DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Una terra brulla, per lo più senza alberi, profili aspri e declivi dai quali il pietrisco rotola in fiumi che spesso non conoscono il mare; e ancora cippi, massi, deserti di sale, deserti di sabbia arsi dal sole, alti colli sassosi percorsi da una rete di bassa vegetazione in un intricato dedalo di villaggi rurali sperduti; infine montagne, foreste e ghiacciai perenni a coronare questa regione con maestose cime ben oltre i 6000 metri. Questo è l'Afghanistan, un territorio aspro e selvaggio che almeno da due secoli (in realtà da molto di più), conosce una notorietà che non sembra corrispondere alla sua ricchezza reale ed è al centro di fitte trame imperiali.

L'Afghanistan è e non è allo stesso tempo. Il suo territorio solo a nord-est è ben delimitato dalle ultime pendici delle montagne dell'Himalaya, e per il resto si confonde con l'immensa valle dell'Indo, con i deserti iraniani e i territori montuosi a sud della steppa Russa. Della stessa matrice la composizione culturale e nazionale che vede presenti, sul piano etnico linguistico, almeno otto lingue diverse; sul piano religioso gli sciiti rappresentano una discreta percentuale sul totale dei mussulmani; sul piano urbanistico gli addensamenti  arrivano fino a quattro milioni di persone, mentre sopravvivono isole economiche tribali disperse su un immenso territorio scarsamente popolato. A discapito di tutto ciò, l'Afghanistan esiste e dopo la sua “sistemazione nazionale”, passata per ben tre guerre con l'imperialismo inglese dominante nell'800, è rimasto invariato nei suoi confini dal 1886. Ma la sua natura multietnica e la sua centralità geografica sia sugli assi est-ovest (Estremo oriente, Medio e Vicino Oriente)  che sud-nord (Russia, India) hanno determinato per questo Paese una vita quanto mai complessa, tragica e travagliata.

Controllare l'Afghanistan, essere presenti in Afghanistan è imprescindibile per chiunque voglia esercitare un controllo imperialistico dell'intera Asia. Esso si trova nel cuore del continente. Questa condizione geografica è conosciuta fin dall'antichità quando, essendo poco nota la forma dei continenti, ben si tenevano in considerazione le distanze fra i diversi mercati e già i suoi territori erano percorsi da lunghe carovane in un senso e nell'altro.  Oggi, vantare delle basi logistico/militari in Afghanistan vorrebbe dire essere in posizione chiave per tentare di “controllare” l'intera l'Asia e in particolare le vie d’acceso ai tre colossi: Cina, Russia, India.

***

La storia antica afghana si confonde e intreccia con le storie dei territori confinanti. Queste lande videro il dominio dei Persiani, degli Indiani, dei Turchi, dei Mongoli ed ognuna di queste dominazioni che si avvicendarono l'una all'altra lasciò una parte della sua cultura e delle sue tradizioni. Questo almeno fino a tre secoli dopo Tamerlano.

Nel XVIII secolo ebbe inizio la moderna storia nazionale afghana. Il Pashtun Ahmad Durrani unì sotto il suo controllo la parte orientale dell'impero persiano, l'Afghanistan, parte del Pakistan ed il Kashmir. Sarà solo un secolo dopo che, alla fine della terza guerra anglo-afghana, Amanullah Khan costituirà il regno dell’Afghanistan.

Le due guerre mondiali non videro il paese al centro del conflitto e neppure ai suoi margini, soprattutto nella seconda. Questa situazione si protrasse anche per i successivi 25 anni. Le cose sarebbero cambiate negli anni '70.

I Talebani

Prima di continuare con la storia recente del paese, dobbiamo fare una breve digressione sulla “questione religiosa”. La presenza e l'attuale vittoria dei “talebani” (gli studenti del Corano e della shari'a islamica) non rappresentano affatto una novità per questo paese e la sua organizzazione sociale,  non solo in quanto l'attuale situazione sembra la riproposizione, o la continuazione, del precedente periodo a guida talebana 1996/2001, ma soprattutto perché tutta la faccenda ha un retroterra più antico e ci fa tornare indietro di diversi secoli.

 È a partire dal XVII secolo, fino a tutto l'800, che si determina la nascita e il progressivo radicamento di un clero che chiameremo “tribale”. Come abbiamo accennato, la storia afghana è storia di invasioni e sovrapposizioni di popoli e culture. Questa specificità dell'ambiente afghano ha sempre impedito che si sviluppasse un’amministrazione centrale forte e stabile. Con l'avvento dell'impero Moghul (l'Islam è già presente dal VII secolo d.C.) inizierà la diffusione anche in Afghanistan di scuole coraniche, madrasse e non solo: queste forgeranno una gerarchia religiosa (non una vera chiesa, sconosciuta a tutto l’Islam) che nei due secoli successivi avrà modo di radicarsi e arricchirsi. E’ allora che appare il termine “talebano”. In un paese con una densità di popolazione per kmq bassa e un'agricoltura ad isole (e condotta faticosamente), la popolazione urbana vive per lo più di commercio e dell'industria artigianale ad esso correlata. Questo a maggior ragione a partire dal XVIII secolo, quando inizia il processo di conquista del mondo da parte, prima delle mercantilistiche Spagna e Portogallo, e poi della capitalistica Inghilterra. Commercio significa far di conto e saper scrivere ovvero annotare. Mullah, Ulama, Quadi, Mufti, Muhtasib, Mudrarris, Imam, tutti questi a vario grado e titolo (e soprattutto censo) divennero i funzionari, veri e propri “intellettuali organici” della vita civile afghana, spesso giudici, sicuramente guida morale ed etica, e infine (la cosa non guasta) destinatari di lasciti in denaro e soprattutto terreni per mano dei nobili e ricchi commercianti afghani – almeno nelle loro élites.

Ci pensarono gli Inglesi, che tanta civiltà seminarono nei cinque continenti, a far assumere alla gerarchia religiosa anche l'ultimo elemento per essere una colonna dello stato: la funzione militare. Gli Inglesi, che mai compresero fino in fondo l'importanza sociale di questa gerarchia religiosa, la spinsero, una volta toccata nel portafoglio con le requisizioni di terre, a cercare di imparare a darsi una funzione nazionale in senso moderno, abbandonando una più pacifica via compromissoria. A partire dalla metà dell'800, e soprattutto nelle tre guerre che si susseguirono con gli Inglesi, le figure religiose carismatiche e guerrigliere fuoriuscite dalle grandi tribù afghane furono molteplici e contribuirono al processo costitutivo dell'Afghanistan moderno.

Così, all'alba del ‘900, i leader religiosi erano di fatto anche leader economico-politici: in altri termini, spogliati della loro barba nera, proprietari terrieri in salsa afghana. Tuttavia, il loro referente ultimo rimarrà sempre quello delle “tribù”, e pertanto la loro dialettica con il potere centrale sarà sempre costellata di aspri contrasti e lotte intestine.

Non deve quindi stupire se in Afghanistan figure come quelle dei Talebani non solo aspirino, ma riescano a prendere il potere e a mantenerlo (finché dura...).

***

Veniamo a tempi a noi più vicini. Con gli anni '70, il periodo pacifico dell'Afghanistan termina. Nel 1970-71 si verifica nel paese una tremenda carestia che lascia  sul terreno mezzo milione di morti. I tentativi (assai timidi, per altro) della corona afghana di modernizzare lo Stato, che in gran parte avrebbe significato riforma agraria e centralizzazione, cozzano sia contro gli interessi dei latifondisti, fra cui si annoverano anche le figure religiose più in vista del paese, sia contro la tradizionale autonomia “tribale”. Questa situazione di scontro centro/periferia si protrae fino al colpo di stato e alla proclamazione della repubblica nel 1973, naturalmente avversata dai leader religiosi, più che per il tentativo di laicizzazione, per quello di darsi una struttura centralizzata. La gerarchia religiosa, così colpita, torna subito barricadiera, riservando a sé le risorse dei propri territori: torna ad armarsi e forma una guerriglia che diventerà anche “partigiana”, dopo l'invasione da parte dell'URSS.

Il periodo successivo al colpo di Stato fino all'invasione russa, segna l'apice di laicità dello Stato afghano e del suo tentativo di modernizzazione delle istituzioni e dell’ economia afghana. Poi, caduto il regime filorusso, sarà sempre guerra!

A questo punto intervengono gli Stati Uniti, eredi dei malconci progenitori inglesi nel ruolo di esportatori di civiltà nei cinque continenti. Essi avevano visto di buon grado l'eventualità che la Russia s’impantanasse in un proprio Vietnam: così, si tuffano a pesce nella tenzone internazionale. La CIA arruola ed arma qualunque frangia disposta a combattere contro l'invasore “rosso”, compresi Osama Bin Laden e  il biker Mullah Omar.

 Non vi sono certezze sui reali motivi che hanno fatto scivolare la vecchia URSS nella palude afghana. L'unica cosa certa è l’origine dell'intervento: mettere ordine nella guerra intestina delle fazioni al governo, tutte formalmente filorusse, ma in aspro contrasto tra loro. Successivamente, il massiccio invio di truppe, mezzi e risorse sarebbe stato giustificato dal tentativo di contenere l'Iran khomeinista e di creare un fattore di pressione (e di influenza) sul Pakistan e soprattutto sulla “neutrale” India (e altre questioni ancora). Alla fine della storia, i russi usciranno da questa guerra a pezzi, e la stessa vecchia URSS non sopravvivrà un decennio alla sconfitta. Bisogna sottolineare che, quando proprio i Talebani prenderanno il potere a Kabul nel 1996, dopo anni di guerra di tutti contro tutti, ciò avvenne con il consenso di una significativa parte della popolazione afghana, prima fra tutte quella rurale. Avrebbe portato pace e stabilità il nuovo potere talebano? Certamente no.

Infatti, a questo punto della storia afghana l'evento che segna l'inizio del nuovo millennio, l'attacco alle Torri gemelle di New York, a migliaia di chilometri dalla Kabul talebana, determinerà la decisione americana di invadere l'Afghanistan, con la motivazione ufficiale, diffusa da un vero e proprio schiamazzo mediatico, di stanare Osama Bin Laden e “spezzare le reni” al potere connivente e oscurantista talebano. Inizia dunque una guerra lunga vent’anni.

L'impatto degli eserciti alleati sotto bandiera Nato, per superare il prevedibile veto al palazzo dell'ONU, se non russo sicuramente cinese, è devastante e immediatamente efficace. Dopo due mesi di bombardamenti, i Talebani cadono e si ritirano (magari con barba tagliata alla nuova moda occidentale) nei territori rurali; ma una ritirata strategica non rappresenta automaticamente una sconfitta inappellabile.

Tutti i distretti delle maggiori città, Kabul, Kandahar, Jalalabad, Herat, Mazar i Sharif, tra i più importanti, vengono suddivisi in aree di influenza dei diversi comandi armati di tutti gli Stati coinvolti. La società afghana si spezza in due: la borghesia urbana, i ceti burocratici insieme alla parte di proletariato ivi stanziata, disposti al compromesso con l'invasore e beneficianti dei commerci e degli aiuti umanitari, da una parte; la società rurale agricolo-guerrigliera, dall'altra (e non sono da biasimare i settori della popolazione afghana disposti a patteggiare con il “nemico”, poiché tutto sembrava meglio dell’asfissiante repressione messa in atto dal governo “antimperialista” talebano).

Nelle campagne, dove sopravvive una adesione profonda ai precetti dell'Islam e una devozione ai suoi rappresentanti in terra, e dove la prima economia, spesso l'unica, è quella della coltivazione dell'oppio, la mediazione proposta da invasori e anime pie umanitarie non attecchisce affatto. E così la situazione si trascina per vent'anni, tra scontri e attentati.

L'oppio

Prima di proseguire facciamo nuovamente una digressione, questa volta a proposito della “questione droga”. La terra afghana è faticosa da lavorare e il clima non l'aiuta affatto a essere rigogliosa. La natura però ha selezionato una pianta (e l'uomo l'ha via via migliorata), capace di crescere robusta in questo ambiente e soprattutto, da sempre (o almeno dall'arrivo degli inglesi) di remunerare ottimamente il lavoro [1]. Non solo remunera il lavoro del contadino (che, intendiamoci, riceve un'infima parte del valore sviluppato da questa industria) ma tutto il lavorio e il trasporto su un mercato veramente mondiale trae da questo commercio un' enorme liquidità, un'enorme massa di capitali.

A differenza di quello che il comune cittadino potrebbe credere, non solo la produzione di oppio non è stata contrastata affatto dagli “alleati”: al contrario, nei vent'anni di occupazione è quasi raddoppiata. Tutte le vuote parole, tutti i proclami d’intolleranza verso le droghe dei governi borghesi di tutti gli Stati si infrangono sulla dura realtà. Sul piano interno, l'uso preventivo e repressivo delle droghe nelle società avanzate svolge una funzione di controllo sociale; sul piano esterno, da una parte è eccessivamente oneroso investire capitali per la riconversione agricola a produzioni legali, dall'altra la maschera perbenista borghese svanisce davanti alla consapevolezza degli enormi capitali liquidi provenienti dal business della droga illegale, dove tutti, direttamente o indirettamente, investono e traggono profitto. La produzione deve continuare! Anzi, si è visto l'enorme mercato mondiale accrescersi, con buona pace per la legalità!  Un fattore, questo, non di secondaria importanza per le sorti dell'Afghanistan.

La produzione dell'oppio avviene in quella vasta area periferica definita Mezzaluna che circonda per 270 gradi il massiccio montuoso che costituisce il centro del paese. Molte di queste aree sono pashtun e proprio in esse i Talebani hanno consolidato le loro posizioni. Naturalmente, essi traggono dalla produzione dell'oppio enormi risorse che permettono di rafforzare la propria quasi totale autonomia dal potere centrale. Si pensi che il contributo dei contadini afghani alla produzione mondiale dell'oppio è stimato tra il 60% e l'85% del totale mondiale: e allora si capisce come per vent'anni ceti urbanizzati e rurali nelle aree immediatamente vicine alle città e contadini delle zone rurali siano vissuti in una dialettica di scontro armato a basso impatto. Ma il destino dello stato afghano è legato anche alla storia più grande e complessa che ha segnato e continua a segnare l'invasore: infatti, nel frattempo, i tronfi USA al loro apice di potenza si ritrovano dopo vent'anni come (sono loro stessi a dirlo) “un'anatra zoppa”.

***

Dall'intervento americano alla caotica smobilitazione, di nuovo l'Afghanistan è tutto e non è niente: è invasione militare, è tortura e violenza su bambini e donne, è programmi di sviluppo di grandi e piccole associazioni “umanitarie”, è ospedali da campo, è commercio di armi, commercio di oppio, è robotica nelle grandi metropoli e zappa di legno nelle lontane steppe. E’ potere invasore, è governo nazionale, è potentati locali in mano a famiglie di tradizione “tribale” o a leader religiosi. E' aerei, armi moderne e sofisticate, è esercito nazionale, o piuttosto una caricatura di esso, è bande armate più o meno grandi, operanti e spesso in contrapposizione fra loro... Tutto ciò almeno fino a poche settimane fa. Ciò malgrado, l'Afghanistan ha continuato a sussistere come entità nazionale unitaria, e la lotta tra le varie fazioni non si è mai trasformata in uno scontro indipendentista ma in uno scontro per il potere. Questa, dunque, la situazione quando, in piena estate 2021, il precipitare della crisi ha ricordato al mondo intero, alle prese con una pandemia che in Occidente ha monopolizzato per un anno e mezzo tutto l'interesse mediatico, che esiste ed è ancora aperta una “questione afghana”. I giornali si riempiono di notizie e lo spettacolo che viene servito è tanto tragico, ai limiti della nevrosi, quanto apparentemente inspiegabile nelle sue cause e nel suo svolgersi.

Sullo sfondo di immagini apocalittiche, i solerti “lavoratori” dei mass media coniano il parallelismo con il Vietnam. Se restassimo alla percezione scaturita dalla semplice visione delle immagini, questo parallelismo sarebbe per lo meno giustificabile: ma se ragioniamo in termini più generali e complessivi, i conti non tornano. In altre parole, è possibile credere che con più di 15 mesi di tempo, ovvero dalla sottoscrizione degli accordi di Doha, gli alleati, prima di tutto gli americani, siano stati così stolti ed incapaci da trovarsi a gestire un'evacuazione di migliaia di truppe e decine di migliaia di probabili profughi solo a partire dagli ultimi 30 giorni? Così stolti ed impreparati da lasciare sul terreno armi, mezzi e, perché no?, borse piene di dollari? Così incapaci da non prevedere che il sedicente esercito afghano (da loro così solertemente addestrato e “nutrito”) si sarebbe liquefatto in poco più di due settimane? 

Le ragioni dello show a cui abbiamo assistito sono altre e più complesse.

Ci sono nemici e nemici: nemici da annientare, nemici da far cuocere a fuoco lento, nemici da contrastare, nemici da disturbare e soprattutto nemici di cui non si può fare a meno. I Talebani per gli americani sono di quest'ultima specie. Non si possono annientare, sono parte integrante del popolo afghano; non si possono fare cuocere a fuoco lento anche perché dopo 20 anni sono gli americani semmai ad aver subito una tale cottura; non si possono più contrastare né disturbare perché la cottura di cui sopra ha determinato la fine della presenza USA su suolo afghano. L'unica cosa che si può fare è vedere un bicchiere mezzo pieno in un dito d'acqua! Bisogna scendere a patti anche se non apertamente (almeno la faccia la si deve salvare!).

Se non si vuole che l'Afghanistan si sbricioli durante la ritirata di chi l'ha dominato negli ultimi vent'anni, bisogna lavorare perché si instauri un governo forte. Bisogna anche che la forza, non solo militare, ma anche morale, sia in grado di contenere, se non eliminare, le spinte centrifughe di decine di sigle estremistiche islamiche. Bisogna sì andarsene, ma tenendo contemporaneamente un piede sulla porta lasciandosi alle spalle un canale aperto, figlio del compromesso sotterraneo, per impedire l’irrompere sul posto degli imperialismi immediatamente concorrenti – Russia e soprattutto Cina. Se questo è il quadro minimo ottenibile, bisogna consolidare il proprio nemico per trattenerlo a sé quanto basta perché non diventi l'amico del mio nemico. E quale occasione è più ghiotta di una parata mediatica 24 ore full time, in cui non gli eserciti degli Stati alleati, che si portano a casa tutto, ma l'esercito USA dimentica sul terreno notevoli mezzi militari e non solo. Altro che talebani… “antimperialisti”!

Il Grande Gioco dell'800 si ripropone qui ancora, ma gli attori in campo questa volta sono molti di più. E sono, più che economici, geopolitici.

Dal punto di vista economico, l'Afghanistan è un vero rebus. Industrialmente è praticamente inconsistente; vi sono stime, e anche alcune certezze, sulle sue risorse minerarie ed energetiche, ma il permanente stato di guerra degli ultimi cinquant'anni non ha mai permesso di verificare le stime e soprattutto di rendere le eventuali risorse merce disponibile sul mercato internazionale. Tanto basta, però, per accendere a vario titolo interessi economici di tutti gli attori in campo: in primis, i due giganti mondiali, per l’appunto Usa e Cina, ma non solo.

Dal punto di vista geopolitico, invece, il Pakistan continua la propria politica secolare del “non avere il nemico alle spalle” in caso di guerra con l’India, e per il momento la sua politica, pur fra mille contraddizioni, regge. L'India rimane dietro le quinte, apparentemente con meno successo, mossa anch’essa dal timore di ritrovarsi “il nemico alle spalle”. La Russia è naturalmente interessata a uno sbocco al mare (perché no, in India?) per le sue pipelines che necessariamente dovrebbero passare per l'Afghanistan. Ma l'Afghanistan fa gola anche alle manovre di Turchia, Iran e Arabia Saudita per il dominio non necessariamente militare, ma economico e politico di tutta l'area. Ed anche gli Stati della Nato, coinvolti nell’avventura USA, vorrebbero recuperare una parte delle immense risorse bruciate nella guerra ventennale, nel tentativo di inserirsi nel “grande affare” afghano.

Questi molteplici interessi non contribuiscono alla stabilizzazione dell'Afghanistan. Prima di tutto, non riescono a unificare quel soggetto politico che tanto sta a cuore agli americani: il potere talebano. Il peso dell’eredità “tribale” si fa sentire anche all'interno delle varie fazioni. Avere più fonti di finanziamento garantite da più Stati donatori ha un rapporto diretto con la balcanizzazione del potere talebano: abbiamo già visto le prime crepe durante la formazione del governo, a settembre. A questo quadro, bisogna poi aggiungere la constatazione che i talebani sono molto meno “puri” che in passato, avendo accresciuto le loro file, negli ultimi venti anni, con nazionalità e personalità originariamente estranee, se non loro nemiche.

Alla instabilità esogena bisogna poi aggiungere quella endogena, in altre parole bisogna considerare la composizione demografica dell'Afghanistan. Più del 75% della sua popolazione ha meno di 40 anni, di questa più della metà ha meno di 20 anni. Questo significa che i tre quarti della popolazione era giovanissima o ancora non nata prima dell'arrivo degli occidentali. Ne consegue che questo settore della popolazione ha subito una diretta influenza della “cultura occidentale”, ma soprattutto ha potuto accedere a una serie di merci, prima di tutto quelle legate alla connettività mondiale, che potrebbe indurre a una minore propensione all'accettazione dei modelli talebani. E dunque l'influenza talebana sulla società potrebbe essere meno decisiva che non quella avuta nel periodo del governo precedente. In altri termini, per i talebani non sarà semplice contenere questa situazione, se non reprimendo le eventuali sacche di resistenza. La cronaca ha già fatto emergere alcuni episodi significativi. Le donne, soprattutto quelle urbanizzate, sono più volte scese in piazza in questi mesi e hanno esplicitamente rivendicato la volontà di accedere all'istruzione e al lavoro, contrastando apertamente i primi provvedimenti sulla “condizione femminile”. E allora, a questo punto, è necessario soffermarsi sulla “questione femminile” in Afghanistan, senza pretese di esaustività, ma per dare una prima valutazione dal punto di vista proletario.

Le donne afghane

Tralasciamo, per pietà prima ancora che per incompatibilità di classe, gli insulsi appelli della paccottiglia borghese (donne e non solo) lanciati sull'etere da una ridda di VIPs e influencers, come amano definirsi, che, privi degli strumenti per comprendere, figuriamoci per incidere sulle drammatiche sorti quotidiane delle donne afghane, nulla spiegano e men che meno possono risolvere. Sono solo la dimostrazione di come la famelica bestia mediatico-politica non si fermi davanti a niente e a nessuno.

Alle origini della condizione femminile in Afghanistan vi è certamente un retroterra antico. Il Burqa non è un'invenzione dei Talebani e non è neppure di origine rurale. Viene introdotto a corte nel 1890 e verrà utilizzato fino agli anni '50 dalle classi medio alte. In altri termini, era il segno di proprietà sulle proprie donne dall'alta società afghana. Dopo il divieto negli anni '60, ritorna in auge con i Talebani. Essi estendono e “armonizzano” con la shari'a il concetto di proprietà della donna per tutti i buoni (maschi) islamici. La donna deve sparire, deve vivere come semplice appendice del marito e, se non c'è, del padre, del fratello... insomma di un uomo. Non ci perderemo certo intorno alla discussione se tale condizione sia presente o no nel Corano, se sia precetto islamico o tradizione autoctona: quello del Burqa è la risposta afghana a una condizione economica stringente.

Come abbiamo già riferito, l'Afghanistan si regge in parte su un'economia di sussistenza e assistenza, per lo più retta dagli aiuti internazionali, e in parte dalla produzione dell'oppio, mentre il tessuto industriale è quasi inesistente. Una tale situazione determina la presenza di una sacca enorme di manodopera, di proletari (quasi invisibili, confusi come sono nella massa di preti, borghesi commercianti e contadini), per i quali accedere a un salario risulta impossibile. Come in un’economia in crescita e avanzata la donna viene assorbita nella produzione e nel lavoro in generale, e di conseguenza aumenta il suo grado di “libertà” (ma anche di assoggettamento alla legge ferrea del Capitale), così in una economia di sussistenza e assistenza come quella afghana le donne sono le prime a subire la marginalizzazione nella società su una base strettamente economica. Il Burqa rivela quanto poco il Capitale abbia attualmente bisogno delle donne afghane per estrarre plusvalore: è una maschera triviale dietro la quale si cela l'enorme problema della condizione proletaria afghana, nella quale la componente femminile, storicamente debole, è soggetta a una condizione di ulteriore vessazione.

Giunti al termine di questa carrellata, si torna, come sempre si tornerà finché il capitalismo sarà in terra, all'inevitabile questione che tutto regge e tutto muove nella società umana: il contrasto fra lavoro e capitale, fra proletariato e borghesia, nel quadro delle relazioni imperialistiche.

***

La situazione afghana è una di quelle lesioni purulente che il gioco interimperialistico ha disseminato qua e là per il mondo. Queste piaghe – Palestina, Curdistan, l'intera Africa, le Coree, ecc. – sussistono da più di mezzo secolo e mai hanno trovato una soluzione. Le loro realtà si collocano in territori che fungono da punti di contatto (e contrasto) fra gli interessi di due o più imperialismi, ed in quanto tali sono destinate a rimanere piaghe aperte fino alla fine di questo infame modo di produzione. In tale situazione, la pace e la stabilità sono solo una pia illusione. Nella specifica situazione afghana, il proletariato è in uno stato di debolezza strutturale, figlia dell'esiguo numero di occupati sul totale; di contro, il suo numero potrebbe costituire un punto di forza, con la massa di inoccupati e affamati che permea le città.

Sia quel che sia, dobbiamo prima di tutto ricollocare nell’esatta dimensione internazionalista il ruolo e il destino del proletariato afghano e depurarla dalle visioni distorte spacciate sia dai cascami stalinisti che dallo pseudo-anti-imperialismo di sedicenti internazionalisti: la narrazione, buona solo per un thriller di infimo ordine, secondo cui esisterebbero comunque “due fronti” (quello imperialista, semper lü, statunitense, e quello “antimperialista” nel quale si vanno ad assommare i più squallidi cascami delle pseudo-borghesie nazionali locali compreso il potere talebano o quello dei califfati jiadisti). Una simile mistificazione condanna il proletariato a essere massa di manovra di una miscela di patriottico nazionalismo e partigianesimo e, con questo, a rimanere “massa diseredata” (classe in sé, tanto per cambiare)!

Le categorie sociologiche normalmente utilizzate in questa mistificazione non fanno altro che difendere e diffondere la prospettiva della sinistra piccolo-borghese (a partire da quella occidentale , che “dà la linea” alle sue sorelline di tutto il mondo): l'assoggettamento del proletariato nazionale nella gabbia nazionale al servizio di questo o quella borghesia. Per risolvere la disperata situazione delle masse proletarie delle “periferie del mondo” e soprattutto in quelle “periferie” in cui si manifestano gli scontri inter-imperialisti bisogna ritessere la trama dell’internazionalismo proletario, che inquadri ogni segmento della nostra classe verso l’obiettivo dell’abbattimento della società del Capitale. Certo, non è una questione astratta né di volontarismo: anche in questo caso, si tratta di lavorare alla riorganizzazione di una forza politica indipendente dei proletari di tutto il mondo [2].

[1] Lettore, ricordi da dove veniva l’oppio, durante le “guerre” che da esso presero nome?

[2] Per una lettura sintetica sul ruolo dei conflitti nazionalistici, cfr. il nostro “Residui e cancrene delle cosiddette ‘questioni nazionali’”, n.1/2017 di questo stesso giornale. 

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  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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