DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Sempre più vicini al cuore dell'Europa, tuonano i cannoni: ma in realtà, dalla fine del secondo macello mondiale, non hanno mai smesso di tuonare in tutto il mondo, dichiarando apertamente che “il capitalismo è guerra”. Non ci sorprende: è da ben prima dello scoppio della Prima guerra mondiale che noi comunisti mostriamo che quello è il DNA del capitalismo – un modo di produzione che, dopo averci fatto fare un enorme balzo in avanti liquidando il modo di produzione precedente storicamente superato, è oggi arrivato al proprio capolinea: sempre più massacri, sempre più devastazioni, sempre più miseria e instabilità, sempre più difficoltà nel vivere quotidiano per la grande massa della popolazione mondiale. Questo primo ventennio del 2000 parla chiaro: solo i sordi e i ciechi e chi non vuole udire e vedere non se ne accorgono!

La crisi economica accelera le dinamiche guerrafondaie del modo di produzione capitalistico. Dalla fine del secondo macello mondiale, le guerre imperialiste, quelle che servono a questo o quello Stato per rapinare materie prime e controllarne i flussi, esportare capitali, conquistarsi mercati e fette di mercati e soggiogare le masse proletarie e proletarizzate, non sono mai cessate, stravolgendo le stesse lotte di liberazione dal dominio del vecchio imperialismo coloniale. E i cosiddetti organismi internazionali (ONU, UE, NATO, OCSE, WTO, e via cantando) non sono altro che patti tra gangsters per sancire e garantire la spartizione, fintantoché i rapporti di forza tra le potenze dominanti non cambiano. Così, più la crisi economica si approfondisce, meno le controtendenze risultano efficaci, più gli scontri si rendono necessari con nuove alleanze. Si apre allora la via alla guerra inter-imperialistica: quella che si sta avvicinando sempre più velocemente e di cui le vicende balcaniche, mediorientali, africane, caucasiche, per finire con quelle ucraine, non sono che crudeli avvisaglie.

Oggi, dunque, la guerra in Ucraina. Una guerra fra briganti: da un lato, gli Stati Uniti che, invischiati in una crisi economica da cui, come il resto del mondo, non riescono a uscire, usano come sempre la NATO (il loro braccio militare in Europa) per tentare di isolare e contenere i concorrenti più diretti; dall'altro, la Russia che, dopo l’oggettiva rovinosa sconfitta nella “guerra fredda”, si sente accerchiata e fa leva sul nazionalismo da “Grande Russia”. In mezzo, gli Stati dell’Unione Europea (Germania, in primis) che, “uniti” solo nell’esecuzione delle controproducenti sanzioni economiche, non possono ancora sganciarsi dall'alleato più potente, in un continente che si rivela sempre più giungla di nazionalismi.

Nel frattempo, assistiamo allo spettacolo macabro dei rinnovati massacri di popolazioni civili e alla rivoltante ipocrisia delle potenze e “potenzine” imperialiste. Le loro “costituzioni” (prima fra tutte, quella italiana, cosiddetta “più bella del mondo”!) “ripudiano la guerra” e intanto giocano con le parole: hanno cominciato con le “missioni di pace”, con l’“esportazione di democrazia”, con la “lotta al terrorismo”, e adesso la Russia ha inventato “l’operazione militare speciale per smilitarizzare l’Ucraina…”. Comunque le chiamino, guerre “di difesa”, “di autodeterminazione nazionale”, di “consolidamento dei confini”, di “pacificazione”, ecc., sono guerre imperialiste: la traduzione militare del conflitto permanente, caratteristico del modo di produzione capitalistico e connaturato a esso. Come ricordavamo nel numero scorso di questo giornale, e come abbiamo sempre ribadito:

“La definizione che von Klausewitz diede della guerra, secondo cui essa è ‘la continuazione su un altro piano, e con mezzi diversi, della politica’ (la politica, aggiungeremmo noi, di preservazione del capitale), si attaglia così bene alla società borghese, che la si potrebbe tranquillamente capovolgere, e definire la politica come proiezione su un piano e con mezzi diversi di quello stato di guerra permanente, anche se per lo più sotterranea, che è il modo reale d’essere e di divenire del capitalismo. Guerra fra capitali individuali nella vita economica quotidiana; guerra commerciale fra concentrazioni di capitali e quindi, alla lunga, anche fra Stati per il possesso di mercati e per il predominio in settori vitali della produzione o nell’approvvigionamento di materie prime; guerra diplomatica prima, guerreggiata poi, quando gli antagonismi indissolubilmente legati al processo di espansione del capitalismo raggiungono un livello di tensione estrema e cercano la loro ‘soluzione’ nella violenza armata organizzata, nella guerra tout court.

“Ovviamente, è necessario il concorso di molteplici fattori perché il legame fra gli stadi successivi di un unico processo appaia evidente, e crollino miseramente al suolo le teorie costruite e propagandate a sostegno della vantata possibilità che gli equilibri raggiunti in uno di essi si consolidino in una sorta di sia pure irrequieta ‘pace perpetua’... ” 1.

Non possiamo ancora sapere se questo conflitto rimarrà limitato alla specifica questione russo-ucraina o si trasformerà in una guerra generalizzata in Europa o addirittura finirà per costituire l’innesco di un conflitto inter-imperialistico: è troppo presto per dirlo e noi non intendiamo lanciarci in acrobatiche e arzigogolate prefigurazioni, tipiche di quella “geo-politica” che sembra piacere a tanti perché prende il posto di qualunque, scomoda e difficile, posizione di classe. Per il momento, siamo certo di fronte a una guerra imperialista su tutti i fronti che non esplode ancora in guerra inter-imperialista, pur essendo un passo decisivo in quella direzione.

Ogni guerra ha avuto, e avrà sempre, la sua copertura ideologica, il pretesto per spingere al massacro (attivo e passivo) i nostri fratelli di classe, intrappolati dallo Stato borghese (che è e rimane il capitalista collettivo il cui governo è solo e sempre un comitato d’affari borghese) nella gabbia dell’Unità Nazionale, della Patria dai molti epiteti (socialista, democratica, deposito di civiltà, popolo eletto, ecc…). E così, al tuono dei cannoni, si leva il grugnito schifoso del nazionalismo. Schifoso perché, quando la Nazione si prepara a uccidere e ad ammazzare, si fa chiamare “Patria”, mentre è sempre e solo lo Stato borghese: vale a dire, lo strumento che garantisce la divisione sociale del lavoro, la proprietà privata dei mezzi di produzione, lo sfruttamento dei lavoratori fino al sacrificio della vita. E intanto la strage di civili (che va di pari passo con l’esaltazione dell’“eroico sacrificio patriottico” di soldati più o meno volontari) provoca lacrime, lamentazioni, indignazione morale: ma è in stretta e diretta relazione con la “normalità” degli omicidi sul lavoro in tempo di pace.

Per fermare la guerra, il pacifismo umanitario, religioso, culturale, riformista, disarmato e disarmante, “resiliente” (quando riusciremo a disfarci di questo stupido aggettivo, che sancisce l’adattamento allo status quo?), è impotente e complice. Solo il proletariato che si oppone all’unità nazionale e all’economia di guerra con azioni di sciopero e boicottaggio della macchina bellica può “fermare” la guerra: ma questo pacifismo attivo e operante, questo disfattismo portato fino in fondo vuol dire trasformare la guerra che i borghesi conducono tra i loro Stati e contro il proletariato in guerra di classe rivoluzionaria per distruggere ogni Stato borghese.

13/3/2022

 

1 “Capitalismo è guerra”, il programma comunista, n.1/2022. L’articolo fu pubblicato originariamente nel gennaio 1991: trent’anni fa. Da allora...

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