DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nei mesi precedenti l’estate, abbiamo assistito (come già riportato su queste pagine) a tre assemblee virtuali promosse da alcuni sindacati di base (di cui il più rappresentativo è il S.I. Cobas), che, partendo dalla crisi economica e sanitaria, tentano di costruire un fronte comune di lotta. A leggere i comunicati finali, questo fronte è stato infine creato, ha un nome (“Patto d'azione”) e una piattaforma rivendicativa (1); e le organizzazioni che vi aderiscono giurano all'unisono che si atterrano a tale piattaforma, sicure, ognuna di loro, che il raggiungimento di tali obbiettivi creerà un nuovo movimento di classe (!) anticapitalistico tale da contrastare il “padronato e il governo”.

 

Naturalmente, noi non neghiamo le ragioni economiche e politiche all'origine di un simile tentativo, come non neghiamo la necessità di formare un ampio fronte di lavoratori e lavoratrici che si coordinino e lottino all'unisono contro il perenne attacco della borghesia. E riconosciamo la valenza e la portata delle lotte di questi anni nel comparto della logistica, che sono state un esempio (peraltro, purtroppo inascoltato) per la nostra classe. Affermare questo è un fatto, ma cosa diversa è la soluzione che si tenta di mettere in campo (e che svilisce e fa arretrare proprio l'esperienza della logistica, facendole fare un enorme passo indietro), destinata om’è a portare all'ennesimo nulla di fatto, a una sconfitta.

Da sempre noi comunisti lavoriamo per l’organizzazione di un unico sindacato forte e compatto che riunisca sotto le proprie bandiere la maggioranza dei lavoratori. Da sempre noi comunisti lavoriamo perché, pur in assenza di un’organizzazione simile, maturi almeno nel conflitto un fronte di lavoratori, un fronte dal basso, che superando le sigle organizzative e le condizioni contingenti del singolo proletario (occupato, precario, sottooccupato, disoccupato), della fabbrica, del comparto produttivo, tenda a riunire la maggioranza della classe in un’azione di difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Ma lavorare per un tale fronte è una cosa, promuovere una sommatoria di mille sigle delle più svariate origini è un’altra.

La faccenda non è certo nuova e accompagna la storia della classe proletaria fin dai suoi esordi. Constatavamo nel 1919, cent’anni fa, anni di grandi lotte operaie e di scontri con padronato e Stato: “Una convinzione molto diffusa, perché rivestita dalle ingannevoli apparenze del solito buon senso, è quella che l'unità delle organizzazioni economiche del proletariato sia una condizione favorevole o addirittura indispensabile per il successo della Rivoluzione” (2). E ancora: “Il sistema di associarsi nell'azione prescindendo dalle differenze di programmi è un luogo comune che incontra molto favore, specie se associato alle abituali declamazioni contro le teoriche, ma esso non è che un motivo demagogico peggiore di molti altri, e suscettibile di introdurre nell'azione maggior confusione, ma non maggior efficacia” (3). Cent’anni fa: la critica attiva di allora funziona ancora contro la pratica erronea di oggi.

Mentre sullo sfondo permangono, irrisolte, le classiche questioni di un secolo fa, la situazione, nel frattempo, è molto cambiata e certo non in meglio. Quasi un secolo di controrivoluzione ha distorto e falsato, nella pratica e nel sentimento della nostra classe, la base dottrinale e strategica della teoria rivoluzionaria comunista: a ondate sempre più eclettiche e miserelle, della originale teoria marxista è rimasto ben poco nel corpo della classe. Anche dal punto di vista organizzativo si è assistito a una polverizzazione di sigle facenti capo ad altrettanti inossidabili condottieri. Così, se all'inizio del '900 si poteva parlare di quattro, cinque grandi sindacati, oggi se ne contano a decine; se allora esistevano un solo partito comunista e gli anarchici (senza partito per definizione, e ancora ben presenti), oggi le sigle politiche non si contano più. E questa dispersione, crediamo, complicherà i piani ai nostri… “Pattisti”.

Il Patto si autodefinisce, con tanto di logo, “anticapitalista”. Potrebbe sembrare un inizio col botto e certo questo è stato lo scopo del grafico. Ma nella realtà è sufficiente questa auto-definizione per segnare già profonde crepe nel Patto. Qui, l'aggettivo “anticapitalista” viene utilizzato proprio per la sua genericità ed evanescenza: in questo attributo, si possono riconoscere un amplissimo raggio di forze politiche, che vanno dal campo anarchico fino ad alcuni partiti borghesissimi ma che ancora si dipingono con ombreggiature di “socialismo”. Succede così che il “campo anticapitalista”, da apparente uovo di colombo che sintetizza l'ascendenza e la risposta comune contro questo sistema, si trasformi nel macigno insuperabile su cui il “Fronte” andrà a sbattere. Come abbiamo evidenziato: “Il problema è teorico: cioè è un importantissimo problema pratico di domani.” (4)

“Anticapitalisti” si definiscono gli anarchici, che pensano che, dopo un breve periodo di sollevazione generale, la nuova società potrà fiorire senza Stato, fondandosi sulla piccola produzione cooperativistica. “Anticapitalisti” sono il socialista, il riformista, l'opportunista, l'operaista, tutti coloro che, con gradi e distinguo diversi, credono (almeno in origine!) che, attraverso una via legalitaria benché conflittuale, sia possibile trasformare la presente società e approdare pacificamente al socialismo – almeno questo in origine, dicevamo, poiché oggi sono solo un caleidoscopio di posizioni quasi inestricabili, un ginepraio nefasto con il quale viene soffocata la classe operaia. “Anticapitalisti” si dicono gli stalinisti ed ex-stalinisti orfani del “socialismo reale”, convinti di aver appoggiato il “vero socialismo” (o almeno l'unico possibile), con le loro Patrie Socialiste, le loro Resistenze, i loro Partiti-Stato, con l'esaltazione dell'Operaio-Stakhanov, che deve sgobbare… nelle fabbriche “socializzate”. “Anticapitalisti” si dichiarano i trozkisti, all’eterna ricerca di una rappresentanza istituzionale dentro o fuori i partiti riformisti, sempre pronti romanticamente ad appoggiare ogni “stormir di fronde”, forse rivoluzionari in cuor loro, ma eternamente dubbiosi (e dunque impotenti) circa la preparazione rivoluzionaria del proletariato e la prospettiva del suo dominio di classe. “Anticapitalisti” si dichiarano gli autonomi, i disubbidienti, i no global, gli “occupy”, tutti convinti che l'unica strada perseguibile sia l'“agire”, lo scontrarsi, il “resistere”, oltre che (naturalmente) il “gestire economie” attraverso… circuiti virtuosi: in apparenza sono i più facinorosi, ma negli anni hanno ben preso le misure alle istituzioni, specie quelle territoriali, e tra un manganello e una carica non disdegnano una politica di compromesso con la borghesia, non molto convinti di passare a “un’altra economia”, a “un’altra società”, preferendo piuttosto, in questa, gli “spazi liberati” più o meno temporaneamente. “Anticapitalisti” si dichiarano tutti i sindacati di base dei lavoratori e quelle sigle territoriali “di sinistra” generatesi in difesa dalle svariate nefandezze prodotte dal capitale nelle metropoli come nelle provincie – spesso sigle settoriali che si identificano cioè con pochi settori lavorativi (se non con un unico settore): a discapito del loro “anticapitalismo”, in realtà questi sindacati non possono che essere uniti a doppio filo con lo Stato: in primo luogo, per il fatto che i loro iscritti sono prevalentemente “dipendenti” del Pubblico Impiego dove hanno avuto origine e terreno fertile per crescere; in secondo luogo, per la forma di finanziamento passivamente accettata (dalla “trattenuta sulla busta paga” alla figura del “distaccato sindacale”) e attivamente cercata attraverso l’offerta di servizi come “patronato” e “CAF”. Nessuno di questi sindacati, neppure il più grande di essi, l’USB, riesce a organizzare in un modo che non sia una sommatoria di interessi di categoria, lavoratori provenienti da diversificati ambiti lavorativi: dunque, rimangono marginali. Potremmo arrivare a dire che “anticapitalisti” si dichiarano anche i monarchici, una parte dei cristiani, i jiadisti e perfino alcune frange del neofascismo 3.0… Ma è meglio fermarsi qui.

Quanto a noi, siamo sì “anticapitalisti”, ma lo siamo in quanto siamo, essenzialmente, comunisti: ovvero, lavoriamo perché la nostra classe si prepari e sia pronta, quando le condizioni economiche, sociali, politiche, lo imporranno, a distruggere la dittatura della borghesia e a imporre il proprio dominio per liberare l’umanità dall’abominio del modo di produzione capitalistico.

 

L'appello del “Patto d’azione” prosegue poi con il seguente ragionamento: la crisi in corso è profonda nelle dimensioni e nell'estensione e ciò porterà già in autunno all'esplosione delle lotte; noi anticapitalisti dobbiamo farci trovare preparati; ergo, dobbiamo “serrare le nostre fila, mettendo in primo piano ciò che ci unisce rispetto a ciò che ci divide”; uniti sapremo resistere e forse contrattaccare. Questa infine la morale.

Ma in questa lotta, in cui inizialmente, al di là del desiderio, tutte le avanguardie potranno intervenire solo marginalmente, ciò che permetterà sia le vittorie parziali che (ben più importante!) la ripresa dopo le sconfitte e forse la vittoria finale è la compattezza del fronte. È questa la necessità inderogabile, sia per ciò che concerne la conduzione “pratica”, organizzativa e quotidiana delle lotte sia per ciò che concerne la strategia a medio e lungo termine – l'obbiettivo reale del conflitto in atto e l'obbiettivo ultimo, “anticapitalista”.

Nel quotidiano, la sterile discussione, il rivaleggiare fra le sigle, la sovrapposizione degli obbiettivi, la confusione organizzativa determinano tentennamenti nella forza di conduzione della lotta: l'effetto sicuro di un convivio così ampio di forze risulterebbe nel depotenziamento delle lotte stesse. In prospettiva, non appena la classe proletaria dovesse, a seguito di una lunga stagione di scontri con il padronato e con lo Stato, mettere sul piatto della bilancia la consapevolezza della necessità d’impadronirsi del potere politico, il “fronte” crollerebbe fragorosamente e drammaticamente sotto le proprie contraddizioni. E allora che fine farebbe il proletariato che avesse lottato permettendo a tutte le organizzazioni, nel frattempo, di disquisire, una volta che la disfatta fosse manifesta?

La forza che si vuole sfruttare oggi (e che più d'una di queste “componenti” ostenta come fosse “cosa propria”) è quella espressa dalle lotte degli ultimi 15 anni nel settore della logistica. Di queste lotte si può dire che: 1) i “facchini” hanno mostrato alla classe come si lotta, quale conduzione, coraggio e abnegazione sono necessari per contrastare i padroni e le forze repressive dello Stato; 2) hanno spezzato uno dei capisaldi pratici, ma anche teorici, della strategia sindacal-padronale, rompendo centinaia di volte il perimetro della fabbrica, attuando lo sciopero di solidarietà, l'unificazione delle lotte, la solidarietà attiva di operai di diversi magazzini; 3) sono infine lotte, se non internazionali, internazionaliste: se pur condotte sul territorio nazionale, la composizione dei lavoratori della logistica è profondamente “multietnica”.

Vero: la cosa vale anche per molti altri comparti produttivi. Ma il fatto che questi lavoratori abbiano costantemente contrastato i propri padroni con così alto grado di determinazione fa di ognuno di loro, in potenza, un “seme gravido”, che prima o poi potrebbe attecchire nelle terre d'origine... E, se quest’esperienza è stata ed è ancora confinata in un solo settore, la responsabilità non può essere ascritta ai lavoratori del comparto: semmai segna il ritardo della ripresa classista e mostra a che cosa portano la divisione e la concorrenza reciproca delle sigle sindacali.

Le lotte dei facchini sono un esempio e un’esplosione di lotta: ma la lotta di classe, anche nel suo aspetto immediato di lotta economica, è tutt’altra cosa. Oggi, non esiste una massa sufficiente in movimento, non assistiamo a lotte di lunga durata e generalizzate. La nostra classe “italiana” ancora langue. Potremmo assistere ad accelerazioni, e in tal caso si potrebbe accendere la fiamma della lotta di classe. Ma affermare, a qualunque titolo, che la fiamma è, già oggi, accesa è pericoloso e fraudolento.

Utilizzare questa esperienza, svendendola al “banco dei pesci” del “ciò che ci unisce”, significa far fare cento passi indietro ai risultati ottenuti nelle lotte. Vuol dire dilapidare, sull'altare dell'illusione della conquista delle “masse” (antica e ritrita illusione massimalista), l'unico genuino movimento di classe degli ultimi anni.

 

L'operazione, consapevolmente o inconsapevolmente di svendita riformista, è purtroppo già iniziata. Infatti, la piattaforma recita, al primo dei punti unificanti: “I costi della pandemia siano pagati dai padroni. Imporre una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della popolazione per recuperare almeno 400 miliardi di euro”.

Questo slogan, sbandierato in molti interventi telematici, costituisce un campanello d'allarme: è un primo passo verso… l'evanescenza e il riformismo. In primo luogo, nell'utilizzo del verbo che regge la proposta: “imporre”. E chi dovrebbe imporre ciò? I lavoratori in lotta, l'opinione pubblica delle masse e, già che ci siamo, della “gente”, il Popolo, le forze politiche extraparlamentari o quelle parlamentari, il “Patto d'azione”? Chi? Perché credere che, allo stato attuale, la classe operaia possa imporre alcunché è perlomeno azzardato. Ammettiamo pure di sbagliarci e che, in autunno, un ampio e storico movimento della classe sorga dalle contraddizioni presenti e si costituisca in una forza tale da poter imporre alla borghesia questo salasso. A un tale punto di potenza, dovremmo dunque “imporci di imporre” solo il 10%? Perché non il 15 o il 20%? Perché non utilizzare la forza delle masse per imporre la rivoluzione e la trasformazione socialista della società? Ci si potrebbe semplicemente rispondere che il movimento non sarebbe pronto a un simile “salto” politico e che, in questa fase, far pagare i padroni sarebbe il massimo raggiungibile. E sia: ammettiamo che le cose stiano cosi. Ma è un fatto che la demagogia esploda alla luce del sole. Chi dovrebbe infatti gestire questi denari, frutto di questa grande lotta? I governanti al potere? La macchina burocratica-repressiva dello Stato? Le regioni, le province, i comuni? i sindacati, i “Pattisti”? No, questo slogan è solo un vuoto slogan e può servire solo alle macchine propagandistiche di alcune sigle “partitiche” che aspirano al Parlamento e solo da esse sarebbe sfruttato nella propaganda elettorale.

Per i lavoratori e le lavoratrici della logistica che, nel loro agire e sentire, hanno già dato inizio a quel distacco materiale dalle compatibilità aziendali, territoriali e nazionali, ciò segnerebbe un arretramento verso posizioni compatibili e legalitarie. Per gli altri, segnerebbe un ulteriore anello nella catena delle aspirazioni del riformismo, frutto dell’alleanza a sinistra di piccola borghesia e aristocrazia operaia.

Nulla vieta che nel vivo della lotta si possano trovare delle alleanze, anche ben strutturate e coordinate, con forze anch'esse presenti nella lotta. Nulla vieta di percorrere un tratto di strada comune fra forze così diverse. A patto però che le differenze programmatiche, strategiche e organizzative siano ben visibili e rimarcate. Auspicabile sarebbe invece la scomparsa e/o la fusione di tutte le piccole sigle sindacali in un unico organismo rappresentativo, che tentasse in questo modo di spezzare anche organizzativamente il confinamento dei più in singoli settori. Insomma, sono di certo auspicabili e da promuovere tutte le azioni che scaturiscano dal basso, dalla necessità della lotta economica – un “patto” tra lavoratori in lotta, che coinvolga e promuova la solidarietà attiva fra proletari dello stesso territorio, e fra territori. Ma non un “patto” fra sigle, di tutte le origini e di tutti gli orientamenti che aspirano a creare la lotta, a “doparla” al di là delle sue stesse reali forze, per scopi che stanno fuori dalla lotta medesima.

Se pur interagenti, la lotta di difesa economica e la necessaria chiarificazione politica sono due processi non coincidenti, e più si opera per farli innaturalmente coincidere più si crea confusione. La prima dinamica ha il suo motore nelle lotte vere, nella capacità di coordinarle e promuoverle, di sostenerle, e nel vincerle almeno una volta in più dei padroni (e i facchini e i loro sindacati di base, almeno per tutto un primo periodo, hanno dimostrato che ciò è possibile), e NON nelle aspirazioni a lotte che potranno venire o che ci immaginiamo che già ci siano. La seconda trova un elemento discriminante nel grado di estensione delle lotte stesse, perché solo nella lotta generalizzata le diverse posizioni trovano un terreno che le può dimostrare corrette o meno.

L'atteggiamento più serio che le forze politiche presenti nel “Patto” dovrebbero tenere è di non illudersi su ciò che li unisce, ma nell’avere il coraggio di mettere sul tavolo tutto ciò che li divide e, alla fine, assicurata una selezione, trovare tra i sopravvissuti almeno una prospettiva di azione sindacale comune. Un tale processo, che naturalmente nell'attualità è puramente fantasioso, avrebbe fatto fare, alle avanguardie operaie rappresentate dai facchini e dunque al resto della classe, un passo in avanti.

In ultima analisi (e come unico obbiettivo serio di un movimento genuinamente classista), come si può pensare seriamente di costruire un organismo efficace ed efficiente di stampo addirittura politico se oggi non si è neppure capaci di lavorare per un organismo sindacale unitario come necessaria sintesi per una risposta coerente all'attacco della borghesia?

La classe operaia nazionale e internazionale, l'umanità tutta, non ha più molto tempo: nubi cariche di tragedia si addensano al nostro orizzonte e alcune aree ne sono già investite. Essa non ha bisogno di illudersi ancora della paccottiglia tardo-borghese, del cascame intellettualistico piccolo-borghese. Ha la necessità di tornare sul palcoscenico della vita politica con la rottura della alleanza inter-classista e il ritorno alla lotta generalizzata. Ha bisogno, per sostenere un così enorme ed epocale scontro, non di ridicoli, parziali e spesso inconsistenti obbiettivi, ma deve ritrovare nuovamente la prospettiva della lotta per la rivoluzione socialista, per la società comunista.

“È la somma che fa il totale”, ringhiava Totò a un attempato impiegato. Noi mestamente aggiungiamo: “Isoliamo gli addendi, prima di tirare il totale”!

 

NOTE

1) http://sicobas.org/2020/05/14/italia-per-un-fronte-unico-anticapitalista-avanti-con-il-patto-dazione-sintesi-dellassemblea-del-9-5/.

2) “L’errore dell’unità proletaria. Polemica a più fronti”, Il Soviet, n° 24, del 1/6/1919, oggi in Storia della sinistra comunista, vol. I, pag. 357.

3) “Il fronte unico rivoluzionario”, Il Soviet, n° 25 del 15/6/1919, oggi in Storia della sinistra comunista, vol. I, pag. 360.

4) Idem.

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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