DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La vampata di odi razzisti (o, come pietosamente dicono i gazzettieri, di “rivolta negra”) di cui è teatro il Nord degli Stati Uniti ha messo a nudo in forma drammatica l’inconsistenza dei miti sui quali si reggeva la finzione dell’onorabilità del “sistema americano”.

Nella mitologia storica degli USA, la guerra civile era stata combattuta dalla civiltà (incarnata dal Nord) contro la barbarie (incarnata dal Sud), dalla cultura contro l’oscurantismo, dalla filantropia contro il bieco dominio dei negrieri. Il capitalismo industrializzatore degli Stati settentrionali non era sceso in guerra contro l’arretrata economia agraria del Sud per difendere la propria libertà di sfruttare una gigantesca riserva di forza-lavoro incatenata alla zolla di terra: no, aveva preso le armi per difendere ed affermare gli eterni principi di libertà eguaglianza e fratellanza.

I negri fuggiranno in parte nel Nord; li attirava il miraggio di una libertà e di un’eguaglianza fraterna come premio ed effetto della guerra civile. Si ritrovarono liberi, si, ma di vendere la propria forza-lavoro inerme, liberi di essere soli e nemmeno protetti dal costume che imponeva al negriero di usare, certo, la frusta ma di nutrire, vestire e mantenere il più possibile in vita il fustigato.

Non furono più legati alla patriarcale farm del padrone, ma divennero servi degli ingaggiatori di manodopera a buon prezzo, degli organizzatori della concorrenza fra operai e del crumiraggio, dei proprietari di orribili stamberghe in spaventosi quartieri sovraffollati. La borghesia illuminata si commuoveva (e avrebbe avuto ragione di farlo se fosse stata sincera) del ghetto ebraico, ma costruiva il suo ghetto negro, la sua Harlem, e ne faceva il paradiso di bottegai-strozzini, di usurai, di trafficanti in carne maschile e femminile, di spacciatori di stupefacenti religiosi e di marijuana.

Non erano frustati, ma una lenta macina li logorava, un meccanismo sottile ribadiva ai loro piedi l’antica catena. Erano manovali semplici, ma, se al bianco non qualificato era possibile varcare la barriera del mestiere, al negro il salto era impossibile: al ghetto delle abitazioni si univa il ghetto delle qualifiche professionali, e, poiché i nuovi immigrati di colore erano inermi, indifesi, sospettati, sperduti in un mondo indifferente od ostile, a parità di condizioni i manovali di colore scoprirono che il loro salario era meno della metà (oggi, dopo tanto progresso, è salito al... 57%!) di quello dei fratelli non di colore: al ghetto del mestiere si aggiungeva il “ghetto del reddito”.

Vigeva la fratellanza, nel Nord. Ma a condizione che i “fratelli” neri non invadessero i sacri recinti della supremazia bianca, che viaggiassero in vagone separato, che mangiassero ad un tavolo diverso, che “imparassero” in scuole tutte per loro, le più squallide, le più sprovvedute, che vivessero nel recinto di slums maledetti. Erano eguali solo nella galera della fabbrica, nel senso che erano sfruttati tra sfruttati; ma anche lì un’invisibile barriera li rendeva più miseri, più maltrattati, insomma più schiavi.

Secondo la stessa mitologia, la giganteggiante “civiltà” borghese prodotta dall’industrializzazione capitalistica riconosceva diritti eguali a tutti i cittadini americani, e possedere questi diritti era sufficiente perché i negri fossero in realtà eguali ai bianchi.

Oggi, si riconosce che, ad un secolo dalla vittoria della “civiltà” sulla “barbarie” nella guerra civile, neppure sulla carta l’uguaglianza dei diritti giuridici è ancora assicurata, mentre lo stato dei fatti dimostra che, per possedere in realtà la parte incompleta di eguaglianza che le nuove leggi “garantiscono loro”, i negri devono ricorrere alla forza bruta contro le forze dell’ordine che dovrebbero proteggerli e contro la violenza di cui ogni istituzione americana è imbevuta.

Il mito voleva che la barriera di colore fosse il prodotto non di cause sociali, ma di fattori morali e intellettuali; che nascesse da un’insufficiente “illuminazione” e “moralizzazione” di cittadini di pelle bianca legati a pregiudizi secolari, a tare ereditarie.

Oggi, perfino il giornale più conservatore ammette qui da noi che il negro americano è nelle condizioni in cui è perché è e deve restare il senza-riserva a disposizione dello sfruttamento della macchina produttiva; che l’odio di razza è un odio di classe; che la violenza razziale è una violenza inseparabile dalla struttura economica e dal tessuto generale della società esistente; che i negri si ribellano perché sono pagati immensamente al di sotto della media nazionale, perché sono stipati in luridi quartieri trasudanti miseria depravazione e malattia, perché sono preda indifesa di sciacalli compratori di carne umana e dispensatori di alcool e di stupefacenti (o di preghiere), perché sono dannati ai lavori più sudici, più pesanti, più vili; perché sono vittime di usurai ed esattori delle imposte e degli affitti; peché insomma sono i più proletari dei proletari nella repubblica delle stelle e strisce; perché sono i “terroni” di quel paese, e sono trattati come qui da noi, nell’evolutissimo Nord italico, i “terroni” senza riserva hanno l’onore d’essere trattati.

Oggi, perfino un assistente sociale cattolico e socialriformista come lo Harrington deve ammettere che, quand’anche la più perfetta delle leggi spazzasse via le limitazioni razziali che tengono avvilito e sottomesso il negro, l’avvilimento e la sottomissione rimarrebbero, tanto il razzismo è incancrenito nel meccanismo stesso della società borghese.

Secondo il mito americano, gli USA non erano e non sono imperialisti, non hanno colonizzato e non colonizzano nessuno, non temono rivolte coloniali. In realtà, il capitalismo yankee ha colonizzato le proprie zone depresse e ha fatto dei suoi cittadini proletari di classe quello che i vecchi imperialismi facevano delle popolazioni di colore soggiogate col ferro e col fuoco.

La rivolta negra è un episodio insieme della guerra di classe proletaria contro lo sfruttamento capitalistico e dell’insurrezione coloniale contro i colonizzatori borghesi. Piangano su di essa i moralisti: noi ci auguriamo che essa divampi, di là da secolari pregiudizi, e si fonda con la lotta di classe dei proletari bianchi; che questi comprendano che uno solo è il nemico, quello stesso che li ha tenuti e che li tiene divisi!

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