DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Riapertura delle fabbriche, dei cantieri e delle varie attività lavorative! L’ordine è stato impartito: si ritorna alla catena! Dopo il breve periodo di pausa, il lavoro nelle fabbriche, mai del tutto interrotto, può riprendere alla grande: l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro ricomincia, con il distanziamento dei lavoratori, provvisti di mascherine, nelle postazioni e nelle aree “ventilate”. Che si tratti di “schiavitù salariale” o di devastazione dei corpi in tempo di pandemia, per il capitale è indifferente: l’impunità, per la classe dominante in quanto tale, è sempre un diritto indiscutibile.  L’appropriazione di pluslavoro (la reale virulenza del capitale) in tutte le ventiquattro ore, significa usurpare il tempo indispensabile al corpo per la crescita, per lo sviluppo e per la sua sana conservazione. Significa rubare il tempo per respirare l’aria libera e godere della luce del sole. Significa ridurre il sonno necessario per mantenere, rinnovare, rinfrescare le forze vitali.

A rischio calcolato, il capitale pretende, sempre e comunque, per sé, l’impunità chiamando “eroi”, in tempo di guerra, le truppe proletarie massacrate, i civili caduti sotto i bombardamenti, la forza lavoro sfruttata nelle fabbriche e nelle diverse attività lavorative e con esse le masse umane dei vecchi, carcasse ormai fuori produzione.

In tempo di “pace” (ma quale pace?), mentre domina la paura di morire, di ammalarsi negli ospedali, di schiantarsi nelle fabbriche, di bruciare nelle acciaierie, di accasciarsi nei supermercati e nella logistica per sfinimento, tutti vengono trasformati appunto in “eroi”, con tanto di medaglie appuntate sul petto – medaglie di tolla, medaglie che non costano niente.

“Lavoro, lavoro, altrimenti si muore di fame!”, si protesta. In realtà, di coloro che si ammalano non importa niente a nessuno. Al capitale non interessa infatti quanto duri la vita della forza lavorativa: quel che gli sta esclusivamente a cuore è il massimo di forza lavorativa che può utilizzare in una giornata di lavoro. La lista di infermieri e di medici uccisi per il virus capitalistico si allunga così come la lista delle morti in fabbrica e degli ammalati. Intanto, le multinazionali e la Confindustria gridano allo scandalo: pretendono lo “scudo penale” contro il rischio di essere chiamati in giudizio per i contagi, gli infortuni, le nocività, le vittime dovuti al “mancato rispetto delle prescrizioni di legge”. Pretendono che sia rispettato il Testo Unico sulla Sicurezza del lavoro: quel testo che non ha mai, in nessun caso, salvato i lavoratori dai cosiddetti infortuni (leggi: omicidi) sul lavoro: lo attestano le migliaia di morti l’anno. E per questo pretendono di avere le mani sciolte dalle responsabilità penali.

Non si tratta semplicemente degli effetti letali sulle condizioni fisiche e psichiche dei lavoratori: si tratta del lavoro in quanto tale, del lavoro usurante, di quello a ciclo continuo, delle attività a contatto con materiali e sostanze tossiche – lavori dannosi alla salute, in ambienti malsani e non ventilati, o troppo caldi o troppo freddi, nei quali sono stati imposti nuovi turni che comportano anche orario notturno.

Da settimane, gli industriali e tutta la massa di figure soffocanti (i media, gli “esperti”, i politici) martellano sulla richiesta di impunità: “gli imprenditori hanno già abbastanza problemi, non possono rischiare di essere trascinati in tribunale”, spiegano. “Il decreto Cura Italia ha previsto una depenalizzazione della responsabilità dei datori di lavoro e anzi li ha esentati dall’aumento dei premi assicurativi previsti nel caso di aumento di infortuni nella propria azienda”, leggiamo su Il Manifesto del 16 maggio 2020. L’Inail si è detta “favorevole allo scudo penale”, precisando che “i criteri per l’erogazione delle prestazioni assicurative ai lavoratori, che hanno contratto il virus […] sono legati al rispetto delle norme a tutela della salute e della sicurezza”. E aggiunge: “il dare copertura Inail al lavoratore non significa che ci sia responsabilità del datore di lavoro” (?!).

I principi e la prassi del Testo Unico e di tutti i testi applicativi non consentono di condannare nessun imprenditore per omicidio o lesioni colpose – conclude sempre l’Inail – “quando egli rispetta le regole precauzionali” (sic!). I datori di lavoro agitano questioni strumentali inesistenti, cercano di nascondere la realtà e mirano a ottenere solamente un “privilegio incostituzionale”, quando invece si tratta di impunità vera e propria. Una tutela effettiva delle condizioni di vita e di lavoro implica un costo di produzione che nessun datore di lavoro è intenzionato a pagare: dunque, non sarà mai garantita una protezione adeguata. Non basta una pur necessaria riduzione drastica delle ore di lavoro: gli ambienti di lavoro saranno sempre pericolosi per l’integrità fisica e psichica dei lavoratori.

Se si vuole far pesare la forza, “occorre aggiungere l’azione di lotta organizzata e generalizzata degli operai volta ad interrompere e bloccare in ogni istante la produzione, ovunque sia segnalata la condizione anche teorica, di probabilità di rischio” (dal nostro opuscolo Per la difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari.). Non esiste fatalità negli incidenti sul lavoro: esiste un calcolo del rischio aziendale, messo in preventivo. Il distanziamento fra i lavoratori per difendersi dal contagio non può bastare, come non potranno mai bastare le mascherine, né i respiratori in un ambiente tossico: il “polmone della fabbrica” è sempre infetto. Occorre battersi, al contrario, imponendo “in ogni momento un’azione unitaria dall’esterno che scavalchi la valutazione tecnica improvvisata o quella imposta dalla direzione imprenditoriale, che si avvale di tecnici, di medici, di professionisti, di psicologi, di avvocati… normalmente ben pagati dall’azienda” (idem). L’azione di sciopero e picchettaggio non basterà mai a impedire l’attacco padronale e a sostenere le necessità e i bisogni della classe. In tutte le circostanze, le nuove malattie professionali, come minimo, devono essere riconosciute, le pensioni devono essere rivalutate insieme all’assistenza medica, alle ferie e alla gratuità delle cure, oltre al pagamento a salario pieno dei giorni di malattia per tutte le categorie.

E soprattutto i lavoratori non devono assolutamente essere partecipi di iniziative aziendali comuni di “controllo sull’ambiente di lavoro”: nulla deve essere condiviso con gli imprenditori perché nulla gli è dovuto. I due compari, Confindustria e Cgil, scoprono a turno le loro carte. “Occorre cambiare il modello contrattuale”, dice l’una. “Dobbiamo rinnovare il contratto di lavoro, qualificare la contrattazione, riprendere il discorso sulla rappresentanza con i problemi nuovi (riduzione degli orari e nuovi diritti a chi lavora da casa)”, risponde l’altro.

Si ricomincia, dunque.

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