DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

L'ennesimo, feroce massacro di proletari palestinesi a opera dell'imperialismo israeliano, con l'attiva e interessata complicità delle borghesie arabe (rappresentate in primo luogo da Hamas e dall'Autorità Nazionale Palestinese) e degli imperialismi europei e statunitense, dichiara una volta di più, con le bombe e con il sangue, che il capitalismo è guerra.

È incessante guerra commerciale ed è incessante guerra guerreggiata: ci dimentichiamo già della Siria e della Libia, dello Yemen, del Mali e del Tigrai, di un'Africa preda degli avvoltoi prima colonialisti e poi imperialisti, di un Medio Oriente insanguinato da decenni, dell'Afghanistan, dell'India e del Pakistan, tanto per limitarci ad alcuni esempi?

Ed è incessante propaganda per la guerra, preparazione alla guerra. Si può sorridere delle navi militari inviate nel Canale della Manica da Gran Bretagna e Francia a tutela dei diritti di pesca, o dei sempre rinnovati bracci di ferro fra Turchia e Grecia, o delle ricorrenti prove di forza da parte delle marine militari cinese e giapponese nel Mar Cinese Meridionale e Orientale. Ma solo inguaribili ottusi non vogliono vedere in questi atti altrettante esercitazioni militari che coinvolgono eserciti potenti, si fondano su interessi economici giganteschi, rimandano a contrasti politici decennali, e potrebbero trasformarsi nella Sarajevo del terzo millennio, nella miccia pronta a innescare l'esplosione generalizzata.

D'altra parte, gli armamenti non sono merci destinate a restare nei magazzini, non possono diventare obsolete: come qualunque altra merce, vanno accresciute, vanno consumate, vanno reintegrate. Di anno in anno, la spesa militare italiana non fa che crescere: è recentissima la decisione di portarla a 24,97 miliardi di dollari per il 2021, con una crescita dell'8,1% rispetto al 2020 e del 15,7% rispetto al 2019 (dati forniti dal Mil€x. Osservatorio sulle spese militari italiane), e a determinarne l'aumento è l'acquisizione di nuovi sistemi d'arma. Altro che Recovery Plan! A livello mondiale, il discorso è lo stesso. I dati SIPRI (Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace, di Stoccolma) sulle spese militari per il 2020 lo dimostrano in maniera lampante: Italia, + 7,5% rispetto al 2019; Germania, + 5,2%; Corea del Sud, + 4,9%; Stati Uniti, +4,4%; Francia, + 2,9%; Gran Bretagna, + 2,9%; Russia, + 2,5%; India, + 2,1%; Giappone, + 1,2%, e via di seguito... Gli inguaribili ottusi chiudono gli occhi e si tappano le orecchie.

Il capitalismo è guerra, è lotta per il predominio sul mercato mondiale! La guerra non rappresenta soltanto il frutto naturale del capitalismo – un frutto velenoso soprattutto per il proletariato in quanto carne da cannone – , necessario di volta in volta a ridare impulso a una economia che, perduto lo slancio espansivo trasmesso dalla ricostruzione postbellica, ricade per l’ennesima volta nella palude della sovrapproduzione. Il capitale vive in funzione della guerra, nella stessa misura in cui essa è funzionale alla crescita del profitto alla sua stessa sopravvivenza. Così, i focolai si moltiplicano: non appena uno sembra spegnersi, se ne accendono altri due, altri tre. Basta ripercorrere i settantacinque anni che ci separano dalla fine del secondo macello mondiale per rendersene conto. Ingrediente centrale di quest'incessante realtà è dunque la preparazione alla guerra in cui, senza sosta, sono impegnate le borghesie di tutti gli stati nazionali. È una preparazione che si attua a livelli diversi. L’ideologia dominante, attraverso tutti i suoi canali (la scuola, la stampa, i media, la famiglia, la chiesa di ogni confessione, la politica a tutti i livelli, il linguaggio comune), non fa che veicolare immagini di guerra, ce la fa sentire vicina anche quando si dichiara “pacifista”, ci abitua a essa: si pensi alle dinamiche che sono state sviluppate in quest’anno di pandemia, fra “coprifuochi” e appelli all’“obbedienza”, il virus come nemico da combattere, il ricorso ai militari in vesti diverse, e via di seguito. Credere-obbedire-combattere: com’è diventato d’attualità lo slogan mussoliniano!

Il richiamo all’“unità nazionale” s’è fatto più frequente e insistito e prepara di lunga mano quell’union sacrée che, in due guerre mondiali (e nelle guerre infami che da subito le hanno seguite), ha permesso il macello di intere popolazioni in nome della “patria aggredita”, della “lotta alla barbarie”, dell’“esportazione della democrazia”, dell’eliminazione del “cattivo di turno” (fino a poco prima, socio in affari!)... Il nazionalismo in tutte le sue forme, quello democratico come quello sovranista (due facce della medesima medaglia: il dominio di classe), non fa che riempire le pagine di giornali e gli schermi dei computer, dei telefonini, delle televisioni. Ma non è solo una questione di linguaggio. In tutti i paesi si sta facendo uno sforzo enorme (e anche da questo si sente l’avvicinarsi di uno scontro bellico non locale) per fornire al proletariato l’illusione di uno stato sociale da difendere con i denti contro il nemico: lo si è visto in maniera lampante nel passaggio dal burattino Trump (“America First”) al burattino Biden (il “New New Deal”), entrambi impegnati a esaltare la Nazione e lo Stato in quanto fonti di benessere per tutti, e proprio in quanto tali potenzialmente minacciate e dunque da difendere. A questo fine, il proletariato non solo va sempre più represso e disciplinato: va anche comprato, messo nelle condizioni disperate di doversi vendere alla Nazione, allo Stato.

Le tragiche vicende medio-orientali (il periodico sussulto di sanguinaria distruzione) sono esemplari al riguardo: da una parte e dall’altra, abbiamo un proletariato ostaggio e massa di manovra di interessi non suoi, esaltati e difesi da consorterie religiose, per il quale arruolarsi è l’unico modo per campare e far campare intere famiglie prive di altre fonti di sostentamento. I sanguinosi eventi che si rinnovano periodicamente in quell’area e che tanto affliggono le impotenti anime belle costituiscono la raffigurazione concreta del destino tragico del proletariato sotto le armi: la creazione di mercenari, di automi assassini, per i quali l’esercito equivale allo Stato e alla Nazione e, di conseguenza, garantisce un minimo di Benessere Sociale.

Tutto ciò è emblematico delle difficoltà che il proletariato dovrà affrontare per rompere con ogni forma di subordinazione allo Stato e alla classe dominante. I proletari palestinesi dovranno scrollarsi di dosso la bastarda ideologia nazionalista che da decenni li manda al massacro, spesso (dis)armati di sassi e bastoni, per il miraggio, eternamente rinnovato su mucchi di cadaveri e di macerie, di una Patria, che li sfrutterebbe selvaggiamente al pari di ogni altro capitalismo nazionale. Il composito proletariato d’Israele (ebraico, arabo-israeliano, immigrato dall’Africa e dal sub-continente indiano) dovrà scendere in lotta contro lo Stato che già lo spreme come qualunque altro Stato borghese, respingendo ogni osceno ricatto religioso, ideologico, politico e militare e schierandosi senza esitazioni a fianco del proletariato palestinese in lotta. Ma soprattutto spetta al proletariato euro-americano fare un balzo in avanti: uscire dalla diffusa paura e passività e rompere una volta per tutte con le proprie borghesie, con le illusioni sparse a piene mani dai riformisti d’ogni specie, sindacali e politici, di destra come di “sinistra”, orientandosi nella lotta verso un fronte proletario internazionale che abbia finalmente come obiettivo l'abolizione delle nazioni e delle patrie.

La ripresa classista dovrà scontrarsi con tutte queste barriere: nazionali, ideologiche, etniche, religiose, economiche. Dovrà abbatterle e rivolgere le armi contro il vero e unico nemico: il modo di produzione capitalistico.

Noi comunisti non siamo pacifisti. Per scongiurare l’ennesimo conflitto mondiale che si prepara, è necessario dichiarare guerra a tutte le borghesie e in primo luogo alla propria borghesia, ritornando a praticare il disfattismo rivoluzionario in tutte le sue forme: il rifiuto attivo e combattivo di riconoscersi in un’unità nazionale che pretende di essere al di sopra delle classi.

Sì, è una strada ardua e accidentata, tutta in salita, anche perché il peso della controrivoluzione che ci opprime da decenni e decenni è ancora paralizzante: un autentico macigno. Ma sappiano i proletari che, come sempre, noi comunisti siamo al loro fianco nell’inevitabile guerra di classe. Che dovrà sprigionarsi e dilagare se non vogliamo ricadere una volta di più nel tritacarne mostruoso di un terzo conflitto mondiale.

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  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
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