DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Una parola e un concetto sono circolati in maniera ossessiva negli ultimi mesi del 2020, amplificati nel solito modo rintronante da mezzi di comunicazione di massa letteralmente scatenati: “Unione”, “Ritrovare l’unità”, e via di seguito. Il neo-Presidente degli Stati Uniti promette “una rinnovata unione del Paese”; il Presidente della Repubblica Italiana auspica “un Paese unito per sconfiggere il virus”; alla morte di due celebri giocatori di calcio, i suddetti mezzi di comunicazione dedicano inarrestabili fiumi di parole al ruolo che i due avrebbero svolto nell'“unire” città e nazioni intere; il sindaco di Milano si ricandida per un nuovo mandato presentando la lista che lo sosterrà: “Milano Unita”... Altri esempi seguiranno, a farci attenzione.

Togliamo il grasso rancido della miserabile retorica. Cogliamo la sostanza: si tratta di espliciti appelli all’unità nazionale. Di fronte alle molte facce della crisi (economica, sociale, sanitaria) del modo di produzione capitalistico, l’ideologia dominante s’è mobilitata per ribattere la necessità urgente di affasciarsi tutti insieme, in difesa dello status quo, a sostegno del potere, del Capitale. Non a caso abbiamo usato il verbo affasciarsi: sottolinea il significato e il contenuto di questa operazione, che non è nuova, ma si situa in piena continuità con ben note e sperimentate dinamiche riformiste e conservatrici, squisitamente anti-proletarie, sviluppatesi sull’arco di tutto il ‘900.

Il lavoro continuo della classe dominante con tutti i suoi strumenti di dominio, di controllo e di imbottimento dei crani va in quella unica direzione: negare che esistano interessi che non siano quelli “superiori” in cui tutti debbono riconoscersi, inoculare a tappeto il senso di un’appartenenza collettiva (allo Stato, alla Nazione, alla Società Così Com’è: in una parola, al Regno del Capitale), contro ogni possibile tentazione di rottura.  Tanto per usare la terminologia corrente in questi mesi, è una sorta di vaccinazione di massa ideologica mirante a un’immunità di gregge contro quel nemico storico che ha nome lotta di classe! “Siamo tutti nella stessa barca! Dobbiamo tutti remare nella medesima direzione, altrimenti affonderemo!”. Questo linguaggio non ha mai smesso di risuonare sull’arco di tre secoli di dominio borghese, ma acquista forza e urgenza proprio di fronte allo svolgersi e all’approfondirsi di una crisi economica e sociale che non è mai rientrata dopo la botta durissima del 2008-9 e che promette di disegnare nell’immediato scenari ancora più drammatici.

La classe dominante ha buona memoria: sa che cosa possono significare quegli scenari. Giusto centocinquant'anni fa, la Comune di Parigi ha dimostrato nei fatti che le fratture sociali, la lotta di classe più o meno dispiegata, l’aspirazione a una società diversa sono una conseguenza inevitabile del modo di produzione capitalistico; pochi decenni dopo, la Rivoluzione d’Ottobre l’ha ribadito e proclamato al mondo intero, facendo tremare i pilastri della beata società del Capitale e del Profitto. Così, la classe dominante è costretta a insistere nel cercare di drogare i suoi becchini (Manifesto del Partito Comunista) con il mito degli “interessi comuni”: la proclamata unione interclassista fa la forza del Capitale.

C’è un altro, più inquietante risvolto. Quest’unione anti-proletaria serve ad anticipare uno scenario particolare, una dinamica congenita al dominio borghese, specie in epoca imperialista: la preparazione a una futura guerra di dimensioni mondiali. Serve a rilanciare la prospettiva dell’union sacrée, di quella “sacra unità nazionale” con cui le varie borghesie hanno mobilitato, in chiave  interclassista, la “nazione” contro il “nemico” di turno, nella Prima guerra mondiale come nella Seconda. E se, intorno alla prima, quest’unione è stata contestata, messa in discussione, incrinata da moti proletari culminati infine nel movimento rivoluzionario che ha dato origine all’Ottobre Rosso, nella seconda – una volta distrutta dall’interno oltre che dall’esterno l’avanguardia rivoluzionaria, l’Internazionale Comunista – ha avuto buon gioco nel rinnovare il massacro di milioni di proletari, nel nome di una nuova patria, magari “socialista”, nel nome della “democrazia contro il mostro nazifascista”.

Gli appelli all’“unione di tutti contro la malattia”, all’“unità di tutte le forze della Nazione”, che risuonano oggi sono dunque le lugubri avvisaglie del domani che si prepara. Sono un aspetto cinico della preparazione alla guerra che si dispiegherà sempre più, di pari passo con l’acuirsi di contraddizioni insolubili. Ormai quasi un secolo di feroce controrivoluzione, manifestatasi sotto una varietà di maschere (liberal-democratica, nazifascista, staliniana, post-fascista), ha avuto l’effetto di celare alla vista dei più la realtà innegabile della frattura di classe, dell’inconciliabilità degli interessi, sia immediati (la sopravvivenza) sia storici (la società senza classi), fra borghesia e proletariato. Ma questa frattura, questa inconciliabilità di interessi, esiste, genera il movimento (non sempre consapevole) della nostra classe. La si coglie nel luogo di lavoro con lo sfruttamento sempre più intensificato e crudele sotto la pressione delle crisi ricorrenti; nella condizione materiale di milioni e milioni di disoccupati, sotto-occupati, espulsi dal processo produttivo, marginalizzati, ridotti a esercito industriale di riserva per mantenere bassi i salari e così ricattare chi ha ancora la “fortuna” di vendere la propria forza-lavoro al Capitale; nella multiforme oppressione quotidiana delle donne proletarie; nel ricatto schiavizzante dei migranti proletarizzati provenienti da ogni angolo del mondo; nella massa crescente di giovani senza prospettive e senza futuro e di anziani buttati nelle discariche sociali perché inutili alla produzione di profitto; nelle asettiche ma eloquenti statistiche dei morti e dei malati di lavoro; nei derelitti e senza-casa vittime della speculazione edilizia; in tutti coloro che sono privati di assistenza sanitaria o sono usati come cavie a uso e consumo del business farmaceutico; nei milioni e milioni di vittime di guerre locali o regionali scatenate dal Capitale in disperata ricerca d’ossigeno per la propria sopravvivenza… Ed è confermata, questa frattura di classe, dalla tragica constatazione che quest’ultima malattia corre e devasta prevalentemente i luoghi di lavoro, infuria nei quartieri urbani sovraffollati dove si ammassano i proletari. Vogliamo continuare l’elenco?

Altro che “unione”, altro che “unità”! Questa frattura sociale e questa inconciliabilità d’interessi hanno accompagnato la società capitalistica fin dalla sua nascita, per tutta la sua storia. Saranno i fatti stessi, fatti materiali e non miserabile retorica di regime, a mostrare in maniera drammaticamente evidente questa frattura, questa inconciliabilità. “La storia [scritta] di ogni società finora esistita è storia di lotte di classe. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta” (Manifesto del Partito Comunista, Capitolo I, “Borghesi e proletari”).

Sono gli stessi borghesi a sapere (proprio per esperienza storica) che questa lotta di classe, “a volte nascosta, a volte palese”, esiste. Uno di questi borghesi, infatti, fra i più noti e con le mani in pasta, ebbe a proclamare, nel 2006: “È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo” (Warren Buffet). Pane al pane e vino al vino.

Anche noi siamo per una unione, ma la nostra unione è e sarà l’unione dei proletari in lotta, di un proletariato che non smette di crescere in numero e, quindi, in forza potenziale e di battersi per difendersi, oggi come sempre, dal continuo sfruttamento del Capitale. Le lotte, nel mondo, ci sono: solo i ciechi e i rinnegati non lo vedono, non vogliono vederlo. Sono, purtroppo, lotte isolate, circoscritte, limitate nel tempo, di proletari abbandonati a se stessi e continuamente traditi da sindacati di regime e da partiti da decenni schierati a difesa del “migliore dei mondi possibili”. Ma sono lotte. “Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma la unione sempre più estesa degli operai”. È questa l’unione a cui noi lavoriamo, a contatto e tra i ranghi della nostra classe, nei limiti delle nostre forze: non un artificio ideato a tavolino, non un pateracchio tra forze politiche diverse e divergenti, ma sempre riformiste, ma l’accumulo delle esperienze di lotta che i proletari vanno facendo, tra effimere vittorie e dolorose sconfitte, sul campo del conflitto di classe, della guerra di classe.

È questa l’unione a cui noi lavoriamo. E affinché la quantità si trasformi in qualità, è necessario un elemento, un reagente, in grado di far precipitare questa reazione. Questo reagente può solo essere il partito comunista: un partito la cui unità non è data dall’accorpamento di gruppetti, da fronti, da tendenze o da coordinamenti di frammenti sparsi, ma dall’aderenza a tutta un’esperienza storica, a un necessario bilancio, lucido e rigoroso, delle vicissitudini del movimento operaio e comunista internazionale sotto la pressione delle successive ondate controrivoluzionarie che l’hanno colpito decennio dopo decennio, a un programma unico e vincolante. Il limite della gloriosa Internazionale Comunista (uno dei fattori che la portarono al disastro e contro il quale la nostra corrente lottò, mettendola sempre in guardia) fu l’aver provato a fondere insieme, seppure al calor bianco dell’ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra, frazioni aventi origini e impostazioni diverse. Rifluita l’ondata, sopravvenne la disgregazione, organizzativa e teorico-politica.

È solo su questo bilancio che si può operare per unire, sul piano politico (“ogni lotta di classe è lotta politica”!), le avanguardie proletarie in lotta: non un “mostro di Frankenstein”, ottenuto mettendo insieme membra disparate di cadaveri putrefatti dal loro stesso opportunismo, ma un’organizzazione salda e ancorata ai principi, alla teoria, al programma, alla tattica, del comunismo, in grado di guidare i proletari contro la forza unitaria del Capitale.

Allora sì che si potrà capovolgere l’azzardata previsione di Warren Buffet: e la lotta di classe, presupposto necessario a uno scioglimento rivoluzionario e alla presa del potere da parte del proletariato internazionale diretto dal suo partito, la staremo vincendo noi. La vinceremo noi!

 

Febbario 2021

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