DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Vogliamo fare anche noi il bilancio del 1962, se non altro per trarne la conferma che i concretisti, i realisti, gli empirici, si vedono sfilare davanti dei fatti ognuno dei quali contraddice l'altro, e tutto è confusione ed arbitrio, mentre per noi che li guardiamo alla luce della tanto disprezzata teoria essi si svolgono, con rigorosa consequenzialità, nell'ordine che in teoria era previsto, non danno sorprese ma conferme, non suggeriscono mutamenti di programma o di tattica, anzi ne sottolineano l'invariabilità, il carattere permanente? Basta sfogliare l'annata di questo piccolo giornale.

Paesi di vecchio capitalismo. I profeti e stregoni del capitalismo ultimo modello solevano contrapporre alla visione catastrofica della nostra dottrina lo spettacolo di un'economia in espansione non solo costante, ma crescente. Il '62 è stato, in America prima di tutto, ma anche nei paradisi del «benessere», ― Germania e Giappone― un anno di rallentamenti di ritmi, di ristagno nell'occupazione, di inquietudine in borsa. Dicevano che, se l'espansione non sarebbe sempre stata automatica, i governi sarebbero intervenuti con idonei mezzi di stimolazione e di impulso; per il '62 possono certo tirare in ballo gli esperimenti nucleari, i razzi cosmici, il conflitto cubano o indo-cinese con relative forniture, ma questi «strumenti anticrisi» distruggono un altro mito, quello della pace e della stessa «società opulenta», mostrando che il capitalismo ritarda o attutisce le sue contraddizioni interne solo con mezzi di distruzione ― nel duplice senso che possono servire a massacrare vite umane e distruggere cose, e che sono di per sé un dispendio vano e atroce di forze produttive.

Il mito della pace, e della coesistenza pacifica, ha trovato due nuove clamorose smentite, a parte le tediose conferenze sul disarmo e i progetti di distruzione dei... mezzi di distruzione (tanto assurda quanto la pretesa che il capitalismo accetti di lasciarsi tranquillamente morire): lo scontro nei Caraibi e quello sulla frontiera himalaiana. Fra capi di governo e capi della Chiesa, tutti si sono affrettati ad attribuire il merito della loro «soluzione» alla saggezza di Tizio o al senso di responsabilità di Caio: in realtà, i «valori morali» hanno fatto soltanto di contorno al protagonista vero dell'epilogo, la forza. Non v'è stata conclusione di pace: ma vittoria del più forte sul più debole, del pugno duro sul pugno molle. Il pugno duro in stelle e strisce finisce però l'anno con la paralisi delle banchine dei suoi porti immensi: dopo la non-coesistenza pacifica fra Stati, la non-coesistenza pacifica fra classi.

Si è commerciato, è vero: ma è appunto lì l'epicentro dei conflitti. La pace dei mercanti è sinonimo di guerra fra ladroni. Kennedy ha puntato i piedi contro Krusciov, ma non li ha puntati meno contro le velleità «autonomistiche» di Macmillan, contro il quale puntano a loro volta gli sciovinistici piedi De Gaulle e Adenauer (i governanti dei due Paesi europei cosiddetti «nemici ereditari»); Mao bisticcia non solo verbalmente col Cremlino; Tirana non va d'accordo con Belgrado, che non va d'accordo con Sofia.

Si è concluso il primo ciclo delle liberazioni nazionali e delle lotte anticoloniali in Africa; si è raggiunto quello che, per l'ideologia borghese come per l'opportunismo dei socialtraditori, dovrebb'essere il traguardo estremo al quale è lecito per i popoli «arretrati» arrivare, e non oltre. Noi abbiamo sempre sostenuto (e, si intende, auspicato) che, proprio al contrario, quel «punto d'arrivo» sarebbe inevitabilmente stato un punto di partenza (per essere più precisi, non ci sarebbe stata mai soluzione di continuità in un moto coinvolgente enormi masse di diseredati, semiproletari e proletari), un ridivampare della lotta di classe.

Ora non è certo un caso che, quasi contemporaneamente in Algeria, in Tunisia, nel Ghana, nel Senegal, per citare solo gli esempi più vicini e clamorosi, il '62 sia finito col terreno che scotta ― e noi respingiamo, sicuri che la storia ci confermerà, la banale versione giornalistica delle congiure di palazzo, degli attentati individuali, dei complotti isolati. Il «terzo mondo» non è il teatro delle eccezioni alla regola: gli affamati di terra e di lavoro non tarderanno a scuotersi sotto il giogo delle borghesie nazionali arrivate, in combutta con le borghesie internazionali già «nemiche». E' un'altra conferma.

Paesi di nuovo capitalismo. Nell'anno testé chiuso, la Russia ha girato una nuova parte del film della sua reincarnazione borghese: autonomia degli organi di pianificazione regionali e locali, trionfo di Sua Maestà l'azienda, trapianto in seno al partito della classica separazione capitalistica fra città e campagna, ebbrezza della coesistenza internazionale e dei bisticci fra partiti «fratelli», esaltazione degli incentivi alla produzione, dell'iniziativa personale, della famiglia patrimoniale. E, malgrado gli squilli di tromba per i voli nel cosmo, quaggiù aria di ristagno e di recessione economica: il cielo è classicamente lo sfogo della terrena valle di lacrime. La Cina, malgrado lo sfoggio di una purezza ideologica fasulla, ha gatte da pelare molto affini. Smentita o nuova conferma di ciò che, dal 1955 come minimo, andiamo sostenendo?

Italia del nostri stivali. L'opportunismo, se non è ancora riuscito a riprendere un posto al governo, ha sostenuto e puntellato in tutti i modi un regime così tirchio nel riconoscerne le virtù patriottiche. Ha frantumato le più vaste agitazioni operaie, ha firmato i più scandalosi contratti di categoria, si è battuto per confinare il sindacato nelle aziende, ha distribuito tessere di «teppismo» ai proletari più battaglieri e più affamati, ha plaudito a vescovi e ministri, ha corteggiato ― sempre più ― borghesi onesti e uomini di cultura in crisi di aggiornamento; per concludere, ha tenuto congresso per annunciare al mondo di aver scoperto «nuove vie» al socialismo ― le antichissime, preistoriche vie di tutti gli opportunismi da oltre cinquant'anni a questa parte. Non ci si ferma, sulla strada della discesa: si va fino in fondo ― chissà, magari al governo. Ennesima conferma di cose sapute dal marxismo da più di un secolo di lotte.

E saremmo «superati dalla storia?» Saremmo dei «profeti» urlanti nel deserto? I nostri conti li facciamo noi: anche qui, non alla scala dell'ora e del giorno. Alla scala di un futuro che il presente, buona vecchia talpa, prepara, strizzandoci l'occhio.

Il Programma comunista, n. 1, 3 gennaio 1963

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