DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Quando, nel 1956, il XX congresso del partito pseudocomunista russo rovesciò il culto dell'eroe-Stalin nell'anti-culto dello Stalin-demonio, noi ci chiedemmo nel «Dialogato coi Morti» se ci trovavamo di fronte ad «un congresso di marxisti demolitori del culto della Personalità o non piuttosto di  professionali lustratori di stivali, che reagivano alla disoccupazione costituendo una cooperativa di geni da dozzina», ed era una domanda in cui era implicita la risposta: «Da Stalin ad un comitato di sottostalinisti, nulla è capovolto». E vi era implicita la spiegazione: il culto della personalità è l'ossigeno in cui vivono il parlamentarismo, l'elettoralismo, la democrazia, e quindi il veleno di cui muore la rivoluzione: «Come si pigliano voti - e quella gente avrà da pigliarne ancora - se non si usa il mezzo base del tifo per l'uomo politico? Come si conserverebbero le ondate di simpatia per i simboli del fronte popolare o dell'unità del lavoro se non con la frenesia per le gesta del men che mediocre materiale umano, di leva nazionale, provinciale o paesana, suscitata coi soliti mezzi nelle masse amorfizzate e diluite nel gregge degli «onesti, dei «buonvolontisti» e simili?».

Queste parole ritornano alla nostra mente oggi, dopo la regia colossale dell'apoteosi del Migliore, inscenata nello stile più puro del culto della Personalità viva o defunta, fra preghiere di sacerdoti in sottana nera o in abito civile, fra piagnistei di lustratori di stivali in veste di «uomini di cultura» alla ricerca di una pubblicità rumorosa e popolaresca, fra discorsi inneggianti all'immortalità appunto del genio, sia pure da dozzina, come arma pubblicitaria per raccogliere voti a favore dei geni da strapazzo ancora in vita. Ma, per noi che non crediamo né al demiurgo creatore di storia né al demone disfacitore di storia, questa apoteosi di uno fra i più squallidi rinnegatori del marxismo ha un solo significato reale, obiettivo, storico: è l'apoteosi non del riformismo classico che era almeno «una cosa seria», ma del super riformismo moderno, cioè di una risibile, miseranda cosa di fronte al giganteggiare delle nubi grevi di lacrime e sangue pesanti sull'esercito innumere degli sfruttati. E' stato questo il protagonista dei riti di magia nera organizzati dalle Botteghe Oscure per le vie di Roma: non un uomo, ancora una volta, ma una realtà oggettiva, una forza impersonale, una macchina di sfruttamento e di oppressione. Di questa forza, di questa macchina anonima, l'uomo chiuso nella bara era stato uno strumento; in lui si celebrava essa, la controrivoluzione che ha riempito di sangue proletario le fosse di tutta la terra, che ha fatto rotolare - ogni volta con telegrammi di plauso di Togliatti a Stalin - le teste non solo dei grandi rivoluzionari della vecchia guardia bolscevica, ma di migliaia e centinaia di migliaia di proletari oscuri dell'eterno ceppo marxista: ben s'inquadrava in questa cornice la preghiera papale al morente, ben ci stava l'epitaffio che da tutte le parti della barricata democratica è stato scritto al defunto!

Prendiamolo, questo epitaffio, come il monito lanciato ai vivi della controrivoluzione mondiale. «E' morto un grande italiano»: dunque, un rinnegatore della fiammeggiante tesi marxista che «i  proletari ( e a maggior ragione i comunisti) non hanno patria». Era (giusto, Breznev!) un «autentico patriota»; dunque, un seppellitore dell'internazionalismo, senza il quale il socialismo cessa semplicemente d'essere socialista. Indicò «vie nazionali» al «popolo»; nessuna Internazionale rivoluzionaria e proletaria potrà più rinascere dalla congrega sfilante dietro la sua bara. Volle «la pace»; quindi negò la rivoluzione che sola può uccidere la guerra. Giurò sulla «democrazia»; quindi abiurò per sempre quello che secondo Marx è il cardine distintivo del comunista, la dittatura della classe oppressa sulla vinta classe sfruttatrice. Lottò per il «progresso»; dunque, per l'ideologia borghese di uno sviluppo tranquillo della «civiltà» contro l'ideologia della rottura rivoluzionaria della borghese «società civile». Combatté per il «benessere delle classi lavoratrici»; dunque, non per una società nuova, in cui non ci saranno più classi, ma per la società di oggi  condita di qualche riforma destinata - come sognano i riformisti di origine socialista, o i riformisti di ceppo borghese alla Keynes - a distribuire «meglio» i redditi e i consumi lasciando in piedi il meccanismo della produzione di merci. Inneggiò alla «coesistenza pacifica fra regimi sociali diversi»; dunque (vero Mikoyan?), inneggiò al commercio, allo scambio monetario, all'interpenetrazione di due supposti mondi sociali diversi; dunque, alla piena restaurazione e generalizzazione del sistema capitalista, mercantile, salariale, attuariale, alla ricostruzione delle classiche categorie dilette ai borghesi, del profitto, dell'interesse, della rendita, dell'utile aziendale e via discorrendo, che proprio in questi giorni gli eminenti accademici Trapeznikov e Volkov contrabbandano a Mosca come squisitamente «socialiste»; dunque, al modo di produzione chiamato prima o poi (se manca l'incendio rivoluzionario) a travolgere nel baratro della guerra qualunque  «benessere», «progresso», «pacifico accordo», «scambio onesto». (L'Unità, rinunziando in un  primo tempo a parlare di Togliatti come del fondatore del P.C.d'Italia a Livorno e rivendicandogli il merito - reale per dei borghesi - di aver creato un «partito nuovo di tipo nazionale» dopo il '26, ha ricordato con orgoglio che, di fronte al primo conflitto mondiale, il giovane Migliore si schierò con quelli che lo videro dall'angolo delle particolari «questioni nazionali italiane»; insomma, con gli interventisti: su questo terreno la «coerenza» c'è dunque stata, in lui, dal principio alla fine; e ci sarà nel partito dopo la sua morte). Fu un «flessibile», un «creatore» aderente al «concreto»: infatti, cambiò vela ogni volta che il vento dominante mutava senso, ed è inutile che qui ne ricordiamo le tappe, dal filo estremismo al filo bucharinismo, dal pieno stalinismo fino all'anti ... stalinismo di comodo. Val la pena (senza cedere al vomito) di continuare? Nel suo discorso di addio, Longo ha definito così quello che «il Partito comunista italiano ha sempre affermato e afferma»: «difesa e sviluppo della democrazia, libera dialettica fra tutti i partiti e tutte le forze democratiche, necessità di una loro collaborazione in un sistema di ampie autonomie, rispetto della libertà religiosa e della libertà della cultura». E' questo il corteo di divinità (unite alla pace, alla coesistenza, all'affermazione della personalità umana e via elencando) che è sfilato per Roma: non un cadavere ma forze malauguratamente vive - le forze del più feroce, del più sbracato, del più squallido ultrariformismo. Ad esso andava l'apoteosi di tutti  dietro la facciata dell' «unanime cordoglio» per il collega in «creatività», cioè in rifriggimento in centomila varianti dell'antico testamento idealista. e democratico, e borghese.

Nel 1956 scrivemmo:

«Proprio la controrivoluzione è «creativa», e le si scoprono, vivendo la storia, le più nuove e inattese forme e manifestazioni. In questo senso abbiamo molto appreso da mezzo secolo di tradimenti al proletariato socialista.

«E' la rivoluzione che è una; ed è sempre lei, nel corso di un arco storico immenso che si chiuderà come si è aperto e dove ha promesso; dove ha appuntamento forse con molti dei vivi, ma certamente coi nascituri, come coi morti: questi sapevano che essa non manca mai, non inganna mai. Essa, nella luce della dottrina, è già scontata come cosa vista, cosa viva».

Su essa, e solo su essa, noi giuriamo.

 

il programma comunista, n. 16, 7 settembre 1964

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