DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

L’atteggiamento dei partiti opportunisti, in particolar modo del Partito Comunista Americano, nei riguardi delle rivolte nere tende allo scopo essenziale di mistificare il reale carattere di classe di queste sommosse di fronte agli occhi dei proletari bianchi (ed anche negri) americani e di tutto il mondo. Così viene ribattuto il tasto della rivolta razziale e questa versione è servita ai proletari in tutte le salse.

La liberazione dei negri, incompiuta all’epoca di Lincoln e della guerra di secessione un secolo fa, dovrebbe essere portata a termine oggi, e il compito del movimento dei negri dovrebbe essere di ottenere la famosa integrazione la quale dovrebbe eliminare i confini fra le razze e dare a tutti i cittadini gli stessi diritti.

«L’America non è mai riuscita a diventare una vera comunità», strillano gli opportunisti, come se l’Italia, ad esempio, o uno qualsiasi degli Stati moderni fosse una vera comunità.

Ma quello che non deve apparire chiaro agli sfruttati, perché altrimenti l’esempio potrebbe essere contagioso, è appunto il fatto che il fronte della lotta non è di razza, ma di classe e che sono appunto gli strati più bassi del proletariato americano a muoversi per gli stessi obbiettivi per cui si sono mossi e si muovono in Europa gli operai italiani o tedeschi o francesi; contro i salari di fame, contro la crescente disoccupazione, contro il carnaio della guerra del Vietnam, ecc..

E quel putrido involucro di pretta marca stalinista che è il P.C.A. non ha saputo chiedere agli operai bianchi se non di effettuare delle fermate del lavoro per discutere sulle “conseguenze della rivolta dei negri” proprio nel momento in cui Washington bruciava e nelle strade delle principali città americane si sparava contro i neri in rivolta.


Origine di classe della situazione dei negri americani

Già durante la guerra di secessione Marx chiariva che lo scopo primo della grande borghesia industriale del Nord non era quello di liberare i negri in senso generica, ma quello di abbattere il monopolio terriero dei grandi proprietari del Sud e di rendere disponibile (liberare nel senso storico in cui la borghesia ha liberato i contadini in Europa) per l’industria una numerosa manodopera a basso prezzo trasformando i negri in salariati.

Una nuova schiavitù sostituiva all’antica: la schiavitù del lavoro salariato, comune a tutti i proletari ma particolarmente gravosa per i negri messi nella condizione di costituire in permanenza l’esercito di riserva dei disoccupati, per la situazione stessa in cui essi erano avviati al lavoro.

Alla fine della guerra, la previsione di Marx si realizza puntualmente: i negri strappati dalle piantagioni emigrano al Nord per lavorare nelle fabbriche, e se una parte rimane al Sud, scollegata da qualsiasi possibilità di lavoro, si trasforma in una massa sottoproletaria accampata nelle bidonville.

Da questo momento, la questione negra cessa di essere una questione di razza per divenire una questione sociale.

Che a lungo non siano stati riconosciuti ai negri nemmeno i diritti civili, che effettivamente si sia tentato di giocare sul colore della pelle e sui sentimenti razzisti della piccola borghesia e anche del proletariato bianco, come sul sottoproletariato dei “poveri bianchi” nelle città e nelle campagne del Sud, che questo odio sia stato per un secolo e venga tutt’oggi coltivato anche nelle masse non meno sfruttate dei negri – dei portoricani, degli italiani, dei cinesi – nulla toglie al fatto che lo sfruttamento a cui i negri sono sottoposti sia uno sfruttamento capitalistico, e che la questione sia quindi di classe e non di razza.

La borghesia ha sempre bisogno di dividere con ogni mezzo gli sfruttati per mantenere il suo dominio di classe, e a questo scopo è disposta ad usare qualsiasi possibilità, a fomentare il nazionalismo, il razzismo, l’antisemitismo, ecc.

Nel caso dei negri la discriminazione era molto facile ed era favorita dal fatto che, sbattuti dall’oggi al domani sul mercato del lavoro, senza nessuna riserva, senza nessuna pratica del lavoro industriale, costretti a mutare le loro secolari abitudini in un lasso di tempo particolarmente breve, si prestavano molto bene alla politica dei bassi salari dei lavori peggiori, più umili e perciò peggio retribuiti e meno sicuri: questo portava come conseguenza immediata la creazione dei famosi ghetti di cui tanto si parla e che non sono altro che le zone peggiori, più malsane, più malandate e che perciò costano meno, comuni a tutte le città del mondo, dove si ammassano la classe operaia e gli strati sottoproletari.

Per vedere un ghetto “negro” non occorre andare negli Stati Uniti, basta andare alle porte di Torino o di Milano, o visitare le baracche in cui vivono gli emigrati italiani in Svizzera o in Belgio o dove vivono i lavoratori algerini in Francia.

Anche contro questi operai che non hanno la pelle nera, ma che si trovano a lavorare nelle stesse condizioni dei lavoratori negri americani, si attua la politica di divisione fomentata dalla borghesia capitalistica la quale vuole che l’operaio italiano peggio pagato sia odiato dall’operaio svizzero specializzato e che l’operaio algerino sia disprezzato e sputacchiato dall’operaio francese, come ieri, e non solo in Germania, ma in tutto il mondo, si aizzavano gli operai tedeschi o americani o russi a sputare sul proletario ebreo.

Che la questione stia in questi termini lo dimostra il fatto che fra gli stessi negri esiste una feroce divisione in classi. Anche se la loro stragrande maggioranza è costituita da proletari e semiproletari, non manca certo una piccola borghesia bottegaia o dedita alle professioni liberali, che sfrutta all’osso il proletariato dei ghetti e contro cui giustamente si rivolse la collera dei proletari negri l’estate scorsa.

Non manca nemmeno una grande borghesia nera, interessata quanto quella bianca allo sfruttamento di manodopera a basso prezzo qualunque sia il colore della pelle.

Anzi, tutti questi strati non proletari costituiscono la base specifica del movimento per i diritti civili e per la integrazione razziale: è logico che il negro possessore di denaro chieda di avere gli stessi diritti del capitalista bianco e di essere ammesso con gli stessi titoli al grande banchetto dove si consuma lavoro non pagato estorto ai lavoratori sia bianchi che neri!

Le corbellerie dei maoisti

È chiaro che se, come noi sosteniamo, le rivolte dei negri americani altro non sono che il movimento degli strati più sfruttati del proletariato americano, i quali accendono le polveri della battaglia di classe proprio nella più munita cittadella del capitalismo mondiale, le teorie maoiste sulla guerra popolare, sull’accerchiamento delle città da parte delle campagne, sui popoli rivoluzionari, ecc. vengono schiacciate dal fatto stesso che quel movimento sia esploso, ed assumono il loro vero carattere di utopie piccolo-borghesi basate, da un lato, sulla teorizzazione delle rivoluzioni anticoloniali, dall’altro, sulla sfiducia nella possibilità rivoluzionaria del proletariato.

Sembra quasi che la storia abbia voluto ancora una volta divertirsi a mettere in ridicolo le corbellerie dei grandi uomini e, mentre fa del “non violento” Luther King una vittima della violenza, e vede i suoi seguaci altrettanto non violenti pronunziare e attuare minacce di violente rappresaglie, mette il Presidente Mao, “più grande marxista di tutti i tempi”, in contraddizione con sé stesso facendo scoppiare un violento moto di classe proprio là dove mai egli se lo sarebbe aspettato: in quelle città che secondo lui dovevano essere accerchiate e cannoneggiate dalla circostante campagna, in seno a quel popolo che il grande duce cinese aveva irrimediabilmente bollato come reazionario.

Se poi è vero quello che i cinesi hanno sostenuto in un loro appello al Nord Vietnam perché continui la lotta: cioè che gli americani vogliono trattare la pace con Hanoi perché le loro contraddizioni interne e le tensioni sociali provocate dalla rivolta dei negri impediscono loro di continuare la guerra, questo mette in luce che, dove non sono riusciti a battere l’imperialismo e a fermare il macello i famosi “aiuti” cinesi, riuscirà forse una semplice impennata del proletariato americano il quale farà saltare la base stessa da cui parte l’aggressione al Vietnam.

E questo conferma la tesi da noi sostenuta che solo il collegamento fra la lotta di classe del proletariato e la lotta dei popoli coloniali contro la dominazione mondiale dello stesso padrone, il Capitale, avrebbe dato a questi ultimi l’unica possibilità di vittoria, e che sono mille volte traditori della causa del Vietcong coloro che, pur gridando Viva il Vietnam, sabotano la lotta del proletariato europeo e americano e gli impediscono l’uso della violenza di classe, la sola che possa fermare la guerra.

(Il Programma Comunista, n.10, 1968)

Essenza piccolo-borghese di “Potere Nero”

Ma se il movimento nero è un movimento di classe e non di razza, mal si accordano con esso i dirigenti del cosiddetto Potere Nero. Anzi, il senso in cui il movimento viene instradato è perfettamente contrario agli interessi di classe del proletariato americano, e negro in particolare, perché toglie ogni reale possibilità di vittoria al movimento stesso e ne fa solo un combattimento di disperati in perpetua quanto inconcludente rivolta.

La rivolta dell’estate scorsa ha fatto acquisire ai proletari neri la nozione della violenza: tutti si sono convinti sulla propria pelle che bisognava rispondere con il ferro e con il fuoco al bestiale sfruttamento capitalistico, fonte continua di macelli e di guerre in cui il compito di farsi scannare a maggior gloria della patria tocca sempre ai proletari. I dirigenti pacifisti e non violenti, i sostenitori della pacifica integrazione sono stati cacciati dalla folla inferocita al grido di “zii Tom”. Luther King stesso, il principale sostenitore della non violenza, e la cui morte ha provocato la rivolta attuale, non perché i negri seguissero le sue direttive ma perché hanno visto colpito in lui uno dei loro, era stato sonoramente fischiato e messo da parte fin dall’estate scorsa, e la marcia pacifista dei netturbini di Memphis con la quale egli voleva riproporre la lotta pacifica si è trasformata nella violentissima rivolta attuale.

Spazzati via dalla rivolta stessa i dirigenti non violenti, si sono sostituiti ad essi gli elementi del Potere Nero, movimento che nel suo nome stesso indica tutto un programma. Questi dirigenti sostengono la necessità della violenza nei confronti della oppressione a cui è soggetta la comunità nera, ma non vedono le radici di classe del movimento e della stessa oppressione. Essi sostengono perciò che lo sfruttamento a cui sono soggetti i neri americani è uno sfruttamento di tipo coloniale e che la società americana è imbevuta di razzismo, il che è perfettamente vero, ma è solo una conseguenza del fatto che la società americana (come quella italiana, francese, tedesca o russa, signori opportunisti!) è una società capitalista e come tale usa tutti i mezzi, razzismo compreso, per sfruttare meglio il lavoro umano.

Da questa definizione che Carmichael e compagni danno alla situazione dei negri negli Stati Uniti discendono importante conseguenze per la direzione in cui dovrà muoversi la lotta, e prima di tutto la concezione unitaria e monolitica della comunità nera. Non si vedono cioè le divisioni di classe che scindono in campi avversi questa stessa comunità, anzi si tende a superarle in vista della creazione di un grande fronte che veda i neri contro i bianchi, contro la “società bianca”, come dicono i dirigenti del Black Power.

Naturalmente, se lo sfruttamento dei neri è uno sfruttamento coloniale, si pone anche per loro la questione della conquista della indipendenza nazionale, o meglio, dato che in America questo è impossibile, di “contestare” la “società bianca”. E questo potere è inteso nel senso più riformistico e democratico del termine e non ha nulla a che vedere con la rivoluzione. Si tratta di acquisire un potere all’interno della società americana e dello Stato americano attraverso la formazione di un partito nero autonomo, e la sua vittoria, o comunque una sua affermazione elettorale. Nel campo economico si tratta di “far sbrigare ai neri gli affari dei neri” di dare loro una certa autonomia nell’ “amministrazione” ad esempio dei fondi assistenziali messi a disposizione dallo Stato.

Risulta chiaro che la direzione del movimento nero è nelle mani della piccola borghesia, la quale, nella sua confusione riformistica, non può che condurlo in un giro vizioso e senza possibilità di soluzione perché dimentica, per dirla con Harrington, che “il nero è sì povero perché è nero, ma, cosa forse più importante, è nero perché è povero”. In questo apparente paradosso è racchiusa l’essenza di classe dello sfruttamento a cui sono sottoposti i proletari negri americani.

Ancora molto resta da dire su questa questione, anche perché riveste una importanza fondamentale come primo movimento violento che scoppia nella più terribile roccaforte del capitalismo mondiale.

Queste note non vogliono essere altro che l’inizio di un lavoro che è importante impostare.

 

(Il Programma Comunista, n.11, 1968)

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