DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La Direzione del partito socialista, tenuta dai massimalisti che dalle votazioni di preparazione del congresso apparivano ancora i rappresentanti di una stentata maggioranza, ha lanciato un manifesto politico.

Una delusione, per chi fosse stato ancora capace di farsi illusioni sul conto dei capi socialisti massimalisti.

Il rinvio senza data del congresso socialista, la cessazione del dibattito per il congresso, il tono di questo scialbo documento, dimostrano che in seguito agli avvenimenti la situazione nel partito socialista è cambiata, la preveduta scissione non avverrà più.

Tutto questo perché i riformisti, pur restando quelli che sono con tutto il loro bagaglio di programma e di tattica, sono stati messi nella condizione di non poter collaborare, pur volendolo e avendo trascinata alle ultime dedizioni la bandiera del loro partito, e avendo puntata nel loro gioco ministeriale la pelle del proletariato.

Nessuna sanzione quindi colpirà coloro che avevano ribellato il gruppo alle sanzioni del partito, e mandato Turati al Quirinale. Poiché essi, dopo essersi promessi, non potranno consumare la colpa ardentemente anelata.

È il vecchio equivoco per il quale noi abbiamo sempre detto, alla vigilia del congresso socialista di Milano come adesso, che il massimalismo socialista italiano è più pericoloso del riformismo, anche quando grida contro le estreme conseguenze del secondo.

Quando la Internazionale comunista chiedeva al partito socialista di rompere con D’Aragona e Turati, non faceva una quistione di persone, ma applicava le ragioni fondamentali del suo programma, quelle che chi scrive prospettò inutilmente fin dal congresso di Bologna. Con una organizzazione rivoluzionaria sono incompatibili tutti gli elementi socialdemocratici, ossia quelli che negano il contenuto essenziale del comunismo: l’azione armata delle masse, la dittatura proletaria. Non è necessario che questi elementi per meritare la eliminazione dai partiti della Terza Internazionale, attuino la tattica parlamentare della collaborazione. Questo è un ulteriore stadio della quistione, che per il movimento proletario italiano era risolto fino da Reggio Emilia, dal 1912.

Quindi anche la garanzia, dimostratasi fallace, di un rispetto alla intransigenza da parte della destra del partito italiano, non la rendeva, come i serratiani sostennero a Mosca e a Livorno, degna di stare in un partito comunista. Il fatto stesso che i massimalisti ragionassero in tal modo dimostrava che non erano comunisti, e che obiettivamente, in se stessi considerati, dovevano essere eliminati dalle file della Internazionale. Si intende che qui parliamo di capi e di metodi, non della ingannata massa dei loro seguaci, che troverà la sua via attraverso tante dolorose esperienze.

Che i riformisti italiani si siano poi rivelati per la sottospecie collaborazionista dell’opportunismo socialdemocratico, è un’altra riprova della giustezza delle previsioni comuniste, ma è al tempo stesso la riprova della giustezza della soluzione di Livorno, che ci ha felicemente divisi dall’altra sottospecie socialdemocratica: il centrismo sterile e pacifista, impersonato dai serratiani.

Quanto ora accade sta a dimostrare la giustezza di questo inquadramento del problema. Due volte è sembrato che tra le due correnti opportuniste stesse per avvenire una rottura, perché i riformisti erano decisi a collaborare al governo, e il massimalismo ha bisogno della sua intransigenza cogliona per seguitare a speculare su motivi demagogici che coprono la sua esasperante incapacità all’azione di classe. Ma non è mai venuta dal gruppo serratiano altra critica del riformismo che quella riguardante la tattica parlamentare. Purché si osservi alla Camera una posizione di intransigenza, è lecito fare il pacifismo e il disfattismo della lotta di classe, svolgere una propaganda di denigrazione di tutti i valori rivoluzionari, firmare anche concordati con i rappresentanti del fascismo: ed infatti in tutto questo è comune la responsabilità dei capi massimalisti.

Se i riformisti avessero dichiarato che per disciplina rinunziavano a collaborare, il massimalismo avrebbe loro perdonato. Ma si è andato più oltre. I riformisti non solo hanno rinunziato alla loro tattica, ma per realizzarla hanno consumato il maggior dei loro delitti contro la causa proletaria e solo per la incommensurabile loro inettitudine sono stati buttati fuori con una meritato ceffone dalle soglie dei ministeri di Sua Maestà: ebbene, ridivengono per questo degni militi del glorioso e intransigente P.S.I.

E infatti il manifesto socialista non dice nulla sulle responsabilità dell’ultimo movimento, su quello che deve farsi per dare all’azione proletaria una base esente dalle deficienze terribili che l’Alleanza del lavoro – lasciata dalla complicità massimalista al predominio dei collaborazionisti – ha rivelato. Per questi problemi non occorrono congressi e dibattiti. Il massimalismo è soddisfatto che non si farà un ministero con Modigliani o Turati. Tutto è qui.

I lavoratori del P.S.I. comprendano la lezione. In realtà il gruppo dei capi di sinistra del P.S.I. non lottava contro i riformisti che per assicurarsi le sue posizioni personali di dominio del partito, che ha condotto a tanta rovina. Solo il fatto esteriormente scandaloso e chiassoso della salita al potere sollevava la loro indignazione, perché la realizzazione di esso avrebbe smascherata la loro sconfitta. Ma tutto il resto, ossia la consumazione di tradimenti del proletariato molto peggiori del collaborazionismo, il quale se i suoi stessi fautori non lo avessero fatto naufragare idiotamente, sarebbe stata la minore delle malefatte del riformismo italiano, tutti gli altri nefasti dei controrivoluzionari annidati nella Confederazione del lavoro e nell’Alleanza del lavoro, tutto questo il massimalismo accetta di coprirlo con la sua complice omertà, perché non ne scaturisce necessariamente la sua andata in pensione.

A questo pensino gli stessi lavoratori socialisti. Se essi non aprono gli occhi, e non si volgono ai programmi e ai metodi del partito comunista, e non imparano a conoscere tutte le forme dell’inganno opportunista, di cui le peggiori sono le più ammantate di dermagogia, la riscossa verso cui tutti i nostri sforzi si tendono, sarà impossibile.

Fortunatamente, pur nelle asprezze della situazione odierna, tutto dimostra che la somma formidabile di tradizioni e di esperienze classiste del proletariato d’Italia è stata salvata in tempo, e lo è stata sotto la bandiera del partito comunista, che nessuna tempesta farà mai piegare.

 

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