DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Ora che s’è almeno in parte depositato a terra il gran polverone pre- e post-elettorale (dannoso sul piano ideologico quanto lo sono le polveri sottili per i nostri poveri polmoni), proviamo a mettere i puntini sulle i di alcune questioni. Ci riferiamo alla situazione italiana solo perché la conosciamo bene, ma le questioni sono di carattere generale e interessano i proletari di tutti i paesi.

Dunque, le elezioni amministrative italiane del 3-4 ottobre (con ballottaggi il 17-18 dello stesso mese) hanno visto un’impennata delle astensioni: ha votato il solo 54,69%, scivolato giù al 43,93% in occasione dei ballottaggi – sconcerto e preoccupazione generali per la “disaffezione mostrata dagli elettori”… Passa una settimana dal primo turno, ed ecco che, il 9 ottobre (notate bene: due giorni prima dello sciopero generale del sindacalismo di base), nel corso di una manifestazione del “popolo contro l’uso del green pass”, un manipolo di appartenenti alla manovalanza fascista specializzata negli affari sporchi dello Stato assalta la sede nazionale della CGIL a Roma – indignazione generale, chiamata alla mobilitazione, antifascismo diffuso e roboante, fiera richiesta di messa fuori legge di Forza Nuova…

Lasciamo perdere il fatto, pur eloquente, che, a distanza più o meno di un mese da entrambi gli episodi (scriviamo ai primi di novembre), non se ne parli praticamente più – a dimostrazione dell’amnesia generalizzata, tipico effetto collaterale della democraticoide, demagogica società di massa  – e invece entriamo più a fondo, com’è nostra abitudine, in entrambe le questioni.

Astensionismo e disaffezione al voto

Naturalmente, a fronte delle percentuali di cui sopra, i piazzisti dell’ideologia dominante (sociologici, opinionisti, gazzettieri, psicologi, preti, segretari di partiti, e via dicendo) si sono mobilitati per “ragionare” sul fenomeno, partorendo il solito topolino: è colpa, per l’appunto, della “disaffezione” nei confronti della politica; poi, certo, la pandemia, la crisi, eccetera eccetera. Tutte ovvietà: che i “cittadini” si sentano delusi dalla politica è la scoperta dell’acqua calda, a fronte di una politica che ha tutte le caratteristiche, ultra-democratiche, della vuota retorica e della presa per il naso (per non dire altro).

Questa disaffezione al voto è una reazione di pancia (una pancia malata e intossicata). E’ figlia della borghesissima e illusoria “libertà di pensare e di ragionare con la propria testa”: la convinzione che l'individuo possa avere un ruolo decisivo in un mondo che, al contrario, lo schiaccia e lo annulla ogni giorno sotto il peso dell'ideologia dominante e delle materiali condizioni di vita e di lavoro. E' una patetica “richiesta di attenzione” (“se non ci aiutate, noi non vi votiamo”), rivolta a personaggi che ci si ostina a credere, interessati alla gestione del bene comune, espressione di un'astratta “cosa pubblica” al di sopra delle parti (il Comune, la Regione, lo Stato, il Presidente, ecc.). E' il risultato della frustrazione che nasce dal pensare che non sia possibile un’azione politica al di fuori del recinto stretto del gioco parlamentare e istituzionale, in cui partiti e partitini, gruppi e individui danno il peggio di sé – un balletto di statue di cera sempre più sfatte. E' una belante implorazione (“Fate qualcosa!”) che s’illude di aver gambe per il solo fatto di riconoscersi in una percentuale che cresce a ogni appuntamento elettorale, ma che in realtà è una dichiarazione di resa e di sottomissione passiva alle regole del dominio borghese.

Non è certo il nostro astensionismo.

Il nostro astensionismo ha tutt'altra origine e prospettiva. Nasce dall'analisi degli sviluppi nel tempo storico della società borghese, della natura dello Stato, del ruolo e della funzione e finzione della democrazia e della realtà vera e profonda degli istituti democratici, di qualunque livello essi siano. In una società divisa in classi com’è quella borghese (oggi non si fa che parlare, pudicamente, di “diseguaglianze sociali” o di “poveri”, ma oltre non si va!), la classe al potere domina con ogni mezzo a disposizione: le condizioni materiali di vita, la forza militare in tutte le sue forme, il monopolio della giustizia, la scuola, la famiglia, la religione, i mezzi di comunicazione, l'ideologia in genere. Lo Stato è lo strumento organizzato di questo dominio, con funzioni economiche, di controllo e mediazione sociale, finanziarie e militari; la democrazia, uno degli involucri che avvolgono quel dominio: non ha mai esitato a usare il pugno di ferro e, quando (di pari passo con l'evoluzione in senso sempre più accentrato dell'economia, propria dell'epoca imperialista) si è sentita minacciata, s'è mutata in dispotismo, in fascismo aperto – e questa stessa mutazione l'ha trasformata nel profondo, in maniera indelebile e definitiva, svuotando ancor più di senso e di funzione quegli stessi istituti democratici che esalta a pieni polmoni. Lo Stato contemporaneo, borghese e imperialista, agisce, perché è un capitalista collettivo: le vere decisioni vengono infatti adottate da organismi tecnici che esprimono direttamente le esigenze del capitale come potenza anonima.

Il nostro astensionismo, dunque, nasce dalla considerazione scientifica (suffragata da un'esperienza ormai plurisecolare) che il proletariato e i comunisti non hanno nulla da aspettarsi dagli organismi rappresentativi di qualunque livello – nemmeno considerandoli come utili strumenti di diffusione della propria propaganda, men che meno un terreno di confronto o di scontro con il nostro nemico. Sono organismi che, al contrario, ingabbiano la nostra classe, le impediscono di manifestare la propria identità antagonista, deviano e svuotano le pressioni che essa esercita sotto le spinte che si sprigionano dal sottosuolo sociale, la trattengono dal scendere in campo e far sentire la propria forza organizzata, costringendola a delegare ad altri la soluzione dei suoi problemi.

Ripudiamo sia quella condizione che vede i proletari chinare il capo e deporre la scheda elettorale nell’urna sia quell’astensionismo umorale che, se lavorato per bene ai fianchi da politici, media, opinionisti (i piazzisti, per l’appunto), è pronto a mutarsi nel suo opposto. L'elemento per noi essenziale è invece il ritorno alla lotta: è la comprensione (anche solo istintiva) che si deve ricominciare a lottare in maniera collettiva per difendersi dall'attacco quotidiano che il capitale porta inevitabilmente (nelle fasi di espansione come in quelle di crisi) alle nostre condizioni di vita e di lavoro; è l'esperienza – maturata sulla propria pelle – che non si possono delegare le decisioni relative all'esistenza nostra e delle generazioni future (a questo proposito: noi non ci siamo accorti oggi che il Capitale distrugge ili pianeta!); è la percezione che per prendere il potere bisognerà abbattere proprio le istituzioni democratiche – tutte.

In sintesi, il nostro astensionismo si inquadra in quella preparazione rivoluzionaria che, anche opponendosi alla passività elettorale, indica ai proletari la strada, senz’altro lunga e complessa, per giungere allo snodo cruciale della conquista del potere e opera perché essi si organizzino in vista di quell’obiettivo.

Non si illudano dunque i proletari che questo o quel mascherone sia “un po' meglio” dell'altro: scendano in piazza, facciano sentire la propria voce, non si lascino intimidire dallo spiegamento di forze dell'ordine o ingannare dai discorsi di politici e sindacalisti da tempo strumenti del nemico, non si facciano tagliare le gambe dagli appelli alla “conciliazione”, alle “superiori esigenze del Paese”, da tutta la fuffa che da due secoli e più la classe al potere usa per abbindolarli. Prendano in mano il proprio destino. Ci troveranno sempre, non solo al loro fianco nelle lotte quotidiane per difendersi dagli attacchi del capitale, ma pronti e organizzati per guidarli nel loro compito storico, la presa del potere. E a quel punto, andare a votare apparirà davvero l'inganno che è.

E per ora tanto basti.

Il pericolo fascista

Come riflesso condizionato, ecco dunque lo spauracchio del “pericolo fascista”. Abbiamo trattato più volte questo tema, sia sul piano della ricostruzione storica (parte della nostra battaglia contro l’opportunismo conservatore e riformista di ogni specie e colore) sia in relazione al secondo dopoguerra in cui siamo tutt’ora immersi, e non intendiamo dilungarci qui più di tanto [1]. Vogliamo solo ribadire ancora la natura del fascismo come inevitabile involucro politico dell’evoluzione in senso monopolistico e imperialistico della società del Capitale e la conseguente evidente continuità tra regime fascista e democrazia post-fascista, di cui il travaso da un regime all’altro e il cambiamento di gabbana di molti elementi del regime, piccoli e grandi, trasformatisi in fedeli funzionari della neonata Repubblica democratica post-’45 sono stati i “fenomeni” più emblematici. E’ necessario ricordare che il Movimento Sociale Italiano, erede esplicito del Partito Nazionale Fascista, fu fondato nel 1946 e si auto-dissolse solo nel 1994 [2], dopo mezzo secolo di regolare partecipazione alla vita democratico-parlamentare; e che in tutto questo periodo abbiamo visto agire indisturbati i suoi elementi, implicati nelle “trame” più oscure del dopoguerra.

Ma andiamo oltre.

Il tanto proclamato pluripartitismo (l’architrave della democrazia parlamentare) si riduce a elemento puramente mistificatorio: tutti i partiti presenti nell’arena borghese si richiamano agli stessi principi liberal-democratici (giurano tutti sulla Costituzione!) e le differenze fra loro sono di dettaglio, al di là delle sparate propagandistiche ed elettorali dei dirigenti. Si può parlare di “partito unico borghese”, diviso in diverse correnti, litigiosissime fra loro ma unite nel sacro rispetto dei valori borghesi della patria, della proprietà, della famiglia, del “rispetto delle alleanze internazionali”, e via di seguito. “Ma, e le sacre libertà borghesi? i diritti civili?”, chiederà qualcuno. A che cosa si sono ridotte – rispondiamo – la libertà di stampa e la libertà di manifestazione del pensiero, quando i capitali richiesti per la creazione di un giornale, di una radio o di una televisione sono tali che solo ristrettissimi gruppi di capitalisti possono accedervi? Potremmo continuare, ma ci basti dire che tutto ciò non fa che confermare quanto scrivevamo nell’immediato dopoguerra: “I fascisti hanno perso la guerra, ma il fascismo ha vinto” – il che vale a dire che il sistema reale di potere instauratosi dopo il 1945 è inequivocabilmente fascista.

Comprendere come ciò sia avvenuto è possibile solo con il ricorso all’analisi scientifica marxista: i rapporti economici e di produzione sono la causa degli avvenimenti politici e di tutta la sovrastruttura di opinioni e ideologie nelle diverse epoche e nei diversi tipi di società. E’ dalla fase economica del capitalismo monopolistico che emerge il fenomeno del mondo moderno tendente a sostituire e intrecciare il liberalismo classico con sovrastrutture politiche totalitarie, “fasciste”. Il capitalismo monopolistico, infatti, ha bisogno di un apparato statale corrispondente alle sue esigenze e la forma dello Stato minimo e delle massime libertà individuali (cardini del pensiero liberale) ha dovuto cedere il passo a una forma politica tale da venire incontro all’accresciuta necessità della regolazione dei fenomeni economici e finanziari.

In tutti i regimi odierni, troviamo un livello di intervento dello Stato totalizzante, un inserimento del sindacato nel meccanismo di funzionamento dello Stato parallelo al totale svuotamento di ogni sua autonomia classista, l’esistenza di misure di assistenza e previdenza per i lavoratori unite all’uso sistematico di un fenomenale apparato di propaganda di massa: cioè, tutto quanto è stato sperimentato con successo per la prima volta nell’Italia fascista e nella Germania nazista, e per una via diversa nella Russia (anti)comunista. In questo senso, si può quindi dire che è fuori luogo parlare di “pericolo fascista”: il fascismo come sistema di potere totalizzante del capitalismo dell’epoca imperialista è già presente, e non da oggi né solo in Italia – le stesse dinamiche sviluppate nel corso dell’“emergenza pandemica” stanno a dimostrarlo [3]. “E’ possibile però – chiederà qualcuno – parlare di ‘pericolo fascista’ intendendo per ‘fascismo’ un regime di aperto terrorismo di Stato, di esplicita messa fuori legge di qualsiasi organizzazione proletaria, ecc.?”. Per rispondere a questa domanda, è bene chiarire che il terrore, la repressione e, più in generale, la violenza di classe si esercitano in contesti in cui la classe dominata alza la testa e si ribella al suo destino di classe sfruttata: lo dimostra anche solo lo stillicidio di azioni repressive condotte sia dalle “forze dell’ordine” sia da picchiatori al soldo di padronato e Stato che da anni ormai colpisce praticamente ogni settimana i picchetti o i presidi dei lavoratori ultra-sfruttati della logistica (e non solo) - una repressione selvaggia di cui poco o nulla si legge sui giornali, a meno che non ci scappi il morto!

In Italia, negli anni ’20 del ‘900, la terribile crisi successiva alla Prima guerra mondiale si era associata a fortissimi contrasti di classe, che avevano messo in pericolo la stabilità del dominio borghese. In tale contesto, il terrorismo fascista fu usato per dare il colpo di grazia a un proletariato che non era riuscito a portare a fondo l’assalto rivoluzionario, ma che avrebbe potuto, in un futuro relativamente breve, sferrare il colpo decisivo al potere borghese. Il terrorismo di Stato utilizzato dai fascisti dopo la presa del potere completò l’opera delle squadracce nere. L’esperienza storica dimostra che, al contrario, quando il proletariato si allontana dal suo obiettivo storico e vive solo come classe per il Capitale, quando cioè la lotta realmente classista viene messa ai margini (ed è il caso della situazione attuale), lo Stato preferisce usare la carota della tolleranza avvalendosi di una repressione preventiva, “a bassa intensità”, piuttosto che di una repressione di tipo militare. Non va però dimenticato che, in periodi più “caldi”, lo stesso Stato democratico non ha mai rinunciato all’uso della forza più brutale: fin dal secondo dopoguerra, le pallottole degli sbirri democratici in Italia hanno lasciato sul terreno decine di proletari. Se questi fatti oggi si verificano raramente, non è perché lo Stato borghese sia diventato più tollerante, ma perché scioperi e manifestazioni di piazza sono rari e, in genere, si svolgono in modo ordinato, pacifico e “civile”. E’ certo che, se il proletariato riprenderà la sua strada rivoluzionaria, rispunteranno i mazzieri, non importa se in camicia nera, bruna o di altro colore, a tentare di sbarrargli la strada e verrà fuori un nuovo “governo forte” guidato da qualche nuovo “uomo della Provvidenza” (i candidati non mancano!).

***

I proletari, quindi, devono prepararsi fin da adesso a questa prospettiva. Ma sia per trasformare la disaffezione al voto in un astensionismo rivoluzionario sia per combattere fascisti e democratici, operando con vigore e fermezza per la distruzione del sistema capitalistico che produce fascismo e democrazia, è evidente che la precondizione è organizzarsi nel forte e radicato partito rivoluzionario.

Per cambiare il mondo, votare non serve, astenersi non basta: è necessario lottare, prepararsi a combattere per la rivoluzione proletaria, organizzarsi nel partito comunista.

 

                                                                                                                                            

[1] Basti ricordare ciò che scrivevamo nel 1946: “Lo stesso fatto che le gerarchie oggi prevalenti sono state incapaci di scorgere la necessità, per estirpare il fascismo, di una fase di dittatura e di terrore politico, dimostra che tra fascismo ed esse – come insegna la valutazione fatta secondo le direttive marxiste – non vi è antitesi storica e politica; che il fascismo nei suoi risultati non è sopprimibile da parte di correnti politiche borghesi o collaboranti; che gli antifascisti di oggi, sotto la maschera della sterile e impotente negazione, sono del fascismo i continuatori e gli eredi e prendono atto passivamente di quanto il periodo fascista ha determinato e mutato nell’ambiente sociale italiano” (da “La classe dominante italiana e il suo Stato nazionale”, in Prometeo, n.1/1946).

[2] A pochi anni dall’altro auto-scioglimento: quello del Partito “Comunista” Italiano. Curiosa e significativa coincidenza!

[3] Cfr. i molti articoli che abbiamo pubblicato sull’argomento fra il 2020 e il 2021.

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