse per la ripresa su basi più avanzate in termini di composizione organica e concentrazione capitalistica, la guerra procede all'opera radicale di distruzione fisica di capitale fisso e forza lavoro eccedente. Ma le crisi economiche oggi sono sempre più potenti e prolungate, tanto che il mondo capitalistico non si è ancora ripreso dagli effetti della Grande Crisi del 2008-2009 e affronta una durevole stagnazione. Quanto alla guerra, essa esprime nei sistemi d'arma il livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive, che si traduce in una corrispondente potenza distruttiva. Oggi, una guerra generale, specie se gli schieramenti oppongono capacità militari simmetriche, rappresenta una soluzione troppo rischiosa per tutti. Nonostante le scarse probabilità che qualcuno possa uscirne vincitore sul campo e goderne i vantaggi, questa non è un’eventualità da escludere, vuoi perché non si può certo contare sulla sanità mentale delle classi dirigenti di un sistema in decadenza, vuoi per la forza incontrollabile che le vicende belliche acquistano una volta messe in moto. Se ciò, com'è da augurarsi, non accadrà, è verosimile l'intensificarsi di quella guerra permanente in atto ormai dalla caduta dell'URSS, in cui, accanto alle iniziative militari e alla esibizione di armamenti sempre più potenti e sofisticati, svolgono un ruolo sempre più importante le sanzioni economiche, il confronto tra le monete, gli attacchi cibernetici, la guerra dell'informazione, il controllo totalitario dello Stato sulle popolazioni. Se non sarà guerra generale in senso classico, la guerra che si profila si estenderà a tutti gli aspetti della vita sociale, coinvolgerà pesantemente la popolazione civile: sarà pertanto una guerra totale, essenzialmente politica, fortemente ideologica (11) e destinata a durare. Le politiche emergenziali adottate durante la pandemia Covid-19 possono essere viste come modello sperimentale in scala assai ridotta di che cosa potrebbe comportare una simile guerra per le popolazioni civili in termini di controllo sociale, condizionamento, repressione, restrizioni e razionamenti. Il fronte interno assumerà un ruolo decisivo, sarà il terreno in cui riprenderà vigore la lotta di classe:

“Se la guerra trova la sua base di partenza nella sconfitta della classe operaia, se le imprese dell'imperialismo trovano la strada segnata dalla parabola discendente della rivoluzione internazionale, nella sua dinamica sono contenute le ragioni della ripresa rivoluzionaria del proletariato. La bomba atomica potrà essere o non essere usata dall'imperialismo, come strumento tecnico di guerra; quella che l'imperialismo non potrà evitare di tirarsi addosso, per quanto grande possa apparire e sia oggi la sua strapotenza, è l'atomica della rivoluzione internazionale ed internazionalista della classe operaia.” (“Corea è il mondo”, Prometeo, n.1, 1950).

Nulla di nuovo. La guerra è connaturata al capitalismo, inestirpabile come la lotta di classe, anche se per lunghi periodi essa covante sottotraccia, sopita da transitorie condizioni di illusoria pace sociale. Se il Capitale si dispone stabilmente alla guerra e persegue l'accumulo di violenza dei suoi arsenali, è perché sa che prima o poi dovrà affrontare il suo nemico storico. Riportiamo ancora da “Corea è il mondo”:

Su scala mondiale la più violenta forza di espansione e di aggressione, poco importa se tradotta in armi o in dollari o in scatolette di carne conservata, è quella che cova nelle viscere del gigantesco apparato produttivo degli Stati Uniti”.

Vale ancora questo primato? Gli Stati Uniti si muovono per riaffermare il ruolo di gendarme del mondo, ma oggi l'esibizione di potenza e arroganza che traspare dalla loro azione internazionale, militare e diplomatica, non ha l'efficacia di un tempo. Il ridimensionamento del loro ruolo mondiale, la rinuncia a essere il perno dell'integrazione capitalistica mondiale, all'“esorbitante privilegio” del dollaro, potrebbe portarli a una crisi interna senza precedenti, di cui si vedono già alcuni segni. Non potendo fermare il processo di integrazione eurasiatica, gli Stati Uniti si arroccano arruolando i Paesi-chiave della Nato e i più stretti alleati del Pacifico (Giappone, Australia, Nuova Zelanda), ma l'atteggiamento aggressivo e provocatorio cela l'incapacità di piegare gli avversari alla sua volontà con la sola forza di chi tiene saldo il primato.

La reazione mondiale all'invasione russa dell'Ucraina non è stata affatto nel segno della condanna unanime e dell'adesione alle sanzioni. Nel contesto internazionale, non è la Russia ad essere isolata, ma sono piuttosto gli Stati Uniti e i loro vassalli occidentali con le loro pretese sanzionatorie e il loro atteggiamento guerrafondaio. Gran parte del “Sud” del mondo è contraria alle sanzioni, persegue una politica di pacificazione, non è disposta a seguire servilmente il vecchio capobastone. Guardiamo con grande interesse alle difficoltà in cui si dibatte il colosso americano, che se rimane superdotato in armi e in dollari, non lo è più nel gigantesco apparato produttivo, in buona parte smantellato per ricavare più alti tassi di profitto all'estero, e non più in grado di sostenere nel lungo periodo né le armi né il dollaro. Lo spasmodico attivismo americano ha questa base oggettiva maturata nel processo di sviluppo del capitalismo mondiale dalla crisi degli anni Settanta, e all'origine delle gravi difficoltà attuali. Non è solo la Russia a rischiare la sopravvivenza, ma anche e forse ancor più l'America.

Siamo ben lontani dal ritenere un'alternativa auspicabile e possibile il mondo di rispettosa cooperazione tra stati sovrani, votati alla crescita comune, prospettato dagli ideologi del nuovo multipolarismo, dalla visione eurasiatica di Putin e dai “pacifici” progetti cinesi. (12) A essere in crisi non sono soltanto gli Stati Uniti, ma l'intero assetto che ha garantito finora la tenuta del capitalismo mondiale, e credere che ad esso possa succedere una pacifica cooperazione tra Stati è, finché vivrà il capitalismo, una pia illusione.

Con la crisi della leadership statunitense l'ordine capitalistico mondiale è andato in stallo. All'orizzonte si profila un nuovo scossone finanziario che potrebbe preludere a una nuova pesante recessione mondiale, mentre si moltiplicano le aree dove divampano proteste di massa contro gli effetti già visibili della crisi economica. Sono tutti segni di un cambio di scenario, da lungo tempo atteso, che si delinea nel procedere della crisi storica del capitalismo ultramaturo e per lo sgretolamento delle condizioni che stanno a fondamento della supremazia americana.

La partita tra i nascenti blocchi imperialisti è tutta da giocare, nessun esito è scontato. Ma la soluzione più auspicabile rimane la stessa che la nostra corrente indicava nel lontano 1950:

“Questo partito [del proletariato rivoluzionario. Ndr.], nella seconda guerra imperialista 1939- 1945, avrebbe dovuto parimenti sostenere la rottura della politica e dell'azione di guerra entro tutti gli stati. Un marxista poteva tuttavia conservare il diritto, senza temere che i soliti libertari lo accusassero di simpatie per un tiranno, di fare calcoli e indagini sulle conseguenze di una vittoria di Hitler su Londra e di un crollo inglese. Questo stesso marxista conserverà il diritto, pur dimostrando che il regime di Stalin non è, almeno da venti anni, regime proletario [quello di Putin non richiede alcuna dimostrazione! NdR], di considerare le utili conseguenze rivoluzionarie che avrebbe il crollo – disgraziatamente improbabile – della potenza americana, in una eventuale terza guerra degli stati e degli eserciti”.

(“Romanzo della guerra santa”, in Battaglia Comunista", n. 13 del 1950, riprodotto in Il proletariato e la guerra, Quaderni del programma comunista, n.3, 1978).

Possiamo oggi appellarci solo a una “novità”, rispetto al quadro disegnato nell'articolo della serie “Sul filo del tempo”: cioè che l'auspicato crollo dell'allora inarrivabile (e tale per lungo tempo sarebbe stata) potenza americana non sia più così “disgraziatamente improbabile”. Oggi l'attivismo del gigante atlantico può essere letto come sintomo di una crisi mai affrontata prima, all'interno come all'esterno, che apre la possibilità del crollo tanto atteso. Non si tratta né di antiamericanismo ideologico né di concessioni al “terzomondismo”. Nessuna simpatia con la borghesia di qualsivoglia Paese, sempre pronta a schiacciare il proletariato ad ogni suo tentativo di sollevarsi contro l'oppressione e lo sfruttamento; nessuna “fiducia” nella capacità della borghesia di farsi portatrice di interessi “nazionali”, se non nei ristretti limiti dei propri interessi di classe, sempre contrapposti a quelli proletari. Tuttavia, non possiamo che rallegrarci se giungono a maturazione le condizioni perché il vecchio bestione si ritiri finalmente con la coda tra le gambe, a vedersela col proprio proletariato, privato delle briciole della rendita derivante dallo sfruttamento del mondo. Allora si aprirebbero scenari del tutto nuovi e promettenti. A settant'anni di distanza suona ancora attuale la risposta lapidaria di Alfa a Onorio: “la rivoluzione perde il tempo se non fa fuori lo Stato di Washington”.

Con la guerra in Ucraina, la direttrice storica indicata dall'articolo di Prometeo “Aggressione all'Europa” (1949) riemerge prepotentemente alla luce. Gli Stati Uniti sono passati all'incasso: o con noi o contro di noi, unici garanti della sicurezza militare dell'Occidente e dei principi cardine del mondo libero, ma soprattutto eterni creditori dell'Europa rinata sulle rovine dell'ultima guerra mondiale. L'Europa paga un prezzo esorbitante, ma la posta in gioco è la sopravvivenza del capitalismo. L'assetto unipolare è evidentemente saltato, e “l'aggressione” russa all'Ucraina – la si chiami pure così – ne è la definitiva sanzione.

 

NOTE

1- Per gli epigoni del gruppo Damen, “La traduzione politica dell’assioma ‘tendere al Capitalismo’ doveva poi riapparire, abbandonati i drastici termini della distinzione tra ‘capitalismo n.1 e n.2’, in una forma quanto mai vaga ed ipocrita”, che è quella da noi riportata. Il giudizio fortemente negativo, che ovviamente respingiamo, è esattamente la traduzione politica dalla diversa valutazione dell'evoluzione dell'URSS, che andava verso il capitalismo ed era ben lontana dall'aver raggiunto il livello di sviluppo capitalistico degli USA. Che la tendenza dell'URSS al capitalismo non costituisse un assioma – lo è qualunque tesi non sottoposta a verifica scientifica – lo ha dimostrato con ampia visione storica e documentazione economica lo studio contenuto nella Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (Edizioni Il programma comunista, 1976).

2- “In quegli anni di radicale ristrutturazione ci saranno anche violenti e terminali contraccolpi in Russia che venne sottoposta, sotto la consulenza di Jeffrey Sachs, a una radicale cura neoliberale d’urto. La shock therapy prevedeva misure tali da far perdere il 17% del Pil nel 1991, il 19% nel 92 ed il 11% nel 1993. Alla caduta di Gorbaciov (alla quale l’intelligence Usa potrebbe non essere estranea), Eltsin fece seguire un’immediata riconversione di tutta l’economia che passò in pratica in mani private (o meglio oligarchiche) sulla base dei pressanti “consigli” La dollarizzazione dell’economia nazionale fece il resto, si trattò di una vera e propria spoliazione (nel 1998 gli scambi in Russia all’84% erano ormai tenuti in dollari, per effetto della crisi del rublo). Questo è il contesto del Piano Brzezinski [...] un acuto insieme di pressioni e incentivi per circondare completamente la Russia, espandendo la Nato ad Est, integrando l’Ucraina, spingendo sull’indipendentismo ceceno e il fondamentalismo islamico” (A. Visalli, Krisis, reperibile in Sinistrainrete).

3- Per una ricostruzione storica di come in Ucraina il “banderismo” sia sopravvissuto e sia stato alimentato a scopi di desabilizzazione dai servizi di intelligence americani, si rimanda al seguente articolo reperibile su sinistrainrete: Annie Lacroix-Riz, "C'è un contesto storico che spiega perché la Russia è stata messa all'angolo".

4- https://treccani.it/enciclopedia/la-transizione-nell-economia-russa_%28XXI-Secolo%29/

5- Solo come esempio recente di tali manovre, si legga quanto riportato in I piani americani che hanno indotto Mosca alla guerra, di Davide Gagliano, reperibile in Sinistrainrete del 25 luglio

6- Sui piani di saccheggio della nazione ucraina risulta istruttiva la lettura sul blog di M. Roberts dell'articolo “Ukraine, the invasion of capital”. https://thenextrecession.wordpress.com/2022/08/13/ukraine-the-invasion-of-capital/

7- https://treccani.it/enciclopedia/la-russia-e-i-progetti-di-integrazione-eurasiatici_%28Atlante-Geopolitico%29/

8- https://marxist.com/l-imperialismo-oggi-e-il-carattere-di-russia-e-cina.htm

9- “Ma è solo la Russia l’obiettivo della politica bellica statunitense? Ci pare oltremodo evidente che gli USA, all’interno del campo occidentale, tendano ad indebolire e, se possibile, addirittura a liquidare il progetto europeo a base “renana” che, in termini molto generali, possiamo considerare fondato su un approvvigionamento energetico a basso costo e un modello industriale deflattivo. Con il corollario di liquidare ogni duratura possibilità di integrazione tra manifattura e finanza europea ed energia, materie prime, tecnologia e grandi mercati russo e cinese. E di bloccare ogni espansione e radicamento della manifattura tedesca e italiana nei mercati russo, cinese e ‘degli altri’”, Raffaele Picarelli, ”Guerra in Ucraina e Nuovo Ordine Mondiale”, https://sinistrainrete.info/geopolitica/23364-raffaele- picarelli-guerra-in-ucraina-e-nuovo-ordine-mondiale.html.

10- Anche dall'evidente assenza di una classe politica degna dell'attributo nazionale trovano alimento le varie spinte L'illusione dei sovranisti da vario segno si vanifica nel quadro dell'imperialismo mondiale dove non c'è spazio per le autonome patrie, ma solo per i grandi raggruppamenti di potenza ai quali le singole nazioni – comprese alcune di non poco peso – devono subordinarsi per amore o per forza. Forse l'aver appreso questa lezione ha avuto un ruolo nella poco sofferta conversione del fu sovranista antieuro “Giggino”, passato da venditore di bibite a Gran Ministro, il quale l'ha motivata con la raggiunta consapevolezza che ci sono delle cose che si possono fare e altre che non si possono fare. Quelle che non si possono fare, precisiamo noi, sono quelle che dispiacciono ai padroni. E così, fattosi uomo, il Nostro ha dimostrato di aver compreso la differenza tra valore e prezzo e ha preferito decisamente il secondo.

11- Gli esempi di guerra ideologica già in corso sono Sulla guerra ideologica occidentale che contrappone goffamente democrazia a autocrazia russa intenzionata a “soggiogare” l'Europa non è il caso di soffermarsi. Da parte russa rimandiamo a un articolo il cui titolo dice tutto: “Questa è la nostra rivoluzione d'Ottobre”, di Vitalij Tret’jakov, in Limes, La fine della pace, n.5/2022. Ne riportiamo la  conclusione:Concludo il mio articolo con un’affermazione che non dimostrerò, ma sulla quale invito a riflettere coloro che sono disposti a riconoscere anche le opinioni divergenti dalle proprie. Gli eventi del febbraio e del marzo 2022 sono paragonabili nella loro importanza storica e nelle loro ripercussioni globali [sic!] a ciò che accadde in Russia nell’ottobre 1917, ossia a quella che io chiamo ancora la Grande rivoluzione socialista d’Ottobre. Qui non si tratta di socialismo, ma del fatto che nel febbraio 2022 la Russia, proprio come nel 1917, si è liberata dal controllo politico, economico, ideologico  e, cosa molto importante, psicologico dell’Occidente. In questo momento storico, si tratta dell’«ultima e decisiva battaglia» (parole tratte dall’inno russo dell’Internazionale) per la Russia. La vittoria della Russia è attesa non solo da milioni di suoi cittadini, ma anche da decine di paesi (segretamente, anche da molti europei). L’egemonia  globale  degli Stati Uniti ha subìto un colpo poderoso. Il colosso sulle gambe di dollaro lo ha capito. Ecco perché è furioso. Ma crollerà. Perderà. Se ora non mi credete, ricordate almeno questa mia dichiarazione. Tra qualche anno, vedrete voi stessi che era tutto vero.” Ora, se è vero, com'è vero, che qui il socialismo non c'entra, allora il richiamo all'Ottobre è solo retorica nazionalista. Per il resto, pur condividendo l'auspicio, ci guardiamo bene dall'affidarci ai gloriosi destini di Santa Madre Russia!

12- https://treccani.it/enciclopedia/la-russia-e-i-progetti-di-integrazione-eurasiatici_%28Atlante-Geopolitico%29/

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