DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Il Manifesto del Partito Comunista inizia con la dichiarazione che la storia è “storia della lotta fra le classi”, e che finora questa lotta è sempre finita “o con una trasformazione rivoluzionaria della società o con la rovina comune delle classi in lotta”. Questo concetto è basilare: lo sviluppo delle forze produttive determina la divisione della società in classi, che non possono non essere in lotta tra di loro perché i loro interessi materiali sono inconciliabili. Il modo di produzione capitalistico – nella cui fase imperialista abbiamo la ventura di vivere – non solo non elimina la divisione della società in classi, ma anzi la porta al grado estremo. La società si divide in due campi antagonistici: da una parte, i proletari, che sono privati dei mezzi di produzione e possiedono solo la propria forza lavoro, cioè la capacità psicofisica di lavorare; dall’altra, la borghesia che possiede i mezzi di produzione e, grazie a questo monopolio, può estorcere loro – sfruttandoli nel processo produttivo – un sopralavoro (un lavoro non pagato!), che serve sotto forma di profitto a mantenere sia lei che il sempre ondeggiante ammasso degli strati sociali intermedi.

In altri termini, in tutti i paesi del pianeta terra dove regna il modo di produzione capitalistico (cioè, in tutto il pianeta) una parte dell’umanità è costretta per vivere (ma più spesso per sopravvivere) a vendere la sua forza lavoro. Da questo dato oggettivo deriva la contrapposizione storicamente inconciliabile tra chi sfrutta la forza lavoro e chi la deve vendere. Questa inconciliabilità, origine di ogni lotta di classe, è comune a tutte le formazioni sociali che ci hanno preceduto una volta che l’umanità ha superato il “comunismo primitivo”, che su di una base produttiva di poco superiore alla sopravvivenza animale non conosceva né proprietà né classi né stato.

In quell’epoca, il lavoro umano era scarsamente produttivo e si concentrava nella raccolta dei vegetali commestibili spontanei, nella pesca e nella caccia. Tutti i membri di queste piccole comunità dovevano partecipare a queste attività lavorative e le uniche “specializzazioni” che vigevano erano legate all’età, al genere e allo stato psicofisico – condizioni che, legate alle esperienze dei singoli e alla loro trasmissione generazionale, determinavano le gerarchie e le modalità decisionali del gruppo. Quanto al “frutto del lavoro”, esso era suddiviso secondo la disponibilità totale e consumato secondo i bisogni di ogni membro. Questo rapporto immediato con le risorse e la scarsa possibilità e capacità di “fare scorte” determinavano lo scontro con altri gruppi, quando le disponibilità, seguendo i ritmi della natura, scarseggiavano. Il “comunismo primitivo” non era l’età dell’oro: i membri del gruppo sconfitto o diventavano parte del gruppo vincitore oppure venivano uccisi (e spesso metaforicamente assimilati, attraverso il cannibalismo).

Quando le capacità tecniche (quelle pratiche, prima ancora che quelle virtuali) rendono possibile l’agricoltura e poi l’addomesticamento e allevamento di animali utili, si evidenzia un aumento della produttività del lavoro umano (e dunque la possibilità di avere “scorte” sempre più significative). Questo gigantesco (e non uniforme) passo avanti della nostra specie dà il via a una divisione del lavoro sempre più precisa, alla necessità di una sua organizzazione e quindi a una divisione in vere e proprie classi sociali: è a questo punto che compare la necessità di un’organizzazione e quindi a una divisione in vere e proprie classi sociali, ed è a questo punto che compare la necessità politica dello Stato.

Ben presto, da organizzazione di coordinamento e difesa di una comunità, lo Stato assume una diversa funzione. Non si identifica più con la società, in quanto coloro che svolgono il lavoro produttivo non sono più ammessi a prendere ed eseguire le decisioni generali; il suo compito è un altro: quello di conservare le forme nelle quali le forze produttive agiscono; cioè, opprimere e reprimere una parte del gruppo sociale a vantaggio di quello dominante. Questa – per farla breve, e saltando necessariamente ogni descrizione seppur sommaria dello Stato feudale, schiavistico, asiatico, etc. – è la caratteristica (e la funzione) specifica di ogni Stato finora esistito, destinata a concentrarsi e moltiplicarsi a dismisura nello Stato “democratico” borghese, liberale nell’Ottocento e imperialista dal Novecento.

Come ci ha insegnato Engels in L’origine della proprietà privata, della famiglia, dello Stato, lo Stato esiste come entità separata dalla società e si eleva al di sopra di essa proprio perché deve svolgere una funzione repressiva. Finché la società sarà divisa in classi, esisterà necessariamente uno Stato, così come quando non ci sarà più nessuno da reprimere esso scomparirà: le sue funzioni rientreranno di nuovo nella totalità delle funzioni sociali che tutti potranno eseguire, secondo le loro capacità, e saranno funzioni puramente tecnico-amministrative e di coordinamento della produzione, della distribuzione e del consumo.

Lo Stato borghese, dunque, non solo assume la funzione di “comitato di amministrazione degli interessi della classe dominante”, ma attraverso il monopolio della violenza è un apparato che con la forza (potenziale o cinetica a seconda delle tensioni sociali, ma sempre e comunque minacciata e praticata) permette alla classe dominante di tenere soggetta la classe sfruttata. Qualunque sia la forma o la complessità, esso rappresenta perciò sempre la dittatura di una classe su un’altra; non può essere né “libero”, né “democratico” né “di tutto il popolo”; è sempre dittatoriale e oppressore, e lo Stato imperialista contemporaneo lo è tanto più quanto più si proclama libero e democratico.

 

La democrazia nacque i Grecia nel VI secolo a.C., e la realizzazione del primo Stato democratico della storia si perfezionò ad Atene. In che cosa consisteva questa nuova forma di Stato, che i greci stessi elevarono a sinonimo di libertà politica? Essenzialmente in questo: essa garantiva la libertà a diverse frazioni della classe dominante, negandola alla classe dominata. Ad Atene, la divisione in classi si era ormai consolidata: una parte della popolazione viveva in condizione di schiavitù e svolgeva il lavoro produttivo, l’altra sfruttava il lavoro degli schiavi; ma, a sua volta, la classe dominante era formata da diversi strati sociali, i cui interessi non coincidevano se non nei confronti della classe servite. Tutti questi ceti sfruttavano il lavoro degli schiavi, ma erano in contrasto circa la spartizione e destinazione del sovraprodotto loro estorto. Per regolamentare questa “disputa” sorse la necessità di una forma democratica: ogni strato della classe dominante voleva partecipare alla direzione della società e, per assicurarsi questa partecipazione, doveva lottare contro gli altri, controllarli, ridurre il grado di influenza e impedire che questo conflitto causasse una rovina comune. La forma di Stato che permetteva e regolamentava questa lotta reciproca capace comunque di garantire il “comune” sfruttamento del lavoro schiavizzato fu l’antico stato democratico, con le sue forme di rappresentanza e di mediazione. Quell’antica forma di stato democratico (che poi, attraverso la mediazione della “repubblica” romana e delle esperienze dei “liberi comuni” medievali, ispirò i giuristi e tutti gli altri intellettuali borghesi) divenne il modello dello Stato “di tutto il popolo”, e la “libertà per il popolo” altro non divenne che l’accordo contrattato tra le fazioni della classe dominante per dividersi in tutta tranquillità il frutto dello sfruttamento del lavoro delle classi dominate.

Da allora, “democrazia” non può significare altro che “libertà per gli sfruttatori” e loro dittatura totalitaria e repressiva sugli sfruttati. La differenza fra la democrazia antica e la medesima democrazia borghese sta “solo” nel fatto che la prima dichiarava apertamente di valere unicamente per la classe dominante (non attribuiva infatti nessun diritto civile o politico allo schiavo), mentre la seconda proclama “sulla carta” che tutti gli esseri umani sono” liberi ed uguali” come individui, e proprio lo sfruttamento del lavoro libero e “congeniale” di quegli individui vuole garantirsi per legge.

La democrazia moderna è dunque la miglior forma attraverso la quale la borghesia esercita il suo dominio. Ma la sostanza di questo dominio rimane saldamente nelle mani delle istituzioni che garantiscono l’esercizio di questo stesso dominio: la vera e sola libertà borghese è quella di mantenere intatto il suo monopolio di classe e sui mezzi di produzione e assicurare così “l’eternità” del meccanismo di base da cui si ottiene il profitto.

Dunque, le forme della democrazia variano così come variano i nomi dei regimi: monarchia costituzionale, repubblica democratica, democrazia popolare (termine ormai “demodé”!), dittatura nazionalista, repubblica federale; rappresentanza maggioritaria, proporzionale, referendum, plebiscito… Tutto fa brodo, affinché “tutto cambi perché nulla cambi”.

Se, dunque, lo Stato borghese è una macchina per garantire l’oppressione politica e lo sfruttamento economico del proletariato, è evidente che non può essere utilizzato dal proletariato (o dalla sua “rappresentanza” politica, il Partito Comunista) per condizionare a proprio vantaggio e trasformare in senso socialista questa maledetta “società moderna”: il disastro di un secolo di tentativi “riformisti” con tanto di esperienze “concrete” e di “governo” è la prova più scientifica della necessità della disarticolazione – insurrezionale e violenta come epilogo di un lungo lavoro di preparazione rivoluzionaria – di questo mostruoso apparato.

Lo Stato borghese dunque non si può “conquistare”, ma si deve distruggere e sostituire con uno Stato nel quale, con nuove istituzioni, il proletariato possa esercitare il suo potere (dittatura del proletariato), per poter reprimere gli inevitabili tentativi della classe sconfitta di rialzare la testa e per introdurre tutte quelle misure d’ordine economico e sociale che, con il tempo, permetteranno lo svolgersi verso la società senza classi (il comunismo) – riprendendo in ciò le esperienze vittoriose della Comune di Parigi (1870) e dell’Ottobre Rosso (Russia 1917), dalle quali emerge altresì la necessità della funzione direttiva del Partito Comunista Mondiale.

 

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2009)
 

 

 

 

 

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