DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Esposte nelle puntate precedenti le fatali esitazioni organizzative, tattiche e infine teoriche emerse nell’Internazionale e nelle sue sezioni locali, abbiamo visto come la Russia, ripiegata su se stessa e non potendo più contare su moti di classe vittoriosi in Europa, iniziasse un tumultuoso processo di accumulazione di capitali (interni e internazionali) che, nel giro di due decenni (grazie ai cosiddetti “piani quinquennali”), la portarono a livello dei paesi industriali più avanzati. Questo processo, basato interamente su un vertiginoso sfruttamento di forza-lavoro e sulla rapida concentrazione di capitali nelle mani dello Stato, fu da Stalin definito “socialismo”. Il nostro partito ha dimostrato, nel corso di lunghi studi, come in realtà la Russia non solo non abbia mai avuto un’economia socialista (per definizione, senza lavoro salariato e senza denaro), ma sia riuscita a raggiungere il pieno capitalismo solo nel settore industriale: nel campo agrario, infatti, l’organizzazione delle cooperative non privava i membri di un’effettiva proprietà su parte dei mezzi di produzione e parte del prodotto.

È dunque negli anni Trenta che la teoria del “socialismo in un solo paese” si consolida in Russia e viene rapidamente assimilata dai partiti “comunisti” europei. Da questa teoria, si passa presto a quella delle “vie nazionali” e al pieno riconoscimento della lotta contro il fascismo, che ora sostituisce quella, sempre propugnata dai marxisti autentici, contro il capitalismo. In questo numero del nostro giornale italiano, vediamo dunque come ciò si è realizzato in quel decennio, e quale sia stato l’inevitabile sbocco del tradimento dell’internazionalismo proletario. Rimandiamo il lettore che volesse approfondire tali problemi ad alcuni dei nostri studi: in particolare, La tattica del Comintern dal 1926 al 1940”, in Prometeo, n. 2, 3, 4, 6, 7, 8/1946-47; La Russia nella storia mondiale, nella Grande Rivoluzione e nella società contemporanea, in Il programma comunista, nn.15-16/1955; “Che cosa fu il Fronte Popolare”, in Il programma comunista, nn.10-14/1965; Le tournant des Fronts populaires ou la capitulation du stalinisme devant l’ordre établi (1934-1938)”, in Programme communiste, n. 72-73/1976-1977 ; oltre che, naturalmente, l’intera Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, Edizioni Il programma comunista, 1976.

 

 

19. Due costituzioni a confronto

 

 

Il tumultuoso procedere dell’economia russa stalinizzata verso il pieno capitalismo, pur tra le difficoltà in cui essa dovette dibattersi soprattutto nell’ambito agrario, doveva infine trovare la sua piena espressione ideologica nella Costituzione “sovietica” del 1936.

Pochi mesi dopo la presa del potere, la prima Costituzione aveva dichiarato senza esitazioni gli immensi compiti che stavano di fronte alla rivoluzione: nel campo politico e sociale, la necessità di pervenire, come obiettivo, a una società senza classi e di proseguire pertanto la lotta contro le classi sfruttatrici, che ancora rappresentavano una forza economica su tutto il territorio; nel campo economico, tutta una serie di misure non socialiste, quali la nazionalizzazione della terra, la creazione di una banca di stato, l’annullamento del debito estero. Il contenuto dittatoriale e antidemocratico era chiaramente espresso nel diverso peso del voto operaio (che vale 5) rispetto al voto contadino (che vale 1): era del tutto conseguente al programma rivoluzionario comunista il fatto che il vecchio alleato ora dovesse trovarsi in condizioni subordinate rispetto alla classe dei salariati – quella che, storicamente, deve guidare il processo rivoluzionario verso l’esito finale, la scomparsa delle classi e dello stato. D’altra parte, se la redazione di una costituzione nel 1917-18 poteva rappresentare una necessità formale, il suo contenuto sostanziale non poteva essere se non quello che, da decenni, i bolscevichi avevano proclamato davanti a tutte le classi della società. Pertanto, anche storici borghesi non troppo disonesti possono riconoscere che non è necessario attribuire eccessiva importanza a questo documento, sia perché ben altri problemi dovevano essere urgentemente risolti in quegli stessi anni tanto nella politica interna quanto in quella estera, sia perché i capi bolscevichi consideravano la repubblica sovietica “come qualcosa di transitorio, che avrebbe dovuto in breve condurre a una repubblica – o federazione di repubbliche – socialista mondiale. Non si riteneva – in altre parole – che quella costituzione dovesse servire a lungo[1].

Ben altro significato avrebbe avuto invece la Costituzione del 1936 [2]. In essa, si esprimono infatti tutte le categorie della repubblica borghese, ma dichiarando falsamente che la società è, nel frattempo, diventata socialista. Il suffragio, contrariamente alla prima costituzione, è dichiarato universale, unico, diretto, segreto: dunque, in tutti questi aspetti, esattamente il contrario di quello voluto da Lenin, cioè dalla formidabile, esplicita espressione di dittatura di classe. In campo economico, la Costituzione del 1936 afferma che, essendo la società ormai pienamente socialista, esistono due forme di proprietà (per i marxisti, il socialismo abolirà la proprietà): quella statale e quella colcosiana. Abbiamo visto come nella terra la presenza statale sia stata, in quegli anni, molto limitata rispetto al ruolo effettivo svolto dalle piccole cooperative indipendenti. Ed anche se dessimo per buona l’affermazione staliniana che nell’industria le classi non esistono più e la proprietà è passata tutta nelle mani dello stato, non per questo ci troveremmo davanti ad un’economia socialista. Al contrario, i prodigiosi incrementi industriali di quegli anni ci dimostrano solo che “questo capitale di Stato investe tanto più, quanto meno consuma una borghesia ormai come persone dateci per assenti. Il plusvalore non si divide tra consumo della classe possidente e reinvestimento nella produzione, è tutto, salvo quelle ville, quei quadri e quelle collezioni, nuovo investimento. Resta, per tale motivo, inchiodato il tenore di vita e il tempo di lavoro del proletariato”[3].

 

 

20. Una parola falsata: comunismo

 

 

Non c’è dubbio che otto decenni di controrivoluzione abbiano sradicato dal cuore e dalla mente di almeno due generazioni proletarie il significato del termine “comunismo”. Hanno cioè eliminato o capovolto il senso delle lotte che furono combattute, spesso armi in pugno, per la conquista del potere da parte delle avanguardie rivoluzionarie.

Dopo il 1926, con il termine “comunismo” si sono sistematicamente indicati, come forma di lotta o come sistema sociale, i suoi opposti: economia statizzata, nazionalcomunismo (una variante peggiore del nazionalsocialismo), democrazia dal basso, governo operaio, democrazia operaia, teoria del benessere, antimperialismo, antimonopolismo, antiliberismo, pacifismo ecc.

In tutto questo guazzabuglio, ci si è sempre, sistematicamente, dimenticati che il comunismo moderno, scientifico per definizione e per necessità, nasce come superamento, dall’apice dello sviluppo delle forze economiche scatenate dall’economia capitalistica; che esso non nega tale sviluppo (che anzi considera indispensabile alla propria realizzazione), ma che tuttavia sa che il suo superamento può avvenire solo con la demolizione totale di tutto l’apparato che su di essa si fonda.

Si può pensare che il comunismo restituirà all’uomo tutte le sue piene facoltà (che il lavoro capitalistico gli limita o gli sottrae), si può pensare al comunismo come la società in cui esisterà la libertà assoluta (naturalmente, grazie al pieno inserimento dell’individuo entro la società): ma solo e in quanto sarà abolita una volta per sempre la legge del valore, la trasformazione di ogni prodotto di lavoro umano (e non solo) in merce, la produzione di capitale mediante l’uso di forza-lavoro. Prima di definire il comunismo da un punto di vista ideale (ciò che non ci rifiutiamo certo di fare!), dobbiamo capire quali sono le basi materiali su cui esso deve poggiare, che costituiscono perciò gli autentici obiettivi per i quali un partito comunista degno di questo nome deve lottare – e non altri. Lo lasceremo dire con queste due citazioni da Marx (non potendo, per ragioni di spazio, riportarne migliaia), che prima e più lontano ha visto tutto il processo storico.

La prima citazione basterebbe da sola come manifesto universale per la liberazione dell’umanità dai millenari orrori della storia di società divise in classi:

“Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più si può abbreviare la giornata lavorativa, e quanto più si abbrevia la giornata lavorativa, tanto più l’intensità del lavoro può crescere. Da un punto di vista sociale, la produttività del lavoro cresce anche con la sua economia, che comprende non solo il risparmio dei mezzi di produzione, ma anche l’esclusione di ogni lavoro inutile. Mentre il modo di produzione capitalistico impone economia in ogni azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza provoca il più smisurato sperpero dei mezzi di produzione e delle forze lavoro sociali, oltre a un numero enorme di funzioni oggi indispensabili ma, in sé e per sé, superflue.

“Data l’intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria alla produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata alla libera attività mentale e sociale degli individui sarà tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà proporzionalmente distribuito fra tutti i membri della società in grado di lavorare, quanto meno uno strato sociale potrà scaricare dalle proprie spalle su quelle di un altro la necessità naturale del lavoro. Il limite assoluto dell’abbreviamento della giornata lavorativa è, in questo senso, la generalizzazione del lavoro. Nella società capitalistica, si produce tempo libero per una classe, trasformando tutto il tempo di vita delle masse in tempo di lavoro” (Il Capitale, Libro I, XV, iv, pag. 682, Ed. UTET).

La seconda citazione ci mostra il carattere parassitario del capitalismo e l’ineluttabilità del socialismo (che la crisi mondiale attuale mette in luce meridiana!):

“Con ciò [cioè, con la affermazione di un sistema bancario o capitale finanziario che esercita un enorme potere sul commercio e sull’industria] è data bensì la forma di una contabilità generale e di una ripartizione su scala sociale dei mezzi di produzione, ma anche solo la forma. Abbiamo visto come il profitto medio del singolo capitalista, o di ogni particolare capitale, sia determinato non dal pluslavoro che questo capitale si appropria di prima mano, ma dalla quantità di pluslavoro totale che il capitale totale si appropria, e da cui ogni capitale particolare trae i suoi dividendi solo come parte proporzionale del capitale totale. Questo carattere sociale del capitale è mediato e integralmente realizzato solo dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario [...] Con ciò, esso sopprime il carattere privato del capitale e contiene in sé, ma anche soltanto in sé, la soppressione del capitale stesso. Grazie al sistema bancario la ripartizione del capitale viene sottratta come attività particolare, come funzione sociale, alle mani dei capitalisti privati e usurai. Ma banca e credito diventano così, nel tempo stesso, il mezzo più potente per spingere la produzione capitalistica al di là delle sue barriere, ed uno dei più efficaci veicoli delle crisi e degli imbrogli.

“Infine, non c’è dubbio che il sistema creditizio servirà da leva potente durante il passaggio dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato; ma solo come un elemento in connessione con altri grandiosi rivolgimenti organici del modo di produzione stesso.... Non appena i mezzi di produzione hanno cessato di trasformarsi in capitale (nel che è anche implicita la soppressione della proprietà privata), il credito in quanto tale non ha più nessun senso”. (Il Capitale, Libro III, XXXVI, pag. 756-757, Ed. UTET).

La rivendicazione socialista consiste dunque nell’abolizione del salario: solo essa permette la distruzione dell’economia basata sul capitale. Ciò significa però l’eliminazione dell’economia mercantile, cioè – nell’epoca attuale – l’economia basata sulla forza del denaro. Solo quando si saranno superati questi tre elementi portanti dell’economia attuale (la proprietà privata, l’economia di mercato e l’economia di azienda), solo allora inizierà per l’umanità una storia realmente sociale.

 

 

21. I fronti popolari

 

 

Abbiamo visto come, a una prima fase di oscillazioni tattiche da parte dell’Internazionale (1923-26), ne seguisse una caratterizzata dalla cosiddetta “svolta a sinistra” e dalla teoria della “classe contro classe” (1928-32). Esposta alle basi di partiti ormai decimati dall’ondata controrivoluzionaria seguita alle sconfitte degli anni precedenti, questa teoria – che riprendeva in astratto alcuni dei punti sollevati dalla nostra Sinistra – non faceva che rendere ancora più confusa la politica dell’Internazionale e delle sue sezioni locali. A essa seguiva pertanto, come conseguenza logica di uno sbandamento che diventava ormai incontrollabile, una “svolta a destra” che rovesciava le indicazioni sul “socialfascismo” (cioè, la socialdemocrazia intesa come alter ego del fascismo, e quindi come un nemico altrettanto spietato che questo), trasformandole in collaborazione con le democrazie antifasciste (1934-38): ciò che si doveva realizzare nei cosiddetti Fronti popolari antifascisti.

Naturalmente, questa inversione di rotta era abilmente mascherata da un linguaggio che sembrava non ammettere cedimenti: l’Internazionale si dichiarava sempre per la dittatura del proletariato (a parole), per la rivoluzione violenta e l’abbattimento del potere borghese (a parole), per la lotta autonoma di classe (a parole). Si dichiarava che la politica del Fronte popolare era un adeguamento tattico, e solo tattico, per fronteggiare una situazione che avrebbe precipitato l’umanità in una guerra mondiale; e, soprattutto, per scongiurare il rischio di un’aggressione nazista alla Russia stalinista che avrebbe messo in pericolo le conquiste del “socialismo in un solo paese” e la sua diffusione nel mondo. Nella realtà, si imponevano ai singoli partiti tutti quei punti tattici e teorici contro cui nei due decenni precedenti si era sviluppata la battaglia da parte dei nascenti partiti comunisti: autonomia sul pianto tattico e teorico, necessità di troncare per sempre ogni legame con i partiti democratici, riarmo non solo teorico del partito e delle sue organizzazioni di classe. La conseguenza della nuova politica dell’Internazionale poteva significare soltanto, agli occhi dei marxisti superstiti, che presto la lotta contro il fascismo avrebbe trascinato i partiti che se ne facevano promotori a diventare strenui difensori dello stato borghese, in nome di una democrazia che, come il fascismo, avrebbe continuato ad usare le armi (polizia, esercito e corpi speciali) in funzione imperialista all’esterno, anticomunista all’interno. Quegli stessi marxisti superstiti dimostrarono, dati storici alla mano, come l’appoggio dato a uno schieramento imperialistico (quello “democratico”) contro un altro (quello “fascista”) non era che la tragica riproposizione della politica collaborazionista della II Internazionale alla vigilia del 1914, contro cui Lenin aveva ferocemente combattuto; che quindi, questa politica non avrebbe potuto in alcun modo scongiurare lo scatenarsi della guerra (ed anzi, l’avrebbe accelerato), mentre avrebbe sancito il definitivo trionfo della controrivoluzione su scala planetaria.

La “dottrina” del Fronte popolare si basa inequivocabilmente sulla rivendicazione, da parte di partiti operai, della difesa della “democrazia” (blocco di partiti e classi) contro il “fascismo”. Che cosa fosse quest’ultimo era spiegato nel 1934 da uno dei massimi dirigenti dell’Internazionale stalinizzata, Dimitrov (e da allora ripetuta in coro fin dalle scuole elementari): “Il fascismo, rappresentando gli elementi più imperialisti, più sciovinisti della grande borghesia nella sua ricerca di soluzione alla crisi per una nuova divisione del mondo […] vuole riunire le forze più reazionarie del mondo borghese per una aggressione all’Unione sovietica” (“La lotta per il fronte unico”, Correspondance Internationale, n.102-103/1934).

Ciò che rimaneva del marxismo di sinistra in Europa si oppose con tutte le forze alla catastrofe dell’abbandono totale del comunismo internazionalista, e ciò anche contro Trotsky – ribadendo che l’unico modo per affrontare la questione sarebbe stato quello della lotta disfattista contro ogni stato borghese, non l’appoggio a questa o a quella “democrazia”. Lo stalinismo riusciva a inoculare nei partiti occidentali l’equazione “democrazia = pace = difesa del socialismo (cioè della Russia)”; ciò che non solo era una bestemmia in bocca a comunisti, ma era criminale nei confronti del proletariato internazionale, in quanto non sarebbe riuscito in nessun modo a evitare il macello mondiale che si avvicinava, e avrebbe definitivamente legato il destino delle lotte a quello di ogni singolo stato nazionale borghese, frantumando tutti i programmi stabiliti, non più di dieci anni prima, dall’Internazionale.

Quando, nel maggio-giugno 1936, la più grande mobilitazione di massa della storia francese fece scendere nelle piazze milioni e milioni di proletari che la crisi economica rendeva sempre più combattivi, l’“unità nazionale”, la “difesa della democrazia”, il “senso di responsabilità” furono la risposta che la tattica del Fronte popolare diede contro ogni tentativo di rinascita di un movimento di classe rivoluzionario autonomo. Ridotto il proletariato al seguito delle sorti della “propria” borghesia nazionale, si spalancava la porta ai venti di guerra che, dall’Africa (1936) alla Spagna (1936-38) si sarebbero presto abbattuti sull’intera Europa.

 

 

22. Esercitazioni per futuri massacri: Spagna 1936

 

 

La politica del Fronte popolare servì in Francia per arginare l’ondata di lotte che percorse il paese tra il 1935 e il 1936. In Spagna, questa stessa politica servì a uno scopo diverso, ma per gli stessi obiettivi. Qui, all’offensiva del grande capitale sotto le bandiere dichiarate del fascismo, si rispose con l’insurrezione operaia armata. La politica antifascista del Fronte popolare venne a costituire la terza via, quella che serve alla borghesia per attenuare il pericolo di una svolta rivoluzionaria, disarmando dal loro interno le organizzazioni che si rivoltano contro il regime borghese. Anche qui, lo stalinismo giocò la funzione di incanalare le lotte in un ambito esclusivamente locale, cioè spagnolo; di trasformare la lotta per rovesciare il potere del capitale in lotta per sostituire un governo borghese con un altro; di indicare, come unico obiettivo della lotta, l’instaurazione della repubblica borghese contro la monarchia. È per questi obiettivi, e non per altri, che migliaia di proletari spagnoli furono mandati al macello in nome del comunismo, che altro non era che la restaurazione dell’ordine borghese.

Nel 1930, la crisi economica e sociale che da anni attanagliava la Spagna di Alfonso XIII aveva richiesto un intervento drastico. Per prevenire un grande sciopero nelle ferrovie, una coalizione di partiti aveva chiesto la testa del re, che fu fatto fuggire in tutta tranquillità nel febbraio del 1931. Le elezioni del novembre 1933 avevano segnato il crollo del partito socialista, che aveva animato i precedenti governi di coalizione. Era subentrato un governo orientato a destra, contro cui si erano dirette immediatamente azioni sindacali “per il ripristino delle libertà democratiche”. Come già in Italia nel 1922, così in Spagna si agitò subito lo spettro del pericolo fascista; e, come in Italia si vollero manipolare le masse per lotte in funzione di un governo “migliore” (Turati-Modigliani), così in Spagna si cercò di manovrare per una rinnovata coalizione social-repubblicana. E, mentre la socialdemocrazia si impegnava nei giochi parlamentari, il governo spediva, senza tante discussioni, l’esercito contro i rivoltosi delle Asturie per schiacciarne il movimento, restato completamente isolato, con migliaia di morti. Chiuso in questo modo il 1934, l’anno successivo era stato un attacco continuo contro una classe operaia disorientata. È in questo quadro che, all’inizio del 1936, la Spagna celebrava il trionfo elettorale del Fronte Popolare, e vedeva subito dopo l’esercito franchista pronto all’intervento militare: tutto lo schieramento del Fronte Popolare non esitava a scendere in campo in nome della difesa della libertà e della democrazia, trovando prontamente appoggio in tutta l’Europa antifascista: pochissimi, inascoltati marxisti tennero allora ferma la consegna del disfattismo rivoluzionario all’interno di ogni stato borghese. Tutti, anarchici compresi, invocarono invece l’invio di armi e soldati da parte dei governi europei per contrapporre a Franco l’antifascismo militante e la conservazione dell’apparato statale democratico.

In questo quadro, l’appoggio dato al Fronte popolare dall’Internazionale e dalla Russia stalinista non fu altro che la prosecuzione della politica controrivoluzionaria di quello stato, ansioso di guadagnarsi un posto di favore tra le potenze europee. La cosa è meglio compresa ricordando che, in quello stesso agosto 1936, a Mosca, si celebrarono i processi contro i massimi esponenti del vecchio partito bolscevico, e che si conclusero con la fucilazione di sedici rivoluzionari, dopo averne estorto le “confessioni”. Allo stesso modo, in Spagna, le armi del Fronte popolare saranno rivolte indifferentemente contro i fascisti di Franco e i numerosi “antistalinisti” che erano accorsi, attratti dalla chimera della difesa della “democrazia”, in nome di un manovrismo tattico che vedeva anche Trotsky tra i suoi primi paladini. Il grande rivoluzionario in esilio aveva da tempo spiegato che, nell’antitesi fascismo-democrazia, si sarebbero aperti dei varchi per una azione proletaria che avrebbe permesso la trasformazione della lotta antifascista in lotta per il potere e per la dittatura di classe. La storia europea, peraltro, aveva già dimostrato, nel decennio precedente, che ogni compromesso interclassista in nome dell’antifascismo avrebbe trascinato i partiti che se ne facevano promotori nel vortice della collaborazione di classe e nella sconfitta. Anche gli anarchici, che in Spagna avevano indubbiamente un seguito considerevole tra le masse contadine, si risolsero per l’intervento in difesa delle libertà minacciate e dello stato democratico borghese.

I pochi marxisti che in Europa ancora si riconoscevano nella linea difesa dalla Sinistra comunista nel decennio precedente (e che si raccoglievano allora, in Francia e in Belgio, intorno alla rivista Bilan) sapevano di difendere un programma che li avrebbe trovati completamente isolati. Mentre tutti gli schieramenti democratici e stalinisti correvano alla costituzione di “Brigate internazionali”, i comunisti di Bilan predicavano l’attualità del disfattismo rivoluzionario in tutti i paesi, la fraternizzazione tra gli schieramenti opposti in Spagna, il ricorso alla lotta di classe anziché a una guerra fratricida, l’opposizione al riarmo di questo o quel fronte borghese, la necessità dell’internazionalismo proletario [4].

E così, mentre a Mosca si celebravano i processi contro i capi della rivoluzione, e in Spagna si correva sotto le bandiere dell’interclassismo democratico antifascista, gli stalinisti italiani pubblicavano, in quello stesso agosto 1936, sul loro organo Lo Stato Operaio, il famigerato articolo “Appello ai fratelli in camicia nera. Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano!”, nel quale i “figli della Nazione italiana” sono invitati a darsi “la mano, fascisti e comunisti, cattolici e socialisti, uomini di tutte le opinioni”, perché si tratta di lottare per la libertà: insomma, “per la realizzazione del programma fascista del 1919”!... [5]

Come stupirsi dunque che quei pochi marxisti superstiti fossero minacciati di morte quando osarono affrontare, in Spagna, la canea democratica esaltata dall’odore della polvere da sparo, per spiegare ancora una volta la necessità di abbandonare la prospettiva del massacro di proletari schierati su due diversi fronti della stessa borghesia (massacro che iniziò il bagno di sangue del 1939-45), e rimettersi sotto le bandiere della lotta di classe e del disfattismo rivoluzionario (che ancora aspettiamo con fiducia da allora)?

 

 

 

23. La seconda guerra mondiale

 

 

Mentre si consuma l’orgia distruttiva della guerra di Spagna, con la vittoria di Franco pochi mesi prima dello scoppio della guerra mondiale, le diplomazie europee sono al lavoro per preparare una carneficina su più vasta scala. L’Internazionale comunista da anni è ridotta o a rifugio relativamente comodo per scampati dal fascismo (soprattutto a Parigi) o a organo di spionaggio a vantaggio dello stato russo. Demolite dalle forze congiunte del fascismo e dello stalinismo le organizzazioni di classe, era inevitabile che ogni forma di lotta riguardasse ormai solo più il conflitto fra stati nazionali, prendendo la forma di reti di spionaggio nelle cui maglie e sotto i cui colpi, non infrequentemente, cadevano soprattutto gli antistaliniani [6]. Il “compromesso di Monaco” (settembre 1938) doveva servire alle democrazie occidentali per acquistare quei pochi mesi che permettessero il completo riarmo degli arsenali, e alla Germania per ottenere una rivincita su quanto le era stato tolto a Versailles nel 1919 e per fare un ultimo tentativo di costruire un’area economica a elevato sviluppo capitalistico nel centro Europa, fra Reno, Danubio e Balcani. Da parte sua, l’accordo russo-tedesco dell’agosto 1939 (il patto Hitler-Stalin) non aveva nulla in comune con il trattato di pace di Brest-Litowsk del 1918. Là si incontravano la diplomazia di uno stato capitalistico in pieno sviluppo e quella del primo stato comunista, che lanciava al mondo l’invito all’internazionalismo proletario; qui scendevano in campo sinistri figuri che si accordavano sulla spartizione di territori e di popoli (Polonia, Paesi baltici, Bessarabia). Di colpo, per ragioni di stato, l’aggressore si trasformava in alleato, la dottrina dei Fronti popolari antifascisti era abbandonata, i partiti “comunisti”, fino ad allora stretti attorno al “proprio” governo democratico in difesa della patria, dovevano scoprire che quel governo era un nemico che celava basse mire imperialistiche ed antisovietiche. Ci vorranno due anni, con l’invasione nazista della Russia (21 giugno 1941), per vedere i partiti stalinisti d’Europa tornare alla vecchia tattica del fronte unico antifascista.

È questo l’infame decennio (1930-40) che costituisce l’humus di cui si è nutrito il movimento partigiano. Questo movimento emerge dal tradimento che i partiti “comunisti” hanno operato voltando le spalle alla classe che li generò nel corso di lotte grandiose che miravano alla conquista del potere in mezza Europa; e ciò hanno potuto fare solo grazie al sostegno di una potenza imperialista – la Russia stalinista – e di una sua ormai inutile appendice – l’Internazionale – che verrà smantellata anche da un punto di vista formale nel 1943.

 
 
 

Le puntate precedenti sono state pubblicate sui nn. ... di questo giornale

 
 
Note

1. E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917-1923. Einaudi 1964, pag. 124 (nostra sottolineatura). [back]

2. Per una dettagliata analisi della Costituzione staliniana del 1936, cfr. quanto riportato negli articoli “Le grandi questioni storiche della rivoluzione in Russia”, Il programma comunista nn.15-16/1955 (ora in Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, ed. il programma comunista 1976, pagg. 41-48); e “Un passo avanti nella confessione della natura capitalistica dell’URSS”, Il programma comunista, n. 14/1977, per un confronto tra le costituzioni russe del 1918, 1924, 1936 e 1977. [back]

3. “La Russia nella storia mondiale, nella Grande Rivoluzione e nella società contemporanea”, Il programma comunista, n.16/1955. [back]

4. Per un approfondito bilancio della Guerra di Spagna, si vedano i nostri articoli “La funzione controrivoluzionaria della democrazia al banco di prova della Spagna, 1930-1939”, Il programma comunista, nn.15, 16, 17, 17/1976. [back]

5. L’intero testo dell’“Appello” è stato ripubblicato all’interno del volume di Bruno Grieco (vera acrobazia di... revisionismo storico, fin dal titolo!), Un partito non stalinista. PCI 1936: “Appello ai fratelli in camicia nera”, Marsilio 2004. [back]

 

6. Tra le numerose vicende, si potranno vedere quelle narrate ad es. in E.K. Poretski, I nostri, Ed. Graphos 1994; e in H. Höhne, La vera storia dell’“Orchestra rossa”, Garzanti 1972. [back]

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2009)

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  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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