DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.



Il convegno di Imola non credette opportuno di pronunciarsi sull’atteggiamento che la nostra frazione dovrà tenere nel caso che il voto del Congresso Nazionale ci ponga in minoranza, e non volle farlo più che altro per non contraddire al suo carattere di convegno radunato per un lavoro di frazione per organizzare la conquista della maggioranza del partito e del Congresso.

D’altra parte, come Gramsci osservò, il Convegno aveva la sensazione di preparare, colla sua opera, più che una vittoria di Congresso, la costituzione di un nuovo Partito. E il vero obiettivo di tutto il nostro intenso lavoro è proprio questo. Occorre dunque tener presente che una questione così importante come il costituirsi in Italia del partito comunista non sarà giudicata in ultima istanza dalla maggioranza del Congresso Nazionale; è anzi dopo il voto di questo che se ne potrà direttamente affrontare la soluzione. Gli elementi di essa sono in tutta l’esperienza e la preparazione politica della sinistra del partito attuale – del partito di sinistra, anzi, tra i due che finora insieme convivono – e più ancora nel contenuto di programma e di azione della Internazionale comunista.

Antidemocratici anche in questo, non possiamo accettare come ultima ratio l’espressione aritmetica della consultazione di un partito che non è un partito. Il riconoscimento della giustezza della opinione espressa dalla maggioranza comincia dove comincia l’omogeneità di programma e di finalità: non lo accettiamo nella società presente divisa in classi, non nel senso del “proletariato” dominato necessariamente dalle aggressioni borghesi, non nel senso di un partito che comprenda troppi elementi piccolo-borghesi, ed oscilli storicamente tra la vecchia e la nuova Internazionale, e non sia quindi, nella sua coscienza e nella sua pratica, il “partito di classe” di Marx.

Ed allora dobbiamo prospettarci da ora tutte le eventuali situazioni al domani di un voto che non dovrà e non potrà interrompere lo sviluppo continuo della nostra azione verso quel fondamentale obbiettivo. Premettiamo una considerazione nella quale è appunto il risultato importantissimo del Convegno di Imola. I comunisti voteranno la loro mozione, nel testo già deliberato dal convegno, senza accettare di introdurvi modifiche e attenuazioni sia pur minime. Se vi saranno elementi oscillanti tra noi e gli unitari, noi non faremo alcuna concessione per accaparrarci i loro voti. Non resta dunque che esaminare le due ipotesi che nella nostra mozione si raccolga la maggioranza oppure la minoranza dei voti.

Sia nell’uno che nell’altro caso noi dobbiamo farci guidare dalle medesime direttive. Il vero bivio al quale si trova il movimento proletario italiano non è tra la politica di Reggio Emilia e la politica del comunismo: il bivio si presenta tra il nostro programma d’azione e quello degli unitari social-comunisti. Benché questi ripetano di divergere da noi solo per secondarie valutazioni, ma di essere sullo stesso tronco programmatico, la realtà è che la destra fa la sua politica con le loro mani; un riformismo puro se si delineasse sarebbe tosto livragato, mentre lo sforzo dei riformisti si esercita secondo le leggi della minima resistenza, cioè mirando alla permeazione del loro metodo nel grosso del partito pletorico sotto l’etichetta di tendenze intermedie.

Non esiste, tra unitari e riformisti, un taglio netto. Tutta la loro argomentazione in questo vivacissimo fervore di dibattiti è quasi comune. Gli unitari difendono ovunque tutta la politica della frazione di destra e soprattutto quella della Confederazione del Lavoro. Essi sottolineano che la loro epurazione del partito da qualche destrissimo, è sullo stesso piano della epurazione dai sinistrissimi.

Un’altra prova: un argomento favorito dagli unitati è quello di battere contro il contegno e l’opera, da Bologna ad oggi, della attuale direzione del partito, per imputare ad essa gli insuccessi rivoluzionari della azione del proletariato italiano, scagionandone i riformisti, quasi che politicamente, storicamente – a parte la posizione presa oggi personalmente dai vari membri di essa – la Direzione attuale non fosse la esecutrice della maggioranza massimalista e unitaria di Bologna, capitanata da Serrati. Gli unitari non vedono che la Direzione non ha potuto fare una politica schiettamente massimalista appunto perché non si poteva farla sulla equivoca base unitaria. Essi non si accorgono di recare così argomenti contro la loro tesi e contro il loro passato politico, e non se ne accorgono perché in realtà vanno facendo proprie tutte le posizioni polemiche del riformismo contro il massimalismo in genere, come è anche provato dal fatto che tutto il problema delle condizioni e possibilità rivoluzionarie essi le pongono così come i destri. Una parte della maggioranza massimalista va dunque oltre Bologna, l’altra rincula dalle posizioni di Bologna, e l’abisso s’apre tra loro.

Tra unitari e comunisti il taglio è netto, aspro, la discussione talvolta violenta oltre misura. Questo preciso distacco non è per nulla attenuato da quelle sfumature diverse che possono esservi tra gli estremisti e che vanno utilmente integrandosi nella elaborazione di una migliore coscienza in tutti del metodo da seguire uniti e compatti. Le discussioni locali mostrano ovunque schierati in due campi opposti i comunisti e gli unitari dietro i quali mal differenziati manovrano i destri. Non è strano che sia così. Come la borghesia delega la sua difesa nei momenti critici al riformismo, così il riformismo, quando perde terreno fra le masse, si sforza di delegare la sua funzione contro-rivoluzionaria a quel centrismo, etichettato da comunismo di destra, che vediamo all’opera in tutti i paesi. La sensazione precisa che si ha oggi assistendo alle assemblee ed ai congressi di Partito è che sono proprio i comunisti e gli unitari quelli che si separeranno per sempre, quelli la cui convivenza è divenuta impossibile.

La conclusione è questa: noi dobbiamo tendere a formare un partito comunista non influenzato da quella politica equivoca che oggi si afferma sulle tesi della unità del partito, non diretto in collaborazione con gli esponenti dei comunisti unitari di oggi. Lenin ci dice questo molto bene nel suo articolo e questo dev’essere il nostro aperto obbiettivo.

Io non auguro che tutti i comunisti unitari si distacchino da noi per fare coi riformisti il partito socialdemocratico o indipendente dato che la nostra situazione è almeno tanto matura quanto quella tedesca. I comunisti unitari, gli indipendenti nostrani, devono nella loro massa essere sbloccati, mettendo a riposo i loro leaders.

Perciò se noi saremo maggioranza, colla sicura applicazione della nostra mozione d’Imola li sbloccheremo dando l’ostracismo ai destri e ai destreggianti, e assicurando tutti gli organi direttivi del partito esclusivamente alla tendenza comunista estremista.

Ma se saremo minoranza? Noi non potremo subire né la situazione di un partito diretto da unitari, né quella di una direzione in comune tra noi ed essi. Il nostro compito di frazione è finito. Con la attuale concentrazione dei gruppi estremisti del partito sulla base delle delibere di Mosca, del nostro programma, della nostra mozione, e con questa ultima lotta interna nel Partito col riformismo e con le sue indirette manifestazioni si apre il compito nostro come partito. Noi non resteremo, per riprendere il duro lavoro di persuasione ed immobilizzare noi ed il proletariato fino ad un altro congresso. E nemmeno faremo il delittuoso sproposito di affidare il movimento proletario italiano alla direttiva mista ed imprecisa tra il comunismo ed il centrismo; questo sarebbe il trionfo della tesi unitaria, già condannata in Italia e nella Internazionale.

Ed allora balza evidente la soluzione logica, coraggiosa e tatticamente squisita della immediata uscita dal partito e dal Congresso appena il voto ci avrà posti in minoranza. Ne seguirà, sotto norme da noi segnate, lo sbloccamento del centro: anzi io penso che questo nostro importante obbiettivo potrà, in questo caso, essere meglio raggiunto.

Prepariamoci dunque a questa soluzione: oltre a tutto essa è l’unica che possa corrispondere alle direttive della Internazionale, ed è quindi fuor di luogo supporre che questa non ci approverebbe, e rinviare per questo un atto che, ritardato, perderebbe tutti i suoi effetti benefici e positivi.

Io penso che i gruppi della frazione dovrebbero affrontare questo problema, e dire qualche cosa al proposito ai loro delegati al Congresso. Su questa base però: la nostra frazione, che è il nocciolo di un partito vero e vitale, non potrà e non dovrà, in nessun caso dividersi e si moverà a ragion veduta, tutta in un blocco, come un uomo solo. Sono sicuro che in questa attitudine ci troveremo concordi alla quasi unanimità.

Guardiamo dunque bene in faccia la situazione e sappiamo assumere tutte le responsabilità. Quella che conduciamo è una battaglia senza quartiere contro tutte le esitazioni e tutti gli equivoci.

(Il Comunista, n. 6, 19 dicembre 1920)



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