DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Cardini del programma comunista

Nelle sedute conclusive delle riunioni tenute a Torino e a Parma (e si considerino anche gli sviluppi dati al resoconto della prima coi Corollarii pubblicati nei nostri nn. 16 e 17 del 1958) vennero trattate questioni fonda­mentali della dottrina del nostro partito. Esse si ricollegano alla negazione dell'individualismo e della personalità del singolo, di cui oggi si vede fare largo abuso non solo nella propaganda dei paesi capitalistici occidentali, ma anche in quella degli amici e seguitanti di Mosca. A questi ar­gomenti di dot­trina ci ha direttamente ricondotti ora la dimo­strazione che tutte le innova­zioni e pretese riforme presentate agli ultimi congressi russi sempre più pro­cedono in direzione diametralmente opposta al comunismo marxista, tanto quando si tratti di affermazioni teoriche dirette a simulare scandalo per il "revisionismo" di jugoslavi ed altri (resoconti di Torino), tanto quando si tratti di concreti mutamenti di struttura avvenuti nella organizzazione economica russa. Sotto entrambi questi ri­flessi abbiamo svolto i richiami all'effettivo pro­gramma del co­munismo scientifico di Marx e alla dottrina del materialismo storico, rivendicando le tesi vitali più spesso oltraggiate - anche dai non filo­russi - e che culminano in quella del partito gerente della dittatura rivoluzio­naria e della sua vera meccanica che si basa sulla invariante dottrina classica internazionale e ultraseco­lare; e non sulle opinioni dei singoli e la loro im­becille statistica nelle forme elettive borghesi.

Tutto questo tesoro delle nostre originali e possenti dottrine e metodi si è visto ancora una volta infamato e calpestato al re­cente congresso, quando la serie capitolarda dei rinnegamenti è giunta fino a far posto nella meccanica della attuale economia sociale sovietica (e la constatazione contingente è esatta) dell'in­centivo dell'interesse personale! Naturalmente la espressione più triviale di questa massima fra le tesi antimarxiste si trova nel rapporto sul XXI Congresso al C.C. del partito italiano (Unità 17-3-1959): "nell'agricoltura venne restaurato (lo stesso espres­sivo verbo è nel rapporto Krusciov, ed. it., pag. 13) il principio che l'interesse individuale deve continuare ad essere la molla prevalente dello sviluppo della organizzazione colcosiana". Nelle "tesi" del Congresso è adombrata in modo un poco meno pac­chiano la pre­tesa paradossale che nelle opere di Lenin e perfino dei fondatori del comu­nismo scientifico si faccia posto alla leva dell'interesse materiale. Ma il trucco è chiaro: altro è interesse materiale, che può essere fraternamente comune agli sfruttati che devono rovesciare la società privatista, altro è interesse in­dividuale, la cui molla consiste nell'incentivo a fregare il compa­gno di classe.

Ma qui discutiamo dei caratteri di una società socialista, e (secondo le più recenti truffe) perfino comunista. Ed è in tale campo che la tesi dell'incentivo personale vale il capovolgimento del marxismo rivoluzionario. Ancora una volta occorre tornare alle origini. Che quella restaurazione si stia facendo in Russia lo concediamo; è una delle cento tappe della peggiore controrivo­lu­zione.

La moderna filosofia critica

Un concetto centrale del marxismo è quello che la filosofia del tempo moderno che, anche sotto il nome di scuole diverse parte da Cartesio, Ba­cone e Kant, è una sovrastruttura storica propria del tempo e del modo di produzione capitalistico. Gli ideologi della classe borghese ovviamente con­siderano la vittoria di queste scuole moderne sulla tradizionale filosofia cri­stiana teologica e scolastica come una conquista "definitiva" del sapere umano, e quindi mostrano la pretesa che anche gli esponenti del socialismo proletario debbano fare omaggio ad essa e porsi sotto lo stesso ombrellone filosofico. In altri termini si pensa, e questo luogo comune è molto diffuso, che i socialisti facciano propria e vantino la vittoria ideologica del criticismo bor­ghese contro il fideismo medioevale, e sia un loro punto vitale di partenza lo svolgimento della filosofia, e con essa delle teorie sulla società umana e la sua storia, dai sistemi di credenze religiose.

Questo è un pernicioso errore in quanto, anche nei casi (non generali) in cui gli ideologi della moderna borghesia hanno osato rompere apertamente con i principii della chiesa cristiana, noi marxisti non definiamo questa sovra­struttura di ateismo come una piattaforma comune alla borghesia e al proleta­riato, che ri­spetto ad essa è una protagonista della storia futura, ma spie­ghiamo quel conflitto di idee come una proiezione della lotta tra i nascenti ceti capitalisti da una parte, e dall'altra la antica no­biltà terriera e il suo ordina­mento feudale. Quando sulla grande scena della storia una tale lotta di classe è scontata con la vitto­ria del capitalismo contro l'antico regime, e si determina una nuova lotta di classe, il nuovo protagonista che è il proletariato avrà una propria ideologia che non ha alcun fondo comune a quella che inquadrò la lotta borghese contro il medioevo, anche se nella reale lotta politica vi dovet­tero essere alleanze di fatto, e di armi.

Altro luogo comune in questa materia è che Marx ed Engels derivano la loro dottrina come un filone sorto dal corso della filosofia critica tedesca, che fu uno dei rami più importanti del movimento moderno e toccò il suo vertice nell'opera di Hegel. La verità storica è che Marx, Engels e il loro gruppo non tra­scurabile sia di studiosi che di aperti agitatori sociali si contrap­posero subito ai discepoli di Hegel che a lui si richiamavano fe­delmente, e li trattarono da ideologi borghesi e piccolo borghesi, deridendoli sì anche quando mostra­vano di non aver capito il maestro, ma svolgendo insieme una aperta e riso­luta condanna del sistema di lui.

Marx narra nella prefazione alla Critica della Economia Po­litica, scritta nel 1859, che lui, Engels ed Hess avevano steso un imponente lavoro per definire la loro posizione negativa radicale rispetto ai seguaci di Hegel e ad Hegel stesso col suo grande si­stema di cui erano stati conoscitori profondi, ma dice che tro­va­rono inutile la divulgazione di una tale critica, in quanto il punto di arrivo era che si doveva spostare il campo della ricerca dalla filoso­fia tradizionale alla economia - ove era meglio criti­care i classici borghesi in­glesi; o meglio ancora dal campo della ricerca passare a quello della battaglia - ove era meglio conti­nuare l'opera dei sia pur primitivi comunisti francesi.

Ma se nessun riguardo poteva suggerire di tenere private le feroci stroncature degli Stirner, Bauer, Strauss, ed anche Feuer­bach, altre ragioni indussero Marx a non pubblicare mai le parti che smontavano del tutto il clas­sico sistema hegeliano, da cui tuttavia in chiari passi di tutte le sue opere si era allontanato. Egli lo dice nella sua prefazione al Primo Libro del Capitale, nel 1873. Nella "dotta Germania" troppi botoli intellettuali si erano dati a trattare Hegel come un "cane morto", e Marx non poteva far coro a simile servido­rame. Ma la ragione più che letteraria era storica. Solo in Germania era fallita, col 1848, la grande rivoluzione borghese che in Inghilterra e Francia aveva da tanto tempo vinto; per i tedeschi di Bismarck e degli Hohen­zollern, Hegel era purtroppo ancora un rivoluzionario, e Marx si limitò a ricordare come il suo metodo dialettico era l'opposto di quello di Hegel, e di averne condan­nato il lato mistico, ossia idealistico, già trent'anni prima.

Il grande manoscritto sulla Ideologia Tedesca, e quelli che sono indicati come Manoscritti economico-filosofici del 1844 (Economia politica e filosofia) sono stati poi pubblicati, sebbene i topi avessero largamente ascoltato il con­siglio degli autori di roderli, e i testi siano pieni di lacune e di dubbi.

Ne resta più che abbastanza per stabilire che Hegel fu un ideologo bor­
ghese e che il marxismo rivoluzionario ha definiti­vamente demolita ogni sua costruzione come ogni altra giustifi­cazione teorica della forma capitalistica.

L'io e la coscienza, fantasmi borghesi

Marx nella sua critica a Feuerbach, che considera più serio di tutti gli altri "giovani hegeliani", stabilisce che egli è il solo che ha ben maneggiato la dia­lettica del maestro e la negazione della negazione; ma condanna maestro ed allievo in quanto la loro esercitazione puramente astratta si riduce a partire dalla soppressione della religione ad opera della filosofia (speculativa) per ricadere alla soppressione della filosofia e al ristabilimento della religione e della teologia. In senso storico ciò vale dire che lo sforzo di ateismo della classe borghese nascente chiude la sua parabola con un nuovo successo della maniera religiosa: nel 1844 ci si dichiarava senza timore atei, oggi nes­suno scrittore osa più farlo.

Marx dichiara in questo Feuerbach buon seguace di Hegel ossia riporta ad Hegel la responsabilità della sterilità del metodo critico borghese. Egli dice a questo punto, in uno schema che purtroppo si è trovato presto interrotto: "Gettiamo uno sguardo sul sistema di Hegel. Bisogna cominciare dalla Feno­menologia perché è lì che nasce la filosofia di Hegel e che si trova tutto il mistero". Lo schema dice: "Fenomenologia". "A. La coscienza di sé" - "I. La coscienza... - II. La coscienza di sé. La verità della certezza di sé stesso... ". Non è necessario riportare tutto lo svi­luppo schematico del testo, il quale reca parole di dubbia deci­frazione. Quello che è chiaro è che per Marx l'errore di Hegel consiste nel poggiare tutto il suo colossale edifizio speculativo, col suo rigoroso formalismo, su di una base astratta, quale la "coscienza". Come Marx dirà tante volte è dall'essere che biso­gna partire, e non dalla coscienza che l'io ha di sé stesso. Hegel è chiuso alle sue prime mosse nell'eterno vano dialogo tra il soggetto e l'oggetto. Il suo soggetto è l'Io inteso in senso asso­luto, e "il primo oggetto è per lui la sua stessa certezza", come detto in vari altri passi. "Hegel commette qui un doppio errore che si manifesta nel modo più netto nella fenomenologia, questo luogo di nascita della sua Filosofia".

Come dal senso di tutti i densi brani, l'errore di Hegel con­siste nel partire dal soggetto pensante, dalla testa che pensa. In­fatti Marx dirà nella citata pre­fazione che egli capovolge tutta la dialettica di Hegel la quale ha l'errore di camminare reggen­dosi sulla sua testa. A tale errore sono condannati tutti i pensa­tori del tempo borghese, e che esprimono la gesta storica della classe capitalista. Il loro Io, il loro Uomo, il loro Soggetto che si pretendono espres­sioni dello stesso Assoluto non sono che la transitoria peculiarità del Bor­ghese.

Fin dal tempo delle elaborazioni giovanili di Marx e dei suoi compagni è chiaramente costruito quanto dovrà opporsi al de­nunziato fondamentale er­rore di Hegel che si riassume nella su­perstizione individualista. Infatti fin da quel tempo era sorto il programma comunista, ossia la valutazione scientifica anticipata della società umana che al capitalismo deve succedere, e in quei primi manoscritti è già contenuto tutto quanto non poteva forse allora inserirsi nelle trattazioni e manifestazioni di partito, che tuttavia rispondevano alla esi­genza di definire i realistici rap­porti sociali. Fin da allora se ne potevano se­guire le prime ma­nifestazioni nei vari paesi e discutere gli enunciati.

Il gioco delle terziglie

Uno dei compiti del nostro impersonale movimento di par­tito dovrebbe essere quello di "ricostruire" il testo dello studio di Marx del 1844 di cui ci stiamo ora servendo e che in tutte le edizioni riproduce un manoscritto i cui fogli sono stati numerati da mano poco competente e quindi contiene strani salti da uno all'altro dei fondamentali argomenti. I più intelligenti editori (vedi S. Landshut e J. P. Mayer a Berlino 1931) hanno stabilito che questo lavoro vale di preambolo filosofico alla monumentale opera del Capitale, e che quindi è altro volgarissimo luogo co­mune che Marx negli scritti giovanili fosse hegeliano, e solo dopo sia stato materialista storico; e magari più vec­chio un vol­gare opportunista! Compito della scuola marxista rivoluzionaria è di rendere palese a tutti i nemici (che hanno la scelta di tutto prendere o tutto rigettare) il monolitismo di tutto il sistema dal suo nascere alla morte di Marx e anche oltre (concetto base della invarianza - rifiuto base della evoluzione arricchitrice della dottrina del partito).

Se Marx avesse cambiato filosofia allora sì che avrebbe ri­scritto quei ma­noscritti e l'altro enorme scartafaccio sulla Ideo­logia Tedesca. Non li ha ri­scritti appunto perché non ha mai cambiato, e fin da essi aveva liquidato ogni idealismo borghese e la sua più compiuta forma hegeliana.

Il manoscritto rimesso nel suo ordine e senza inversioni mo­strerà bene perché non occorreva riscriverlo. La liquidazione dell'idealismo filosofico consiste in una "totale trasposizione" del materiale trattato: definizione degli enti, postulati, teoremi e leggi. Questa geniale trasposizione avvenuta una volta e in una volta sola nella storia dell'uomo e del suo pensiero risulta nel titolo: trapasso dalla filosofia alla economia politica. Di tutto il preteso doppio aspetto di Marx non resta che questo: egli si lau­rea col titolo burocratico di dottore in filosofia, ed opera come dittatore (prendetevi sul muso la parola che odiate) su tutti voi, affaristi, e professori di economia del suo tempo e del nostro e di quello che ancora deve venire. Ben lo chiamaste "dottore ter­rore rosso" - red terror doctor, e mai protestò, anzi si compiac­que.

In tutto il testo non troviamo mai la classica triade: tesi, antitesi, sintesi. In effetti Marx ritiene a fini soprattutto pole­mici la celebre serie dialettica in quanto negazione delle prime costruzioni metafisiche e fideiste (da questo testo emerge come, al loro posto storico, sono per noi tutte degne di esatta conside­razione, e in questo è uno dei contrasti tra Marx ed Hegel). La dialet­tica apparsa presso gli eleati in Grecia ruppe l'incanto delle antinomie dualiste tra principio del Bene e del Male, tra i quali non si può che rimbalzare all'in­finito e ogni negazione di negazione riafferma identico il primo risultato. Più volte nar­rammo di Zenone che uscì genialmente dalla tradizione formale tra freccia ferma e freccia in corso, scoprendo il valore istanta­neo della velocità di un mobile, e il germe del calcolo degli in­finitesimi. Ma i termini tesi, antitesi e sintesi, furono dati da Fichte prima di Hegel, che li prese a prestito, e Marx criticando i giovani hegeliani usa la loro lingua. Abbiamo dunque una prima tesi o affermazione che qui troviamo chiamata in genere posizione, o anche supposizione. La prima negazione conduce alla seconda parte della terziglia, che il lettore trova in questo testo indicata come alienazione, o anche este­riorizzazione, ossia porsi fuori e contro, contrapporsi. La terza parte della terziglia, che sarebbe la vera conquista, la sintesi di Fichte, la troviamo chia­mata in questa polemica come soppressione, talvolta vittoria; è colpa di Hegel se non resta chiaro se la prima o la seconda parte, il "soggetto" o la sua "alienazione", resta travolto; la co­struzione di Marx rende tutto coerente e brillante, ma era per Hegel e peggio per i minori hegeliani del tutto inopina­bile.

Trasposizione rivoluzionaria di Marx

Il primo tema di Hegel è come abbiamo visto dal cenno della Fenomeno­logia - che per i migliori storici e critici come per Marx è il cardine del sistema - l'uomo evidentemente posto come singolo individuo. Se non è l'Io di Fichte è il . Il passo ulteriore è l'alienazione di questo ideale. "L'alienazione, che forma dunque il vero interesse di questa esteriorizzazione e della sop­pressione di questa esteriorizzazione (primo e secondo pas­saggio dialettico) è l'opposizione tra lo in sé ed il per sé, tra la coscienza e la coscienza di sé, tra l'oggetto ed il soggetto". Così il testo di Marx riferisce la vanità dei passi di danza in tre tempi di Hegel. Molti altri passi, che andrebbero rimessi come di­cevamo nel loro ordine primitivo, mostrano che la "vittoria" finale non saprà né potrà essere mai altra che (senza aver nulla "materializzato" ossia senza mai avere afferrata la realtà ogget­tiva) il rificcare tutta la coscienza di sé den­tro quel da cui si era con fatica "alienata". La pretesa del sistema di Hegel di fer­mare la identità del reale e del razionale è fallita, e si ricade nello Ich - Ich tedesco, al giro di Fichte: Io - non io - Io. Ma queste lungi dall'essere conquiste della speculazione filosofica sono dati dell'ambiente storico e so­ciale, in Francia avremo come "vittoria" l'Egalité (in francese in Marx); in In­ghilterra il bisogno materiale, pratico, e diremmo (se a Marx si potesse pre­stare un vocabolo) il business.

Diamo per comprovato che Marx rigetta le costruzioni di Hegel senza altre citazioni (da riservarsi ad una edizione cate­chistica che si dovrebbe fare in questo scritto). Se Hegel non lo ha reso limpido Marx, è inutile rovinare le meningi nostre e dei lettori!

Passiamo alla costruzione ben diversa del marxismo. Al posto dell'io col­lochiamo non l'uomo fuori del tempo, ma l'uomo del tempo nostro, il proleta­rio salariato. La prestazione di lavoro parte dell'uomo era già per Hegel la corona del doppio trapasso, la sua nobilitazione nella piena dignità di membro della società civile e cittadino dello Stato, realizzazione suprema dell'assoluto Spirito. Passato Hegel tra gli apologisti della borghesia e del capitale, ecco come Marx pone l'alienazione, la esteriorizzazione del proletario. Con il prestare il suo lavoro contro salario in da­naro egli è uscito dalla sua persona, e si è mutato in una forma materiale, la merce (il suo lavoro è merce ed ha valore di scambio). Come avverrà il terzo passaggio con cui l'operaio ridi­venterà uomo e ridiventerà sé stesso (pretesa del trapasso hege­liano)? Forse con altro scambio del ricevuto pugno di moneta con altra poca merce? Non certo! Ed è facile vedere che non gli resterebbe altra sorte che "alienarsi" ancora e di nuovo sperso­nalizzarsi, ritornare non uomo vivente ma fisico oggetto.

Il nuovo trapasso, che è davvero una soppressione ed una vittoria, fa sì che l'operaio rientri non nello stesso singolo indi­viduo, ma nella forma umana superiore, nell'uomo sociale, nel primo vero uomo che sia umano. Questo termine di arrivo è la società umana comunista; la vittoria è quella della classe prole­taria sulla dominante classe capitalista, la soppressione è quella della proprietà privata nella ultima forma di Capitale ed è - si badi bene e si con­fronti in cento punti il testo - anche la sop­pressione dell'operaio, del proleta­riato, delle classi, dello scam­bio e del danaro.

Il misterioso uscito dal proprio individuo vi rientrerà dunque, ed è questo il nuovo messaggio, e si riscatterà dall'es­sere stato annichilito e di­strutto come persona (risultato massimo della sola società capitalista integrale perché, come i passi mo­strano, questo annientamento non era totale ancora nelle forme preborghesi). Ma non rientrerà più, in quel promesso trionfo, in una persona isolata, individua, singola, bensì nella persona so­ciale dell'uomo del tempo comunista.

Dati storici del trapasso

Fermo restando che il massimo di alienazione dell'uomo si raggiunge nel presente tempo capitalista - ed è compito della contemporanea lotta comunista mostrare come le esteriorità della economia mercantile più recente, con tutti i suoi atteggiamenti benesseristi o colcosianisti, e populisti ovunque, nulla ha mutato in questo profondo rapporto - il testo di Marx è buona guida anche in riguardo al corso delle dottrine economiche e della ideologia filosofica e po­litica, per tutte le forme che hanno pre­ceduta la piena rivoluzione borghese, dall'antichità al feudale­simo, e poi a noi, passando per i fisiocrati, i mercantili­sti, gli economisti prericardiani e ricardiani, gli economisti volgari che li segui­rono (e stanno seguendo). Il riordino di questa parte sa­rebbe una grande di­mostrazione del criterio di invarianza, per­ché la valutazione delle varie forme e scuole economiche tran­ciata già con mano maestra da Marx giovane, collima integral­mente con quanto è contenuto nella Storia delle Dottrine eco­nomiche, testo degli ultimi anni preparato dall'autore nel suo piano come Quarto Libro del Capitale.

In questa seriazione di primissima importanza sono collocate anche le dottrine dei primi comunisti ed utopisti. Nei primi tentativi sarà considerata come alienazione peggiore dell'uomo ora l'attività industriale, ora quella agricola; le prime intuizioni del comunismo integrale condurranno a cercare oscuramente ap­poggi nel regime terriero o nella audacia delle imprese capi­ta­listiche.

Prima tuttavia di dare i tratti del trapasso al comunismo to­tale e a quello che darà al lavoratore la vera forma umana, il testo di Marx si ferma in una analisi del primo "grossolano co­munismo" col quale si fa riferimento, più che ad un autore teo­rico, ad un movimento che per tutti i marxisti è glorioso, quello della Lega degli Eguali del tempo della rivoluzione giacobina, se pure il suo carattere francese aveva fatto, a quelle audaci tesi che prevenivano il loro tempo, una cattiva stampa nella cultura tedesca, contro la quale questi sforzi titanici di Marx sono di­retti.

 


 

Il supremo punto di arrivo

Siamo anche noi qui trascinati a non seguire l'ordine crono­logico né una logica partizione per capitoli, e troviamo assai utile passare prima alla lapida­ria descrizione del comunismo umano finale ed integrale. Infatti scopo di tutta la nostra fatica è stabilire che questa descrizione tassativa del futuro è base in­dispensabile per la guida della lotta del partito comunista, or­ganismo riferito a tutti i tempi e a tutti i luoghi e ad una rigo­rosa unicità di direzione dottrinale e di lotta, e che le tempeste non hanno spezzato.

"Il comunismo inteso come positiva soppressione della pro­prietà privata, e dunque come soppressione della alienazione dell'uomo da sé stesso, e quindi inteso (alla fine del trapasso totale) come appropriazione reale da parte dell'uomo e per l'uomo dell'essere umano (della umana essenza); e per questo come ritorno completo, cosciente, attuato all'interno di tutta la ric­chezza degli sviluppi del passato, dell'uomo per sé in quanto uomo sociale, ossia in quanto uomo umano".

La enunciazione è un punto dell'elenco e non ha verbo. È l'ultimo punto. Essa, notate, rispetta formalmente gli snodi della terziglia. La proprietà privata ha alienato l'uomo da sé stesso: primo passaggio. Il comunismo, con nega­zione della negazione, sopprime dalla radice la proprietà privata. Risultato: l'uomo ri­torna sé stesso, ma non come era partito alla origine della sua lunga storia, bensì disponendo finalmente di tutte le perfezioni di uno sviluppo im­menso, sia pure acquisite nella forma di tutte le successive tecniche, costumi, ideologia, religioni, filosofie, i cui lati utili erano - se ci è lecito così esprimerci - captati nella zona di alienazione. Ma quest'uomo in grado di abbeverarsi in questa abbondanza di benefizi non è più l'uomo individuo ed egoista, ma l'uomo sociale, ossia collettivo, il vero e primo uomo umano. Non è per la prima volta umano perché da mate­ria sia salito a spirito, ma perché da indivi­duo è salito a specie a genere, a umanità. Ad ogni pagina troviamo questa dichiara­zione che Hegel e i suoi misconoscono, che l'uomo è un essere natu­rale e di più un essere generico. L'aggettivo generico vuol dire che fa parte di un genere; come tale si apre la sua via nella vita e nella storia e non come membro individuo del genere, fra gli altri e contro gli altri. Ma proseguiamo nel passo decisivo.

"Questo comunismo (quello totale del periodo precedente) è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo; in quanto com­piuto umanismo, naturalismo; è la vera soluzione dell'antagoni­smo tra l'uomo e la natura, come tra l'uomo e l'uomo; è la vera soluzione del contrasto tra l'essenza e l'esistenza, tra la sogget­tività e la oggettività, tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e la specie. È la risoluzione finale degli eterni enigmi della sto­ria che appare come il contenuto di questa conquista".

Questo brano tanto breve quanto possente non colpisce sol­tanto perché raccoglie in un giro sintetico tutti i grandi pro­blemi della filosofia umana di prima, di allora e di dopo, su cui converrà soffermarsi uno per uno; non col­pisce soltanto per l'in­credibile coraggio di annunziare il possesso della finale solu­zione di così angosciose ricerche di tutti i luoghi e di tutti i tempi (e nel testo stesso non è difficile trovare passi non meno alti in cui si dimostra che anche in queste supreme tappe non è l'opera di una testa pensante, ma la sintesi di lunghissimi de­corsi e processi collettivi, sociali); ma colpisce qui noi, proprio perché vi leggiamo la proclamazione del principio di invarianza che sempre difendiamo con impegno e anche con esasperazione, e saremmo mortificati se sembrasse che un tale principio fosse stato da noi, ultimi, incluso nel sistema.

Una banda di coboldi afferma che ben leggendo Marx, En­gels e Lenin si debba concludere che le vie del futuro sono in­conoscibili e si riveleranno tratto a tratto ad esploratori che va­dano a tentoni. Ad esempio un russo, che voleva portare acqua al molino della validità staliniana della legge del valore in una società socialista, si arrabattava col testo di Engels e cercava di scusarlo perché non si può pretendere che i fondatori della dot­trina abbiano potuto confondersi a stabilire tutte le peculiarità della economia socialista! Altro che peculiarità; qui si tratta di scolpire nel bronzo e nel granito le linee dorsali di quel tra­passo, che nella nostra dottrina è tutto definibile e definito, e lo è in quanto, e da quando, l'infamia (troveremo questo vocabolo nello scritto in esame, e altri ancora più forti) della civiltà capi­talista ha spogliato i proletari degli ultimi brandelli della umana loro natura.

Riconoscere il comunismo

Il marxismo rivoluzionario - appunto in quanto non ha rag­giunto una così terribile meta arrampicandosi su passerelle li­bre­sche, ma ha inteso il linguag­gio delle conclusioni tratte dalla profondità della vivente storia - sa quali sono le caratte­ristiche della società che sarà fondata dalla rivoluzione comuni­sta, e lo sa dall'epoca i cui materiali storici permisero di edifi­care quelle formidabili conclusioni.

Quando le prime volte or sono quarant'anni si pose il pro­blema, a noi odiatori dell'ambiente capitalistico di Occidente, di andare nella Russia della prima gloriosa vittoria, gli ingenui pensavano che si trattava di andare a ve­dere - riportando la ri­cetta - come si facevano le rivoluzioni e come si met­teva in funzione la società senza proprietà privata.

Questo triviale errore fu alla base di tutte le tremende suc­cessive dege­nerazioni. Le prime raccolte delle forze del partito comunista mondiale do­vevano trovare le loro basi e fondamenti nei principii comuni da gran tempo costruiti ed abbracciati; e non può dirsi che i formidabili marxisti russi dei primi anni non abbiano lavorato in questo senso con tutto rigore.

Ma tra quelli che convenivano e ascoltavano ve ne erano troppi che del programma comunista genuino nulla sapevano. Se lo avessero conosciuto ne avrebbero aborrito ed avrebbero rin­cu­lato nei loro viaggi di esplorazione. Ma il successo, la vit­toria, il clamore mondiale, li suggestionarono; e la ganga si me­scolò al metallo genuino della dottrina comunista, alla quale erano ben noti i lineamenti radiosi della sola e oggi così lontana vittoria.

Le falsificazioni staliniane

Il manoscritto di Marx del 1844 pubblicato a Lipsia nel 1931 col titolo Eco­nomia politica e Filosofia nell'ordine seguito anche dalla traduzione francese di J. Molitor, Edizione Costes, è ap­parso in italiano, editore Einaudi, 1949 tra­duttore Norberto Bobbio, sulla base di altra edizione tedesca da quella prima in­dicata di Landshut e Meyer, che fa parte delle Opere riunite storico-criti­che di Marx ed Engels, edite a Berlino nel 1932.

In questo testo l'ordine è diverso nella scelta della foliazione del mano­scritto originale, ed il titolo è Manoscritti economico-filosofici del 1844; titolo in verità non molto espressivo se lo si è fatto seguire da quello: Critica della economia politica con un capitolo finale sulla filosofia di Hegel. In entrambe le edizioni fa da breve premessa un testo che Marx ha inserito in uno dei fogli dell'ultimo dei tre quaderni manoscritti.

La distribuzione dei frammenti, che purtroppo conservano tale carattere, è più organica nella edizione Berlino-Einaudi, ma non tale certo da togliere opportunità alla migliore opera di ri­costruzione che abbiamo proposta.

Infatti il primo manoscritto si dedica alle questioni di eco­nomia politica trattate parallelamente in tre sezioni: Salario, Capitale, Rendita fondiaria; con stretto legame alla struttura, di vari decenni più recente, del Capitale. Ma la fine del primo manoscritto sul "Lavoro estraniato" entra già in pieno nella quistione programmatica.

Il secondo manoscritto è un breve frammento cui è stato dato il titolo Il rapporto della proprietà privata. L'argomento è storico-sociale e tocca il noc­ciolo della teoria della lotta tra le classi.

Il terzo manoscritto in una prima parte è decisamente pro­grammatico ed espone i caratteri della società comunista che succederà a quella della pro­prietà privata. Segue un capitolo an­cora di critica della forma capitalistica: bi­sogno, produzione, divisione del lavoro, un frammento mirabile sul "danaro"; e la parte finale di questo manoscritto è data come Critica della dialettica e della filosofia di Hegel. Ma come nelle prime pa­gine questa critica è già pro­posta e anticipata, così gli argomenti di economia politica ricompaiono nelle ultime. Vi sono poi i vuoti e le lacune che arduo è colmare.

È notevole come la diffusione di queste fondamentali pagine e la loro presentazione riesca controproducente nello spirito che anima le edizioni dei comunisti staliniani.

Ne diamo un eloquente esempio, che mostra come ad ogni istante vi sia la trasparente preoccupazione per il contraddirsi spietato tra questi "quadri" anticipati della società futura e i ca­ratteri della struttura russa di oggi, che questa letteratura non può tralasciare di apologizzare.

La prefazione italiana cita che Marx, menzionando più volte Proudhon, "riferisce e confuta la teoria della eguaglianza dei salari".

Questo spunto polemico fa chiara eco alla dichiarazione di scritti e con­gressi russi a proposito della giustificazione delle differenze gravi di salario nella retribuzione dei lavoratori russi dell'industria di stato e dei servizi di stato.

La speculazione consiste nel far credere che sia Proudhoni­smo soste­nere che tutti i lavoratori debbano ricevere pari salario quale che sia la qua­lità e produttività del lavoro, e che il vero marxismo teorizzi per la società socialista salari disuguali!

Aut salariato, aut socialismo

Ora la posizione di Marx rispetto a Proudhon, ben chiara fin dal 1844 e ribadita nell'opera apposita Miseria della Filosofia, oltre che nelle tante cita­zioni del Capitale da noi più volte date, non consiste nel confutare un "comunismo a salari eguali" - l'e­gualitarismo di cui i Krusciov parlano con tanto disprezzo be­stemmiando anche falsi di Lenin - ma nel confutare la va­cuità proudhoniana che concepisce un socialismo che conserva i salari, come li conserva la Russia. Marx non batte la teoria dell'ugua­glianza, ma la teoria del salario! Salario è non-socialismo anche se si potesse livellarlo. Ma non livellato, non egualitario, è un non-socialismo a (cento volte) più forte ra­gione.

Sebbene il punto che abbiamo scelto sia prettamente eco­nomico, pas­sando finalmente a citare Marx non si può omettere l'osservazione che già siamo (primo manoscritto, lavoro estra­niato) nel campo dell'impiego, sia pure con intento polemico, della terminologia filosofica. Essendo questa, con piena ragione, derivata da quella di Hegel, dovrebbe già esser stata premessa la condanna del sistema hegeliano nel suo insieme, a cui infatti abbiamo già fatto più sopra riferimento.

L'economia politica classica, ossia borghese, non ha potuto evitare di fornirci la chiave del movimento della proprietà pri­vata. Con tale chiave noi le abbiamo strappato il suo segreto: essa proprietà è il prodotto del lavoro alienato. Infatti nella so­cietà borghese tipo vi sono (questa la sintesi di tutta l'economia marxista come descrizione del capitalismo) due forme di pro­prietà: di capitale, o mobiliare, che dà profitto - di immobili, che dà rendita fondiaria. L'una e l'altra, secondo l'economia dei nostri avversari, misurano il loro valore secondo il lavoro. Ma chi presta lavoro nella presente società non ha alcuna proprietà privata, né mobile, né immobile. Tutta la proprietà privata è la­voro alienato. Il proletario subisce la alienazione del suo lavoro, che è (parte filosofica) alienazione di sé stesso.

Contentiamoci di questa formulazione umile per introdurre il passo su Proudhon. "Questo svolgimento getta immediatamente la luce su alcune con­traddizioni non risolte sinora: 1) l'economia politica prende le mosse dal la­voro inteso come l'anima propria della produzione, eppure non dà al lavoro nulla mentre dà alla proprietà privata tutto". Non sarebbe una risposta dire che la forma capitale dà al lavoratore il salario. Questo non può dive­nire, in linguaggio umile, nè proprietà mobiliare né immobi­liare. Nel linguaggio alto di Marx questo, il salario in danaro, non potrà mai annullare la estraniazione del proletario dalla natura di uomo che era in lui. Seguitiamo a leggere.

"Da questa contraddizione Proudhon ha concluso in favore del lavoro contro la proprietà privata". (Egli era il vero padre della illusione immediatista viva tal quale ancora adesso). "Ma noi invece ci rendiamo conto che questa contraddizione apparente è la contraddizione del lavoro estraniato con sé stesso, e che l'e­conomia politica non ha fatto altro che esporre le leggi del la­voro estraniato".

"Quindi riconosciamo pure che salario e proprietà privata sono la stessa cosa (leggiamo: una società basata su salario pa­gato in danaro è società di proprietà privata, non comunista, e aggiungiamo il corollario: anche se non ci fossero proprietari fondiari e proprietari di capitale) poiché il salario, anche nella misura in cui il prodotto, l'oggetto del lavoro, retribuisce il la­voro stesso, non è che una conseguenza necessaria della estra­niazione del lavoro, e in­fatti anche nel salario anche il lavoro non appare come fine a sé stesso (lo apparirà quando non sarà pagato, in quanto il prestarlo alla società sarà un bisogno e in quanto soddisfazione di bisogno una vera gioia) ma è al servizio della retribuzione (il lavoro è una venale imposizione). Vedremo ciò minuta­mente più tardi (nel Capitale la parte del valore di scambio della merce pro­dotta, ossia della grandezza capitale, che si chiama capitale variabile, vale il salario dato ai lavoratori, etc.), ora tiriamo ancora soltanto alcune poche con­seguenze".

Sempre contro l'immediatismo

Per noi marxisti nati dopo morto Marx, e nascituri, a parte la minuta analisi delle secolari infamie della forma borghese, quelle "poche conseguenze" erano tirate per i secoli dei secoli. I revisionisti in ondate pestifere le hanno rinnegate.

- "Un violento aumento del salario (prescindendo da tutte le altre diffi­coltà, prescindendo dal fatto che essendo una anomalia si potrebbe mante­nere soltanto con la violenza) non sarebbe altro che una migliore remune­razione degli schiavi (sottolineato in Marx) e non eleverebbe né all'ope­raio né al lavoro la loro fun­zione umana e la loro dignità".

- "Appunto la uguaglianza dei salari, quale è richiesta da Proudhon, non fa che trasformare il rapporto dell'operaio di oggi col suo lavoro, in un rapporto di tutti gli uomini col lavoro. (Adesso maiuscoleremo noi) La so­cietà viene quindi concepita come un astratto capitalista".

- "Il salario è una conseguenza immediata del lavoro estra­niato, e il la­voro estraniato è la causa immediata della proprietà privata. Con l'uno deve quindi cadere anche l'altra".

Diamo a questo punto una nostra formulazione di questa ul­tima tesi, che non arreca altro di nuovo che una traduzione di tipo linguistico (ad altro il nostro lavoro di commento ai testi non pretende). Nelle forme sociali in cui si trova salario, ivi si trova estraniazione del lavoro. Queste forme sociali vanno clas­sificate come forme ad economia di proprietà privata. Una so­cietà quindi come la Russia in cui predomina lavoro salariato (insieme ad altre forme agrarie anche inferiori alla forma mobi­liare capitalista pura) per questo stesso ha una struttura non co­munista né socialista (di nessuno stadio) ma è una so­cietà di proprietà privata, e per la parte industriale (e i sovcos agrari) espres­samente capitalistica.

La domanda: dove sono i capitalisti? non ha senso. La ri­sposta è scritta dal 1844: la società è un capitalista astratto. Po­tremmo dire anche che si tratta di un capitalismo di stato, ma lo Stato è qualche cosa al di sotto di un capitalista astratto, perché lascia fuori di sé strati sociali di capitale; quello dei colcos ed anche quello dei colcosiani, nonché di piccoli manifatturieri e commercianti. Con le ultime riforme di struttura - trattate nelle prime parti del presente rap­porto - altri brandelli del capitali­smo "astratto" si vanno "smistando" tra re­gioni, province ed aziende. La marcia è verso il privatismo e non dal privati­smo in sopra.

Eterno errore di Proudhon

Ci fermeremo ancora brevemente sull'errore - più longevo del nostro secolare puro marxismo - di Proudhon. Accettata, come dialetticamente fa­cemmo anche noi, la dottrina della eco­nomia classica: tutto il valore è lavoro, egli elaborò un pro­gramma rivoluzionario soltanto quantitativo (quindi non rivolu­zionario). Occupare il campo del profitto o plusvalore e ripar­tirlo nel campo salari. Immaginato erroneamente che per tal modo il salario medio di­venisse altissimo, propose che questo enorme "reddito annuo" fosse social­mente spartito in uguali parti tra i membri della società, divenuti tutti operai salariati.

La dimostrazione quantitativa che con tale pretesa rivolu­zione i salari crescerebbero di tanto poco, che non si avrebbe nemmeno "violento au­mento" è forse più intelligibile; ma alla base della nostra dottrina di partito sta la molto più valida obiezione qualitativa: restate sempre nel misero ambito della proprietà privata. Rifiutiamo la falsa eguaglianza non perché nel nostro programma debba essere disuguaglianza, ma perché i vostri uomini econo­micamente uguali, con misura di valore mo­netario, sono uguali all'uomo schiavo di oggi, al proletario, e non sono ancora l'uomo umano, della società senza classi - e senza anche forme impersonali, termine che vale l'astratto del testo di Marx, di proprietà fondiaria e di capitale industriale.

Immediatisti nuovissimi ripetono la ingenuità di Proudhon, ma dopo che da più di un secolo fu svelata, in questo testo come nelle polemiche con Bakunin, nell'Antidühring, nella lotta con Lassalle, nella critica a Gotha (più tardi nella lotta contro i sindacalisti e riformisti e l'onda del revisionismo stali­nista-kru­scioviano). Togliete le persone fisiche degli sfruttatori e finirà lo sfruttamento. Ieri erano un pugno di nababbi della terra e dell'industria, oggi sono uno strato sociale di gente altopagata, funzionari, tecnici, specialisti, etc. Mettiamo tutte le mesate in­sieme e dividiamo in parti uguali.

Centocinquant'anni dopo, questa bambinata è ancora più de­bole. Allora ci imputarono (quelli che ci confondevano coi so­cialisti volgari) di generaliz­zare la miseria, oggi da Russia e da Stati Uniti, con ideologie che si stanno coniugando, provano che il livellamento è già in atto, e i suoi postulati sono svuotati. Ma è ben altro e ben più tremendo quello che noi postulammo, e postuliamo negli stessi termini, a cavallo del trascorso secolo e spregiando la sua civiltà insensata e folle.

Ci resta solo da rispondere che è egualmente straniato da vero uomo il membro della società contemporanea, anche se col­cosizzato di case bestie attrezzi e libretto di banca. La sua estraniazione sta nelle guerre cicliche sterminatrici, nelle crisi di svalutazione della moneta, nella ultima trovata dei debiti su ac­quisti e consegne a vuoto, nella disoccupazione che incombe per le degenerazioni dell'automatismo tecnico, masturbazione della scienza.

La alienazione disumanante sta oggi ancora in un altro sini­stro fantasma, mezzano di quello della terza guerra: la pace tra gli Stati-lupi, veri mostri che nei due massimi vertici, allo stesso titolo, possiamo definire schiavizzatori, estraniatori astratti. Il loro accordo non può non essere che nella condanna della massa degli uomini a restare disumanati.

Aut denaro, aut socialismo

Non è il salario il solo fenomeno economico positivo che ci consente di dichiarare di essere ancora al di qua della caduta della forma capitalistica. Questo stesso concetto lo potremmo esprimere col dire che non vi è ancora socialismo quando al la­voro è dato un valore; e tanto avviene quando ad ogni altra merce è dato un valore di scambio. Sono eguali sterili tentativi di vuoto immediatismo invocare che non abbiano valore le merci, ma ne abbia il la­voro. Sarebbe puro proudhonismo più o meno anarcheggiante. Le sferzate di Marx a Proudhon consi­stono nella prova che egli, esasperando la tesi del lavoro solo valore, in realtà esalta e contrappone il capitale moderno alla proprietà terriera, e distrugge questa a vantaggio del capitale quando crede di farlo a vantaggio del lavoro (vedi sopra: "Proudhon ha concluso a favore del lavoro contro la proprietà privata" - e più avanti: "tutto ciò che Proudhon intende come movimento del lavoro contro il capitale... non è che il cammino della vittoria del capitale industriale"). Idem per gli alti indici produttivi russi!

Che dunque molti altri siano i fenomeni (presenti ad esem­pio nella strut­tura sociale russa) che ci autorizzano a negare la forma socialista, oltre quella del salario in moneta, può riferirsi al seguente altro passo, di poco successivo a quello sulla egua­glianza dei salari.

"Avendo trovato mediante l'analisi il concetto della proprietà privata ba­sandoci sul concetto del lavoro estraniato, alienato, ora possiamo col sussidio di questi due fattori sviluppare tutte le categorie della economia politica, e ritroveremo in ogni catego­ria, come ad esempio lo scambio, la concor­renza, il capitale, il danaro, solo una espressione determinata e svi­luppata di questi primi concetti fondamentali".

L'indubbio e non astruso senso di questo passo è che dove trovo scam­bio, concorrenza, capitale, danaro, etc., ivi ho il di­ritto di dire: forma econo­mica borghese, non socialista.

Ben altre categorie si possono elencare, anche sulla base di questo sin­tetico e perfino monco testo: il risparmio, la divisione del lavoro - ma per il momento ci basta fermarci sul più clamo­roso: il danaro.

Un suggestivo brano del manoscritto è dedicato a questa ca­tegoria infer­nale.

Marx impiega due passi memorabili delle più grandi lettera­ture, il primo è di Goëthe nel Faust, il secondo di Shakespeare nel Timone di Atene. Poi li commenta entrambi. Cominceremo dal passo in cui Mefistofele vuol convin­cere il vecchio dottor Faust che il potere (in effetti diabolico) sul danaro vale il dono della riconquistata giovinezza.

"Eh, diavolo! Certamente mani e piedi, testa e sedere, son tuoi! Ma tutto quello che mi posso godere allegramente, non è forse meno mio? Se posso pagarmi sei stalloni, le loro forze non sono le mie? Io ci corro su; e sono per­fettamente a mio agio come se avessi ventiquattro gambe".

La metafora è chiara, in quanto è, anche perduta, la virilità che è pro­messa come ottenibile da chi disponga di un potere magico che gli apra un conto illimitato sulla banca nazionale; e non importa se Voronoff, al tempo di Volfango, Fausto e Mefi­sto, non era ancora nato.

Ma lasciamo il commento al grande Marx; e non occorre vi diciamo di correre col pensiero alla economia "socialista" calco­lata in rubli da cima a fondo.

"Ciò che mediante il danaro è a mia disposizione, ciò che io posso pa­gare, ciò che il danaro può comprare, quello sono io stesso, io, il posses­sore del danaro medesimo. Quanto grande è il potere del danaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristi­che del danaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, quelle di me stesso, che ne sono il possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia in­dividualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella di tutte le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della mia bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal danaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il danaro mi pro­cura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, sono stupido; ma il danaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il danaro è il bene supremo, e quindi anche il possederne è bene; il danaro inoltre mi toglie la pena di essere disonesto, e quindi si presume che io sia onesto. Io sono stu­pido, ma il danaro è la vera intelli­genza di tutte le cose; ed allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre compe­rarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non ha più intelligenza di ogni uomo intelligente?".

"...non può il danaro forse sciogliere e stringere ogni vincolo? E quindi è esso anche l'universale dissolvitore?...".

Marx si ricollega nel suo interpretare all'altro non meno splendido passo che ha preso da Shakespeare.

Invettiva al più infame Iddio

"Oro! Oro prezioso scintillante e giallo! No, o dei, non vi be­stemmio se invoco l'oro. Esso è tanto potente da fare bianco il nero, bello il brutto, giusto l'ingiusto, nobile il volgare, giovane il vecchio, coraggioso ogni codardo... Egli distoglie il sacerdote dall'altare, strappa il guanciale di sotto il capo a chi riposa. Questo giallo schiavo unisce ed infrange le fedi sacre, benedice i maledetti, rende amabile la lebbra stessa, onora i ladri e dà loro croci d'onore, ossequio ed influenza nel consiglio dei seniori. È desso che ridona lo sposo all'afflitta vedova, profuma di maggio e di gioventù rinnovata la vecchia dalle purulente piaghe che sentiva di ospedale. O metallo maledetto, prostituta oscena degli uomini, tu acciechi nell'odio i popoli!".

E più oltre l'invettiva si cambia in sarcasmo feroce.

"O tu, dolce regicida, nobile agente di dissenso tra padre e figlio! Tu, splendido insozzatore di ogni più puro talamo! Tu, Marte valoroso, tu, sedut­tore eternamente fiorente di giovinezza e teneramente amato, la cui rossa fiamma fonde la stessa bianca neve consacrata nel vergine grembo di Diana! Dio visibile, che leghi strettamente le cose impossibili a conciliare, e le costringi a baciarsi contro natura; o tu, pietra di paragone di tutti i cuori, in­dovina che l'uomo, il tuo schiavo, può ribellarsi, e con il tuo potere getta gli uomini in una tale discordia sconvolgente, che resti alle bestie il dominio del mondo!".

Le parole in maiuscolo sono da Marx sottolineate. Egli con­tinua nel com­mento al più grande poeta inglese dopo quello al più grande poeta tedesco.

"Shakespeare pone soprattutto in rilievo due caratteri del da­naro. 1) è la divinità visibile che trasforma tutti i caratteri umani e naturali nel loro opposto, l'universale confusione e rove­sciamento delle cose. Esso fa fraternizzare le cose inaccostabili. 2) è la meretrice universale, l'universale ruffiano degli uomini e dei popoli".

Il testo prosegue in una esplicita interpretazione delle scot­tanti antinomie dello squarcio scespiriano che per quanto mi­rabile non riporteremo tutta.

Per la conclusione programmatica che qui interessa, circa la inammissibi­lità della moneta come "vero cemento, vera forza chimica di affinità della so­cietà" in ogni economia che non vada condannata e disonorata come privati­sta, riportiamo pochi passi decisivi.

"Il danaro è il potere alienato dell'umanità". Le società dun­que in cui il danaro circola sono società in cui domina l'aliena­zione del lavoro e del­l'uomo, società di proprietà privata, re­stano nella preistoria barbara della umana specie e nel sottosuolo storico del socialismo e del comunismo.

Non è solo il danaro ma è lo scambio, il libero scambio, che caratterizza le forme umane presocialiste e non socialiste. "Siccome il danaro si può scambiare non con una determinata qualità né con un oggetto determinato, né con una determinata delle forze essenziali dell'uomo, ma contro il complesso (leggiamo: contro una qualunque parte) del mondo oggettivo na­turale ed umano; esso dunque scambia, considerato dal punto di vista del suo posses­sore, ogni proprietà contro qualunque pro­prietà, e contro tutti gli oggetti, per questo è la conciliazione degli impossibili..." e qui Marx richiama la frase di Shakespeare sul costringere i contrari a baciarsi.

La traduzione staliniana ha sconvolto questo passo, da cui emerge la in­sanabile contraddizione tra socialismo-comunismo, e scambio monetario, an­che del danaro che l'operaio abbia guada­gnato col lavoro.

Le parole riportate sono state così scritte nella edizione Ber­lino-Einaudi: "il danaro... scambia le caratteristiche e gli oggetti gli uni con gli altri, anche se si contraddicono a vicenda". Un tentativo di falso sciocco, ma falso sempre. Ogni qual volta vi ha scambio contro danaro, sorge di per ciò stesso quella con­traddizione che è alienazione dell'uomo, che è privatismo pro­prietario, che è assenza storica della rivoluzione socialista.

Proprietà e individualità

Tutta la nostra tesi ha la forma di una spietata opposizione tra individuali­smo e socialismo, seguendo il trapasso che è in tutto lo sviluppo di Marx, tanto economico che storico che "filosofico", dall'uomo individuale all'uomo so­ciale, che solo merita la qualità di umano!

Il lettore che scorra il testo dei Manoscritti che andiamo se­guendo rile­verà certamente che, nella forma letterale, non si trova forse una espressa condanna della individualità personale ma in certo modo una sua difesa con­tro lo stritolamento che la forma capitale - mercato - moneta fa del vivente uomo. Lo svolgimento deve però essere colto, se vogliamo riconoscere la nostra classica tesi programmatica - allora ed oggi identica - quando, nella vera e propria nostra guerra dialettica contro gli apologisti borghesi (economisti, politici o filosofi; inglesi, fran­cesi o tedeschi) conduciamo questo uomo, pestato come indivi­duo dalla infamia di classe, alla riconquista. Egli non ritroverà e rioccuperà sé stesso, solingo ed egoista, ma la sua "rientrata dalla estraniazione", la riverserà nell'uomo sociale in cui l'uno e gli uni non si di­stinguono più dalla società senza classi, dalla umanità comunista.

Non noi avremo ucciso la persona umana, ma la bestialità della forma pri­vatista e borghese. Né noi, rivoluzione comuni­sta, le ridaremo vita come era, ma l'avremo trasposta nella per­sona sociale, la prima veramente umana. Sarà così chiusa e se­polta la storia degli individui e la sua spiegazione individuale. Perché quella storia come finora si è svolta non ha elevato l'in­dividuo umano se non nella serie delle menzogne, ma ha proce­duto camminando senza esi­tare sulle montagne di individuali carcasse.

In tale spirito va letto questo passo, ultimo della maledizione al danaro, prima di quello che fa da coronamento al capitolo, che sarebbe comodo attri­buire ad un lirismo di Marx, ma che riserviamo come conclusione trionfale.

"Già in base a questa determinazione (del danaro come mezzo esteriore per ridurre le rappresentazioni immaginarie a realtà, quando fini illeciti e bi­sogni impossibili contro natura diventano veri per il possessore di danaro, e la realtà ad illusione, quando il bisogno di sfamarsi per vivere dell'uomo non è soddisfatto mancando il veicolo danaro) il danaro è dunque l'universale ro­vesciamento della individualità, rovesciamento che le capovolge nel loro contrario e alle loro caratteristiche sostituisce caratteri­stiche contraddicenti".

Poiché è Marx che sottolinea la parola individualità, si po­trebbe incauta­mente vedervi una rivendicazione della indivi­dualità, come contenuto di quel raddrizzamento, che altro non è che il programma della rivoluzione comuni­sta.

Ma il demonio danaro con quella sua infernale potenza di dare a chi non fu promesso, e togliere a chi fu promesso, rove­scia la caratteristica dell'uomo in quanto gli dà quella della be­stia. Non uomo ma bestia chi è sottoposto a prostituire il suo la­voro contro salario (gli operai delle fabbriche di Francia chia­mano la prostituzione delle loro mogli la decima ora di lavoro, e ciò è vero alla lettera - (e altrove) - la prostituzione non è che un aspetto partico­lare della generale prostituzione dell'operaio, ed essendo tanta l'infamia di chi si prostituisce come di chi prostituisce, anche il capitalista entra in questa categoria); non uomo ma bestia chi noleggia l'altrui lavoro per danaro. Se noi invertissimo il rovesciamento ridando all'uomo imbestiato la stessa singolarità che gli dava la società borghese e le sue varie ideologie, lo faremmo rien­trare nella bestia. Ma il comunismo lo eleverà ad uomo facendolo entrare in una nuova essenza umana, attinta sopprimendo ogni cessione ed acquisto per danaro.

In questo senso Marx e i comunisti vincono l'individualismo e soppri­mono l'alienazione dell'uomo da sé stesso.

Il comunismo grossolano

Su di un altro brano importante dei Manoscritti del 1844 tentano gli stali­niani di mettere l'accento: quello che svolge la critica del primo comunismo coevo della grande rivoluzione francese.

Ma questa critica ha solo il senso di negare a quello stadio la potenza di giungere davvero a vincere la disumanizzazione bor­ghese.

Questo stadio segue l'esame dei precedenti, e tutti hanno già in questa base cardinale della nostra dottrina storica la loro spiegazione e la verifica della loro funzione utile.

La opposizione tra proprietà privata e non proprietà (parte dal terzo ma­noscritto dal titolo Proprietà privata e comunismo) è già implicita nelle società antiche, ma nella stessa forma schia­vistica non è manifesta la alienazione dello schiavo, oggetto di proprietà (ricerca da fare sui noti testi per la serie tipica delle forme di produzione). La esigenza di sopprimere la estrania­zione del salariato non proprietario appare dopo che la economia classica ha ammesso che tutta la proprietà è lavoro. I primi ten­tativi di risolvere l'antitesi tra pro­prietari e non proprietari sono storicamente embrionali. I socialisti francesi con Proudhon ri­vendicano che tutta la proprietà terriera sia ridotta a capitale (nulla più in questo degli economisti ricardiani) e passano a li­vellare tutto questo capitale, che è lavoro oggettivato, con un salario (come già trattato) uguale per tutti i membri di questa società capitalista. L'utopista Fourier vede la infamia del lavoro industriale e si unisce a fisiocratici nel voler considerare il la­voro agricolo come lavoro per eccellenza. Invece l'altro grande utopista Saint Simon (altamente ammirato da Marx e da Engels) esalta all'opposto come strada della emancipazione degli operai il lavoro industriale.

Quando il comunismo sorge lo fa come "espressione positiva della pro­prietà privata soppressa, e quindi nella sua prima forma è la proprietà privata generale".

Prima di seguire lo svolgimento dell'importante passo è bene localizzare un poco storicamente ed economicamente i concetti.

L'apparire della produzione per imprese a gran numero di lavoratori tanto nell'industria che nella manifattura, presenta un primo lato che è posi­tivo, ossia la maggiore efficienza del lavoro umano rispetto a quello parcel­lare artigiano o contadino. Questo spiega che alcuni sistemi vogliono spin­gere ai suoi estremi que­sto vantaggio e il loro mito è l'apologia dell'industria. Ma questa grandeggia, riducendo innumeri contadini ed artigiani già pro­prie­tari sia pure in piccole quote di terra e strumenti produttivi (capitale) a miseri proletari. Questo processo espropriativo che sarà svolto nella dottrina della accumulazione iniziale nel Capi­tale, Libro Primo, basta ad infamare le aurore della civiltà bor­ghese e meccanica, ed intanto rende evidente la alienazione da una forma più umana dell'artigiano e contadino, colle difese delle forme medioevali più volte trattate.

Qui la estraniazione è pratica perdita di un piccolo retaggio di una dignità di produttore autonomo e autosufficiente. È chiaro che la inversione della alienazione si presenti come la ri­conquista delle perdute parcelle e la asse­gnazione ad ogni mem­bro della società di una libera parcella.

Questo errore di prospettiva, frutto dei tempi, giustifica il comunismo grossolano. Ma è inutile la insinuazione degli ex co­munisti russi che vorreb­bero seppellire in questo comunismo in­genuo e arretrato le odierne critiche al loro spurio sistema odierno. Tutti i difetti che il marxismo scientifico imputa a questo primo rozzo comunismo sono gli stessi che, ravvisandosi nella so­cietà russa di oggi, autorizzano noi suoi critici a demo­lire la leggenda che essa sia una prima apparizione storica del socialismo e a negare ai suoi bassi apologeti il diritto di dirsi ri­vendicatori del programma classico del marxismo rivoluzionario.

La rozzezza sovietica

Limitiamoci a ricordare la solita discussione sul carattere della proprietà colcosiana che a differenza di quella industriale non è del tutto statale, in quanto per il colcos-azienda è coope­rativa, per le parcelle contadine è sin­gola. Si intende che ci ri­feriamo alla proprietà mobiliare, capitalistica, di at­trezzi e scorte, e non alla terra, finché facciamo uso del linguaggio dei russi, pur avendo marxisticamente dimostrato che in effetti la terra dichiarata appar­tenente alla "nazione", è gestita come pri­vata proprietà del colcos in grandi estensioni, e del colcosiano nei milioni di campicelli.

Quando i russi discutono della proprietà agraria si doman­dano se può come quella industriale divenire la proprietà di tutto il popolo. Stalin disse rudemente di no perché non si può espropriare il colcos, e tanto meno il col­cosiano. Adesso (vedi ad esempio il servile articolo di Rumiansev dato in ita­liano in Problemi della pace e del socialismo di agosto 1959) al tempo stesso si dispregia Stalin per incensare nuovi padroni, si ciancia di mentito aumento quantitativo della agricoltura e di passaggio anche in questa dal socialismo al comunismo (!!), e intanto si di­fende la nuova formula kruscioviana sulla piena disponibilità ai colcos di tutto il loro reddito in modo che si possano autofi­nan­ziare. La formula retrograda tende a celare il rapporto di sfrut­tamento degli agricoli sui proletari, sotto forma di un minore investimento statale nei colcos, cui però sono resi liberi i prezzi di vendita (la stessa Pravda comincia a denunziare gli estremi di questa avanzata sulle spalle dei lavoratori, di sca­tenati "materiali interessamenti"). In economia marxista il reddito dei colcos, vera anonima privata, si compone di profitto di capitale e rendita fondiaria. Finanziandosi con l'autoaccumulazione, il privato col­cos si svela come pro­prietario di terra e di capitale industriale. Non si va dunque verso la proprietà di tutto il popolo, che si sta smantellando a gran ritmo anche nell'industria, ma, con sfaccia­taggine che peggiora quella dello stesso Stalin, si va in senso op­posto.

Ma la formula "proprietà di tutto il popolo" appartiene al "comunismo grossolano" che col solito tecoppismo (o, pei più giovani, teddiboismo ideo­logico) si vuole gettare addosso ai po­veracci del "gruppo antipartito" o si vor­rebbe gettare addosso a noi, se ci si facesse l'onore di vederci.

Il passo di Marx lo proverà, e a noi esso interessa per delu­cidazione teo­retica sul concetto della "personalità". Noi seguiamo Marx quando deridiamo la mitologia odierna della Persona umana, come lui mostrando che gli apolo­geti di questo feticcio sono gli stessi che lo pestano con osceno cinismo come si può fare di una manciata di lumache in un mortaio. Tale sarà il senso dell'ul­tra-colloquio di questi giorni, vero bacio tra gli im­possibili, determinato dal demone dell'oro e del mercato.

Marx e il "comunismo rozzo"

Seguendo lo scorcio storico, dopo il cenno sugli utopisti e sullo "immediatista" (vedremo che questa parola non è un nostro neologismo) Proudhon, Marx porta sulla scena i primi moti che rivendicarono nella lotta sociale (non nella sola letteratura so­ciale) il comunismo come programma.

La sbozzatura dello scorcio è a grandi colpi di scalpello da mazza pe­sante, ed impone, anche in qualche dubbio del testo, un massimo di atten­zione.

"Infine il comunismo è l'espressione positiva (consigliamo di tradurre la sottolineatura di Marx con: non più solo teorica, ma pratica, come postulato di azione umana) della proprietà privata soppressa, e quindi all'inizio è la pro­prietà privata generale. Prendendo questo rapporto nella sua generalità, il comunismo nella sua prima forma è soltanto la generalizzazione, e quindi il compimento (dialetticamente, il conato di soppressione si con­verte in completo sviluppo) della proprietà privata. A questo ti­tolo (quel comuni­smo) si presenta in una duplice forma. Anzi­tutto, la dominazione della pro­prietà privata è ai suoi occhi così tremenda, che esso vuole annientare tutto ciò che non può essere posseduto da tutti come proprietà privata. Poiché per esso il pos­sesso fisico immediato (sciogliamo la nostra riserva: nel comuni­smo propriamente detto l'uomo consegue tutte le facoltà e sod­disfazioni, non per attribuzione individua immediata, ma me­diata, traverso il "salto" della persona "privata" alla umanità co­munista) ha il valore di scopo unico della vita e dell'esistenza, l'attività determinata degli operai (leggi manuali) non viene sop­pressa (come nella società non salariale soltanto potrà essere) ma estesa a tutti gli uomini. Si vuole per atto di forza fare astra­zione dal talento, etc. (leggi non riconosce il lavoro mentale, intellettuale, e meno nobilmente se­dentario)".

Ci si permetta, prima di seguire Marx nel secondo punto imputato ai glo­riosi eguali, ossia la questione sessuale, la comu­nione delle donne, di interpo­lare qualche nostro chiarimento. La vittoria del comunismo non si poteva avere senza un arsenale di armi teoriche possenti, questo è un nostro seco­lare caposaldo. Ci serve l'alta polemica prima ed insieme al materiale terrore. In questi passi si anticipano quelli classici del Manifesto, e si arma il partito comunista mondiale e permanente delle nostre risposte incendiarie alla ipo­crisia diffamatrice borghese.

Noi vogliamo che i capaci di lavoro muscolare soltanto con­trollino la so­cietà, calpestando i sapienti e i poeti? Ma è la vo­stra società capitalistica che tutto fondando sul danaro tutto in­sozza, il lavoro materiale che sarebbe atti­vità bella facile e gradita se non lo umiliasse il salario, quanto il pensiero umano nelle sue manifestazioni, che avete reso venale e succube al vo­stro dio supremo, l'oro, scendendo ogni decennio di più nei turpi bassifondi della vostra civiltà, a cui preferiamo la bellezza vera delle età barbare.

E, anticipando il secondo punto, noi vorremmo, abolendo la vostra forma di rapporto tra i due sessi, la famiglia monogama (certo che lo vogliamo, sarà risposto, anche nel nostro pro­gramma scientificamente marxista) fondare la universale forni­cazione? Siete voi borghesi che avete fatto questo, in alto (vedi crociere di miliardari) scambiandovi le donne come le sigarette di marca tra smaliziati sorrisi, rendendo in basso venale ogni donna e ogni rapporto di amore e "oggettivizzando" socialmente tutta la mezza umanità che è di sesso femminile, e che l'infamia proprietaria opprime nel senso attivo e in quello passivo. La so­cietà di proprietà privata è alienazione dell'uomo in ambo i sessi ed è doppiamente alienazione nel sesso femminile.

Il nostro chiarimento, di cui torniamo a scusarci, riguarda il primo punto, la questione del lavoro manuale e di quello intel­lettuale.

Se il nostro testo sottolinea la parola forza nella frase che si riferisce alla svalutazione del talento, dell'ingegno, è per una chiara relazione al passo del programma di Babeuf in cui è detto che la forza saprà contare più che la ragione. Basandoci non su una critica nostra personale ma sull'insieme di classiche valutazioni marxiste in luoghi che sarebbe lungo spulciare, va an­che messo in rilievo che la frase dei primi egualitari origina intuitivamente da una posizione di classe. Si tratta della nega­zione della ideologia della rivolu­zione borghese che, nel suo sforzo vano di emancipare l'uomo partendo dal pensiero, grazie alla confutazione dell'autorità dei dogmi chiesastici, si spinge fino a fare della Ragione una Dea con altari. Ma questa Dea non aveva più grazie degli antichi santi per gli stomaci vuoti, e un primo moto di rivolta gridò che il pane si conquista con la forza e non con la ragione o la democratica persuasione.

Una simile reazione è consona al pensiero marxista e ricorda la contem­poranea Ideologia Tedesca, in cui Marx colpisce Max Stirner, discepolo di Hegel e poi idolo dell'individualismo anar­chico, che nella sua famosa opera: Io; l'Unico e la mia Proprietà esalta il rapporto di proprietà come "prolungamento" dell'Io (la mano prende l'oggetto e l'utensile...) e si dedica ai giochi di pa­role che Marx dileggia, come quello tra il tedesco Mein (aggettivo mio) e il sostantivo Meinung che vale Opinione.

È buon marxismo il non lasciar mettere la parte mentale e il gioco del cervello prima del rapporto di lavoro nella sua base materiale; e quella vec­chia invettiva alla Ragione-Opinione si collega, sia pure in forma di intuizione primitiva, col concetto rivoluzionario che va chiesta al militante comunista la forza del muscolo che colpisce prima dell'orientamento di pensiero e della "coscienza", come il grande marxista Lenin dimostrò magistral­mente in Che fare?

Ciò nulla toglie alla dimostrazione del comunismo integrale, che nelle pagine che trattiamo rivoluzionariamente, nasceva con tutte le sue qualità e caratteri, e trova una soluzione davvero grandiosa del nuovo scioglimento luminoso degli eterni enigmi umani, che un secolo prima di oggi esplose nella storia, anche nella condanna (che qui ha un grande capitolo) di ogni divisione del lavoro, e nel passo che ricordammo di Engels sullo stupore del filisteo quando gli parliamo dell'architetto che farà il car­rettiere, e che daremo a suo luogo.


Lotta classista ed educazione

Nel quadro del generale travisamento del marxismo che ha la centrale a Mosca si pretenderebbe fare confusione tra la tesi di Marx che distingue il comunismo grossolano storicamente più antico di quello scientifico e teorica­mente definito che si an­nunzierà col Manifesto, ed una millantata superiorità del comu­nismo (!) russo odierno, dovuta al suo compito culturale e di "educazione del popolo", sul vero comunismo di cui la percossa e diffamata nostra sinistra non ha cessato di levare la bandiera.

Quella frase di educazione del popolo ben collima con la democrazia piccolo borghese della peggiore specie. Nel marxi­smo coerente non si tratta del popolo ma del proletariato, e la prospettiva del suo elevamento mentale non si pone come una condizione subdola e disfattista al suo storico compito di ingag­giare e vincere la guerra di classe, ma come un risultato della dittatura di classe e della abolizione sociale delle classi.

Quel primo comunismo della fine del secolo XVIII non po­teva ancora sciogliere dialetticamente la contraddizione per cui la classe manuale ed ignorante diviene la depositaria della nuova luce teoretica e la gerente della umana scienza. La chiave di questo problema sta nella forma partito che con il possesso dei vertici del sapere umano collega la lotta senza esclusione di colpi della classe economicamente sacrificata e ottenebrata, non dalla man­canza di personale cultura quanto dalla pestifera edu­cazione borghese. Marx in quel passo in cui riferisce come in quel primo informe tentativo si condannò il sapere della mente a fronte del vigore delle braccia irrobustite dal lavoro fisico, non disprezzò quello sforzo grandioso ma registrò per la storia come quei nostri precursori coraggiosamente proclamarono che, se al servizio dei ricchi erano i sapienti, i poveri accettavano di attaccare la livida alleanza della ricchezza con la cultura, e se per distruggere la prima occor­reva debellare la seconda non vi sarebbe stato da esitare.

Questo stadio semplice e generoso doveva essere traversato per giun­gere a quello più alto che mezzo secolo dopo era pos­sibile ciclopicamente tratteggiare colla proclamazione che strap­pando alla borghesia il potere e la ricchezza, come sulle rovine delle sue forme di classe nuove se ne sareb­bero erette, così una visione nuova e potente del mondo e della storia sa­rebbe stata levata sulle rovine di quella borghese.

Ora i divulgatori russi vorrebbero porre innanzi che Marx ricuperò il "talento", la "intelligentsia" su cui l'eretico Babeuf lanciò il suo sanguinoso sputo proletario, e paragonare alla nuova e tanto più alta conquista che col marxismo integrale viene data come meta alla rivoluzione, la fondazione - a scim­miottamento di ogni propaganda conformista - delle loro scuo­lette, biblio­teche e forme infinite di diffusione di ideologie pre­fabbricate e preformate in seno al proletariato russo e degli altri paesi.

Ma le tesi di questo corpo ideologico che il colossale appa­rato di Mosca diffonde sono mortifere per la scienza e la "filosofia" marxista, sono impastate di quegli stessi errori, che se alla fine del XVIII secolo erano meritori, dopo la metà del XX sono ignominiosi, per cui tutte le categorie anti-Marx e quindi asinesche e bestiali sono levate a miti ideologici; lo scambio, il danaro, il sala­rio ossia l'alienazione del lavoro e del lavoratore, il risparmio ossia la accumu­lazione del capitale, il livido appe­tito di possesso di una casa, di un campetto, di una scorticella di utensili o di animali, e di una famiglia posseduta dal ma­schio.

Non è qui la rivendicazione del talento, che Marx attinge quando stabili­sce il piano della forma partito entro la forma classe; ma è, questa sì, imbestiata rozzezza e prostituzione degli obiettivi della umana sapienza.

E poiché alla difesa russa della forma famiglia, degna degli stessi regimi precapitalisti, siamo pervenuti, vediamo se que­st'al­tra bestemmia alla scienza comunista e rivoluzionaria possa lontanamente reggersi sui passi di Marx sulla questione sessuale, e la comunione cosiddetta delle donne, di cui an­drebbe accusato un comunismo non ingentilito e borghesemente civile quanto quello che spaccia il Kremlino.

La questione sessuale

Ci riattacchiamo al passo sul comunismo grossolano ove di­ceva: "Si vuole per atto di forza fare astrazione dal talento, etc.". Era questo eccetera di pugno di Marx che ci siamo noi so­pra permessi di sviluppare.

"Il possesso fisico immediato ha per esso il valore di unico scopo della vita e dell'esistenza; l'attività da operai non viene soppressa (nostro postulato) ma estesa a tutti gli uomini; il rap­porto della proprietà privata rimane il rap­porto della comunità col mondo delle cose". Non è dunque la stessa cosa e la stessa rozzezza nella moscovita "proprietà di tutto il popolo"? Per con­fer­marlo e per far posto all'argomento dei sessi, citiamo più avanti un passo de­cisivo. "La comunità non è altro che una co­munità del lavoro, con la ugua­glianza del salario il quale viene pagato dal capitale comune, dalla comunità in quanto 'capitali­sta' generale. Entrambi i termini del rapporto vengono elevati ad una universalità rappresentata: il lavoro in quanto è la determi­nazione in cui ciascuno è posto, il capitale in quanto è la gene­ralità e la potenza ricono­sciuta della comunità".

Questo è uno dei passi in cui è posto in luce meridiana che - a differenza radicale dalla struttura economica russa - nella società comunista e socialista non deve rinvenirsi proprietà di tutti, della comunità, della società, del po­polo, come non deve rinvenirsi lavoro salariato o pagato, né capitale della comunità, etc. Marx qui sottolinea di suo pugno le parole salario, comu­nità, lavoro, capitale. Nella società descritta nel nostro pro­gramma rivoluzionario il lavoro pagato, la proprietà, il capitale non devono essere resi comuni, ma soppressi, scomparsi. Chi non capisce questo è comunista rozzo; ma oggi è uno che tenta girare la ruota all'indietro.

Ed ora possiamo liberamente citare. "Infine tale movimento (sempre del comunismo grossolano) che consiste nell'opporre la proprietà privata gene­rale alla proprietà privata, si manifesta nella sua forma animale: al matrimonio (che è indubbiamente una forma di proprietà privata esclusiva) si contrap­pone la co­munanza delle donne, dove la donna diventa proprietà della co­munità, una proprietà comune. Si può dire che questa idea della comunanza delle donne è il mistero rivelato di questo comunismo ancora rozzo e materiale. Allo stesso modo che la donna passa dal matrimonio alla prostituzione generale, così l'intero mondo della ricchezza, cioè dell'essenza oggettiva dell'uomo, passa dal rapporto di matrimonio esclusivo col proprie­tario al rapporto di prostituzione generale con la comunità".

Sarebbe veramente enorme produrre una tale confusione te­orica e pro­grammatica, che questa condanna recisa di Marx della comunanza delle donne sia scambiata con una difesa del matrimonio monogamo e dell'istituto della famiglia, e volersene servire (come appare chiara intenzione degli editori filorussi) per stabilire che la struttura russa può gabellarsi per comuni­sta pure avendo il matrimonio e la trasmissione ereditaria di pro­prietà.

La proprietà privata generalizzata, Marx ha ora dimostrato, non vale gran che di diverso dalla proprietà privata esclusiva (personale); solo ci inte­ressa storicamente come prima negazione della proprietà privata: ogni primo tentativo di negazione di una forma storica comincia a risolversi nella sua universalizzazione, che in fondo è una riaffermazione. Dire questo non si­gnifica certo riaffermare la proprietà privata esclusiva, come quella da cui si presero le mosse. Quindi la critica del possesso comune delle donne come formula inadeguata non vuol dire che si ria­biliti il possesso privato da parte del maschio. Il comunismo no­stro sviluppato e moderno condanna a più forte ragione la fa­miglia monogama e il matrimonio che Marx dichiara forma di proprietà privata esclusiva.

Marx stabilisce un paragone tra il rapporto tra uomo privato e bene pos­seduto (parte di ricchezza), e il rapporto tra maschio e femmina nel matrimo­nio. Il proprietario privato, poniamo di un campo, è come il "marito-uomo" della "moglie-campo". Nel primo caso il diritto della proprietà vale il poter im­pedire che un altro semini e raccolga, nel secondo caso il rapporto matri­mo­niale vale il diritto di impedire che un altro maschio goda la stessa donna. Ci vorrebbe un bello stomaco ad innestare in que­sta rovente immagine una giustificazione del diritto materiale ben solido nel codice russo (salvo il di­vorzio noto da secoli ai borghesi e preborghesi).

Quando poi Marx vuole liquidare la comunione delle donne (che noi non giustifichiamo come ci è piaciuto fare per la guerra agli uomini colti) svi­luppa il suo geniale paragone e lo chiama "prostituzione generale della ric­chezza con la comunità" quella forma in cui la proprietà privata non è annien­tata ma soltanto generalizzata, e propriamente la "proprietà di tutto il popolo" come dicono oggi in Russia (senza essere giunti manco a questo!).

Degradazione dell'uomo e della donna

Nel citare questi passi è necessario adoperare a volte la pa­rola uomo a volte la parola maschio, in quanto la prima espres­sione indica tutti i membri della specie, di entrambi i sessi. Può essere inutile usare la parola, aspra in italiano, femmina. Quando mezzo secolo fa si fece una inchiesta sul femmini­smo, misera deviazione piccolo borghese dell'atroce sottomissione della donna nelle società proprietarie, il valido marxista Filippo Turati rispose con queste sole parole: la donna... è uomo. Voleva dire: lo sarà nel comunismo, ma per la vostra società borghese è un animale, o un oggetto.

"Nel rapporto (del maschio) con la donna, serva e preda della voluttà (del maschio e anche della propria) si trova espressa la infinita degradazione in cui l'uomo vive lui stesso (nella società attuale, qualunque sia il suo sesso), perché il mistero di questo rapporto (dell'uomo agli uomini ossia alla società borghese) trova la sua espressione non equivoca, incontestabile, manife­sta, sve­lata, nel rapporto tra il maschio e la donna, e nella maniera nella quale è inteso (nella generale opinione odierna) tale rap­porto che è quello imme­diato e naturale della vita della specie. Il rapporto immediato, naturale, neces­sario, dell'uomo con l'uomo è il rapporto del maschio con la donna. Dal carat­tere di questo rapporto (nelle varie forme storiche, vuol dire il testo) conse­gue lo stabilire fino a qual punto l'uomo abbia inteso sé stesso quale essere generico, come Uomo (ritorna la formula che l'uomo ha diritto a tale nome solo dal momento storico in cui non vive più come uomo individuo e per il suo individuo, ma come e per il genere comprendente tutti i suoi simili)".

Continuiamo a leggere questo testo eloquente nelle sue ellissi e nelle sue ripetizioni martellanti. "Il rapporto tra il maschio e la donna è il più natu­rale dei rapporti tra l'essere umano e l'es­sere umano. (Formula più rigorosa di quella: tra un essere umano e un essere umano, che è infetta di individuali­smo). In quel rap­porto dunque si mostra (in ogni tempo) fino a qual punto il comportamento naturale dell'uomo sia divenuto umano, e fino a qual punto l'essere (intendere la parola come verbo più che come sostantivo) umano sia divenuto il suo modo di essere naturale, fino a quel punto (terza formula­zione della medesima tesi) la natura umana sia divenuta la sua propria natura".

Nelle diverse lingue i termini di natura, essenza, modo di es­sere, essere, come verbo trasformato in sostantivo, ed anche altri, possono apparire inter­cambiabili e di comune significato. Per tale motivo questi passi possono stan­care il lettore, che non li spieghi con il complesso di tutto un sistema di dot­trine mani­festatosi per lunghi campi di tempo e di spazio, come giochi di pa­role che non aggiungano nulla di nuovo alle posizioni di par­tenza.

A solo titolo di collaborazione con il lettore ci proviamo ad aggiungere uno svolgimento nostro, che nella forma storica e narrativa diviene forse più afferrabile. Poco sopra il testo ha detto che dal comportamento degli uomini nei rapporti tra i due sessi si può leggere il grado di sviluppo a cui l'uomo è giunto; e nella traduzione moscovita è detto: il grado di civiltà, termine che è tutto latino e non è nella lingua tedesca... né in quella marxista. Escludiamo e lo verificheremo a suo tempo, che Marx abbia usato il pallido equivalente Kultur, degno di Hitler.

Bestie o angeli?

La specie umana nelle sue forme storiche sociali percorre un cammino, diremo per chiarificare (non uno per calarci nei fan­ghi mobili delle presen­tazioni concrete), dallo stato animale in oltre. Le banali concezioni delle ideo­logie dominanti vedono in questo cammino una ascesa continua e costante; il marxismo non condivide questa visione, e definisce una serie di alternanti sa­lite e discese, intermezzate da violente crisi. Naturalmente la progressiva graduale avanzata degli illuministi borghesi si vanta di aver superata la posi­zione fideistica, di un istante della storia in cui è avvenuta una "redenzione", per grazia del Dio, che ha segnato la svolta dalla animalità alla spiritualità. Noi non ri­diamo nello stesso tono fatuo dei borghesi di questa ingenua costru­zione; quella dei progressisti forse non è di essa meno arbitraria e meno fitti­zia; senza forse esprimere meno valida­mente una vera conquista della nostra specie, ospita ancora più di errore e di menzogna delle vecchie narrazioni mistiche.

Nello stato animale la vita della specie non è assicurata da una produ­zione, ma da un rapporto immediato con la natura in cui per un momento si può presentare l'individuo che si assicuri la vita, senza rapporto con quella della specie, e trovante nella natura il modo di soddisfare da sé e per sé il suo bisogno im­mediato e "naturale". La dottrina borghese della produzione, una volta che con Marx le abbiamo strappato il suo turpe segreto, appare una perpetuazione del punto di partenza animalesco più che un passo verso il punto di arrivo divino di cui eravamo stati illusi nei millenni. Ma la tappa a cui noi tendiamo, avendo volte le spalle allo stato bestiale - naturale e per tanto non ignobile - non ha bisogno di modelli in angeli e spiriti, ed è soltanto umana. I suoi caratteri riteniamo la scienza della nostra specie capace di anti­ciparli prima dei tempi, senza che debba interve­nire miracolo ma sul piano della visibile e palpabile realtà. Ed allora proviamo che nella società di oggi, uscita dalla rivolu­zione liberale, siamo ancora più dalla parte della natura bestiale che di quella "umana".

Conteniamo la nostra digressione (se non vogliamo che abbia il risultato opposto) alla questione del sesso. Sembrerebbe che qui l'animale soddisfi il suo bisogno con una identità di rap­porto a quello del cibo: trova nella natura ambiente il sesso complementare e si congiunge. Ma già qui il rapporto non è più individuale: la stessa spinta di ognuna delle bestie in ansito d'a­more è una determinazione che, senza fantasie finalistiche, de­riva dalla esigenza di con­servare e sviluppare la specie.

Guardiamo bene prima di stabilire se ci siamo sbestiati, o imbestiati! L'a­nimale non trova cibo contro danaro ma imme­dia­tamente e naturalmente. E nemmeno trova amore contro da­naro. Che lotti per cibo ed amore col suo simile in dati casi, non sposta questo dedurre.

L'uomo, la cui natura non si è ancora - Marx dice - levata fino ad essere umana, trova contro scambio e danaro cibo ed amore, si nutre in quanto un altro ha fame, e si sazia di voluttà se altri stanno in rapporti di dolore sottobe­stiali.

Questo il senso dell'animale uomo nello stato proprietario, che vorremmo chiamare un momento: homo insipiens proprieta­rius.

L'animale detto "irrazionale", quando accede alla funzione sessuale, so­stituisce alla propria avidità di singolo la determina­zione superiore della sua specie. Si dice allora che i suoi atti sono dettati dall'istinto, forza della sua na­tura e della natura tutta, cui il singolo obbedisce come se sapesse e ragio­nasse, ma senza che possa ragionare e sapere. L'uomo non starebbe molto più su della bestia, se per comportarsi come specie e come so­cietà e per avere a differenza della bestia una storia (come il nostro testo espone) do­vesse essere investito da un afflato extra natura, soprannaturale.

Questa fu una prima ingenua embrionale formulazione del misterioso procedere. La religione è un ponte storico per cui dall'istinto del bruto si passa alla consa­pevolezza delle leggi del comportamento di specie. Guai però se questo ponte non fosse mai stato gettato con le sue arcate mitiche!

Questo nostro te­sto ha molti strali contro la pochezza dell'a­teismo borghese, e nella sua so­stanza mostra quale discutibile evoluzione sia stata quella dal trascendentali­smo all'immanenti­smo, altro ponte che tuttavia la storia non poteva evitare di gettare.

La forza del nostro materialismo sta nel disegno della nostra avanzata la quale si fa senza uscire dalla natura, anzi rientran­dovi dopo che per risol­vere l'enigma era stato necessario uscirne un momento e postulare un Primo Motore immateriale.

Il genere umano con la gamma infinita dei suoi rapporti sta nella natura come parte integrante, e non vi è una sfera di questi rapporti che si ponga fuori delle norme di natura, sfera retta da un Dio, o dallo Spirito, piccolo idoletto pensato, lui, soletto e singolo, pertanto innaturale e disumano.

Perché la nostra ascesa da genere vivente a genere razio­nante, che non ha luce da istinto ma da scienza, se ha un se­greto, è quello che la conoscenza della determinante natura di cui l'umanità è parte non subordinata ma anche non soprordi­nata, non si attinge dal singolo che pensa né da una face che passi di mano in mano, ma si attua nel salto rivoluzionario dalla pretesa storia fatta da persone all'immedesimamento di ogni uomo vivente con la futura e sicura collettività umana, di cui nel senso dialettico il partito marxista e la sua dottrina sono una proiezione anticipatrice nel tempo.

L'amore che un lancio geniale della umana scoperta ha nelle parole di Marx eletto a termometro della avanzata, rivelerà al­lora che non sarà più uno sfamare soggettivi irre­sistibili istinti impressi al bruto, ma prova della conquista collettiva della con­sa­pevolezza e della gioia illuminata.

Amore, bisogno di tutti

Chiesta scusa del nostro sommesso rimpolpettare possiamo leggere un altro tratto.

"Si dimostra egualmente in quel rapporto (nella storica evo­luzione del rapporto tra i due sessi) fino a qual punto il bisogno dell'uomo (e qui va sentito il passaggio dalla dinamica del biso­gno di amore, scelto come pietra di paragone, a quella di tutti i bisogni, che nell'epoca dell'individualismo mer­cantile si chia­mano economici e che abbiamo sanguinosamente sferzati col ri­durre la loro gamma falsamente allucinante per la morbosità di droghe alla mi­seria di un unico scarno livido bisogno, quello del danaro) è diventato biso­gno umano: fino a qual punto l'altro uomo, in quanto uomo, è dunque dive­nuto un bisogno per lui; fino a qual punto la sua esistenza, anche nelle sue manifestazioni più individuali (quali sono quelle fisiologiche fino alle tempe­ste delle glandole endocrine, diamo quale chiosa esatta dell'agget­tivo indivi­duali) sia divenuta l'esistere stesso della comunità".

Il concetto che per l'uomo umano, tratto dalla possanza della nostra dot­trina sulla Terra dal pianeta extrasolare (direbbero oggi quelli della fanta­scienza) di un futuro osservabile, ma non preso a prestito da un paradiso di angeli sterili, sia soddisfa­zione e gioia l'adempiere il bisogno dell'altro uomo, e non più cappio da stringergli la gola, si trova svolto in altri passi di questa trattazione, e in modo lucente nel commento a margine di Mill che abbiamo letto alla Riunione di Parma (vedi n. 21 del 1958, paragrafetto "grandi schemi della società futura").

La conclusione di questo brano di Marx sarà severa per il comunismo grossolano, e perciò aggiungeremo qualche conside­razione sempre su que­sto punto difettoso della comunanza delle donne. Indubbiamente è questa una concezione proprietaria che vede nella femmina la proprietà passiva del maschio, ed esa­spera il vizio della società individualista, senza che questo sia tolto da una specie di proprietà del sesso maschile su quello femminile, che arieggia la proprietà di tutto il popolo sui beni nazionali!

Questa proprietà di tutti i maschi su tutte le donne che non vede come il rapporto sia lo stesso per cui il maschio individuo considera la donna preda e merce, rivela dunque esattamente come sia insufficiente il superamento del rapporto di proprietà privata fino a quando l'uomo, di ogni sesso, resta sala­riato di una potenza capitalista coprente tutta la società.

Come chi lavora per danaro resta estraniato e "passivo", nel comunismo rozzo-russo, così la donna in questa formula rudi­mentale di comunanza di tutte le donne rimane schiava e pas­siva quanto nella famigliola monogama. Il rapporto dei sessi nella società borghese obbliga la donna a fare da una po­sizione passiva un calcolo economico ogni volta che accede all'amore. Il ma­schio fa questo calcolo di posizione attiva bilanciando una somma stanziata per un bisogno soddisfatto. Ossia nella società borghese non solo tutti i biso­gni sono tradotti in danaro, e que­sto anche per il bisogno di amore nel ma­schio, ma per la donna il bisogno di danaro uccide il suo bisogno di amore. Si verifica quindi l'uso della chiave del rapporto sessuale sociale, al fine di pe­sare la ignominia di una forma storica.

La civiltà non si è dunque ancora liberata dalla considera­zione che per la donna l'amore è rapporto passivo, come quando era immolata allo jus primae noctis, o trascinata in ceppi nel ratto delle Sabine. In effetti secondo natura la donna, essendo l'amore il fondamento della riproduzione della specie, è il sesso attivo, e le forme monetarie tratte con questo vaglio si rivelano contro natura.

Nel comunismo non monetario come bisogno l'amore avrà lo stesso peso e senso nei due sessi, e l'atto che lo consacra realiz­zerà la formula sociale che il bisogno dell'altro uomo è il mio bisogno di uomo, in quanto il bisogno di un sesso si attua come bisogno dell'altro sesso. Questo non è ponibile come solo rap­porto morale fondato su un certo modo del rapporto fisico, per­ché il valico sta nel fatto economico: i figli e il loro onere non riguardano i due geni­tori che si congiungono ma la stessa co­munità.

Dove questo problema è risolto traverso l'istituto ereditario (per via pa­terna, o ancora di maggiorasco) ivi la forma proprie­taria privata domina total­mente.

Il comunismo primitivo

La condanna di Marx a scuole e programmi che insieme al salariato e al mercato generale proclamarono la comunanza delle donne si rivolge a for­mulazioni della fine del secolo diciotte­simo. Talvolta però il testo che abbiamo allo studio accomuna questo oggetto di critica, il primo comunismo grossolano contro­proposto alla nascente forma capitalistica, in qualche cenno, alla vera epoca storica, lontana millenni, del comunismo primitivo tribale. Questa forma è rivendicata in tutta la letteratura marxi­sta e in pagine fondamentali di Marx e di Engels. Senza esclu­dere la necessità che tra quel comunismo antichissimo e il co­munismo per cui lotta il moderno proletariato, intercorressero le forme che nacquero colla proprietà privata, le società di classe, e la tradizione del sovrapporsi delle loro "culture", una franca apologia di quella prima alta forma è in pagine del Capitale e della Origine della Famiglia, della proprietà e dello Stato.

Nella coerenza di tutta la nostra dottrina ben possiamo sag­giare quella forma primigenia alla luce della struttura sessuale. Vi troveremo la grande luce del matriarcato in cui la donna, la Mater, dirige i suoi maschi ed i suoi fi­gli, prima grande forma di potenza naturale nel vero senso, in cui la donna è attiva e non passiva, padrona e non schiava. La tradizione ne resta nella fa­miglia latina; mentre il termine famiglia viene da famulus, schiavo, il termine donna viene da domina, padrona. In quel primo comunismo, rozzo sì, ma non proprietario né pecuniario, la forma-amore sta ben più in alto che al tempo dei ratti leg­gendari; non è il maschio che conquista la donna-oggetto, ma la Mater, che non vorremo chiamare femmina, che elegge il suo maschio per il compito, a lei trasmesso in forma naturale ed umana, di diffusione della spe­cie.

Riporteremo ora la fine del passo sul primo tipo di comuni­smo che il testo considera, muovendo verso la comprensione del comunismo integrale.

"Il comunismo grossolano non è dunque che una forma fe­nomenale della abiezione della proprietà privata, forma che tenta di porre sé stessa come comunità positiva e costituisce tut­tavia la prima soppressione positiva (programmatica, di lotta, torniamo a chiosare) della proprietà privata".

Il primo tipo di comunismo apparso nella storia come movi­mento che pre­senta un proprio programma, non fu dunque che un tentativo ("tenta di porre sé stesso") di costruire il pro­gramma della struttura della "comunità positiva", ossia della co­munità per la quale dovrà nel tempo "passare". Quelle formula­zioni possono essere utilmente chiosabili e chiarificabili, a con­dizione di farlo usando adeguatamente tutto l'apporto della sto­ria del marxismo non tralignato; ma nella loro stesura, che con­sideriamo da rispettare intatta, confermano che non vi è metodo rivoluzionario, non vi è teoria della rivoluzione operaia, non vi è dottrina marxista, se non si dichiara di essere giunti all'epoca in cui è possibile costruire la descrizione delle ossature della società comunista. Questo fu possibile in una epoca critica, che poniamo al tempo del Manifesto, dopo la quale teniamo per sterco i conati di ritocchi revisionisti, o ipocrita­mente perfezio­natori.

Non solo fin da allora, ma fino dal tempo di Babeuf, è evi­dente e irrevo­cabile la manifestazione di quanto sia schifosa la forma proprietaria capitalista, e questo materiale di accusa è insito nel conato del comunismo grossolano, perché esso giunge a porsi davanti la "forma fenomenale della abiezione della pro­prietà privata". Un risultato storico gigante.

Ma il decorso della forma capitalistica e la reazione di classe da essa pro­vocata non erano ancora bastati per erigere la dot­trina della morte del capita­lismo, della rivoluzione proletaria, e della società comunista.

Mentre dunque il tentativo di tracciare il programma della società futura non può essere che embrionale e anche deforme, tuttavia esso costituisce la prima soppressione positiva della pro­prietà privata delle parole incise nel manoscritto di Marx. I Co­munisti grossolani seppero che cosa volevano di­struggere, ma non potevano ancora sapere la palingenesi grandiosa che dalle rovine della distruzione sarebbe uscita. Siamo noi che lo sap­piamo.

Le forme apologizzate in Russia oggi non sono quelle che la nostra dot­trina promise e noi attendemmo. Esse risentono di quelle insufficienti, che come programma si abbozzò il comuni­smo grossolano. Ma quello era tenuto a fare scattare l'urto di distruzione e non ad altro. Quelli erano alti precursori, questi di Russia bassi traditori.

Tra i due resta, intangibile, la dottrina del comunismo che non conosce solo la sconfinata abiezione del mondo borghese ma anche i caratteri sublimi del mondo comunista.


Le coppie al vertice

Una applicazione fedele del metodo scolpito da Marx circa il rapporto sessuale ben si attaglia a spiegare l'evento di questi giorni che è echeggiato dai massimi idioti clamori.

Gli Stati della borghesia non solo nella forma delle monar­chie, ma in quella della più democratica delle repubbliche, si fanno rappresentare nelle supreme parate dalla coppia vertice dello Stato, Re e Regina, Presidente e Madama del presidente, la cui funzione sociale è solo di accoppiarsi (forse) con lui nel­l'alcova. Teorizzabile per le monarchie, vomitivo in pieno per le repubbliche, che a ragione i nostri testi assimilano.

Che diremo se nella stessa prassi sguaiata si ravvoltola, tra miliardi di ammirati imbecilli, lo Stato che pretende avere bru­ciato tante tappe della sto­ria, da bestemmiarsi a cavallo tra so­cialismo e comunismo?

Non avrete dunque coppie nella società comunista? doman­deranno i pi­velli. Ve ne saranno, e se vorranno esservene per reciproca intesa non le scioglierà la forza bruta né l'oro. Marx non ha ucciso l'amore, e per suo conto fu un monogamo esem­plare. Ma noi non trattiamo le vicende del citta­dino Marx.

Noi vi domandiamo se idealisti e poeti hanno scritto dell'a­more in modo così alto, come quello che si tratta di intendere.

"Ponete l'uomo in quanto uomo, e il suo rapporto col mondo, come un rapporto umano, e voi non potrete che scambiare amore con amore, fiducia con fiducia... Se tu mi ami senza provocare amore in ritorno, cioè se il tuo amore non sa produrre altro amore che vi corrisponda, se nel manifestare la tua vita come uomo che ama non sai fare di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, e il suo nome è infelicità".

Tre stadi del comunismo

Nella riunione e ancora più diffusamente in questo resoconto abbiamo arrecato un contributo, a cui si aggiungerà quello di altre riunioni e tratta­zioni, al retto intendimento delle prime e definitive tavole del Marxismo teo­retico. La loro posizione da­vanti alle "culture" tradizionali ed alla filosofia è del tutto nuova ed originale, e gli uomini sono oggi dopo più di un secolo dal documento molto lontani dall'averla acquisita - per numerosi che siano nel mondo quelli che al nome del marxismo si richia­mano.

La contrapposizione alla filosofia, ancora oggi presente, di natura specu­lativa e cerebro-personale, dovrà essere ulterior­mente trattata. La filosofia che storicamente precede questo passo gigantesco dell'uomo viene come abbiamo più ampiamente presentato: 1. Utilizzata; 2. Criticata; 3. Eliminata. Basti questo passo di poco successivo nell'ordine materiale del densissimo manoscritto (non preparato dall'autore per la pubblicazione e quindi libero dalle esigenze correnti dell'ordine e dell'indice) a quelli testé esposti.

"Lo si vede, non è che nello stato sociale (la società comuni­sta) che il soggettivismo e l'oggettivismo, lo spiritualismo e il materialismo, l'agire ed il patire, perdono le loro contrapposi­zioni (antichissime polarità tra cui il freddo pensiero credeva di doversi aggirare in eterno) e perdono quindi la loro esistenza in quanto opposizioni; si vede (per la prima volta nella storia) come lo scioglimento delle opposizioni teoretiche sia possibile soltanto in maniera pratica; soltanto attraverso la energia pratica del­l'uomo, e come questa so­luzione non sia affatto soltanto un compito della conoscenza, ma un compito della vita che la filo­sofia non poteva adempiere, proprio perché essa intendeva un tale compito come soltanto teoretico".

Senso di questo passo a cui per ora ci fermiamo è che solo un partito di lotta in seno alla società può chiudere, ereditan­dolo, il compito della eterna disputa tra ideologi, e che nello stesso tempo solo questo organo rivoluzio­nario può - dal mo­mento di quella esplosiva illuminazione che prese posto a mezzo il secolo scorso - mentre prepara l'assalto in armi al vecchio mondo, possedere la visione suprema della conoscenza che sarà propria della so­cietà futura, anzitutto come descrizione di tale società futura, e poi come sola disponibilità conoscitiva del "segreto" che risolse una volta per sempre, e in quel solo colpo, i millenari enigmi.

Il comunismo è qui considerato in tre tempi nella sua appa­rizione storica. Abbiamo lungamente seguito il N. 1, comunismo grossolano. Ci riserviamo di svolgere il N. 2 che chiameremo comunismo riformista utopista, che vuole partire dallo Stato per usarlo come strumento sulla società, quasi materia pla­stica, e mostreremo che quel brevissimo passo liquida la forma reazio­naria, democratica (e libertaria) del socialismo, tutte da noi aberranti per fallo di "immediatismo". Abbiamo citato all'inizio il N. 3, il comunismo integrato, col suo grido di scoperta e di vittoria che taglia il nodo delle esasperanti antitesi tra natura ed uomo, esistenza ed essenza, oggetto e soggetto, individuo e ge­nere, libertà e necessità. Ed ancora: pensiero ed azione, spirito e materia. Esso, al trapasso indicato del mezzo Ottocento, ripetia­molo come se fosse una professione di fede, è la soluzione del­l'enigma della storia: ed è consapevole di essere questa solu­zione!

È in questo testo che indichiamo la prova che è sostanza se­colare del marxismo rivoluzionario la nostra tesi della sua "invarianza", opposta a revi­sionisti, traditori, e più recenti ag­giornatori, arricchitori, e ritoccatori di vili or­pelli infami.

Lo ribadiscono le parole, che nella edizione staliniana se­guono: "L'intero movimento della storia e quindi l'atto reale di generazione del comunismo - l'atto di nascita di esso nella sua esistenza empirica (che comin­cerà nel domani) - ma è anche, per la sua coscienza pensante, il movimento del divenire della storia stessa, compreso e reso cosciente (per il co­munismo di oggi)".

Quale è il soggetto di questa coscienza? Il singolo, come negli antichi (pur necessari) vaneggiamenti del filosofare? La massa umana come nella il­lusione ipocrita demoliberale; e nella peggiore finzione del populismo sovie­tico?

No, la sede di questa consapevolezza teorica è nel partito di classe, or­gano politico del proletariato rivoluzionario mondiale, da quel tempo costitui­tosi, e destinato a vincere tutte le crisi che lo fanno confondere dagli infelici immediatisti con antiche turpi forme, e anche odierne, della società proprie­taria.

Invidia e avidità

Nel nostro trattenerci a fondo sul N. 1, il comunismo gros­so­lano, per cui i propagandisti filorussi hanno cercato di agire da mosche cocchiere nel con­dividere la critica alta di Marx, che non possono intendere, ci siamo dovuti attenere al nostro argo­mento, che nella esposizione orale e scritta è stata l'a­nalisi della tralignata struttura russa. E riservando alla parte futura quanto ab­biamo indicato, vogliamo fermarci su un altro carattere che Marx imputa al comunismo rozzo, e che noi ci sentiamo il di­ritto di imputare, sulla linea di quell'insegna­mento, alle odierne direttive russe.

"L'invidia generale, e che si organizza come una potenza, non è che una forma mascherata sotto cui si presenta la materiale avidità; la quale si procura per tal via una diversa fittizia forma di soddisfazione. La prima idea di abbattere ogni proprietà pri­vata come tale è almeno rivolta contro la proprietà privata più importante (quella dei più ricchi) sotto forma di invidia e di aspirazione al livellamento. Ma invidia e il desiderio di livella­mento (tra miseria e ricchezza) costituiscono l'essenza della con­correnza (su cui si fonda la società privatistica). Il comunismo grossolano non è che il compi­mento di questa invidia e di questo livellamento partendo dal punto di vista del minimo rappresen­tato (nella presente distribuzione sociale)".

La posizione del comunismo rozzo è qui ridotta da Marx a quella del di­seredato che afferma: purché io non veda un ricco che goda, meglio che con una partizione generale siano tutti i membri della società ridotti ad una miseria uguale, pari o di ben poco superiore alla mia attuale. Il testo infatti respinge la dipintura ingenua di una società di uguali in cui tutti siano ri­dotti malnutriti malvestiti ed anche ignoranti, purché si eviti la vista ossessionante di pochi che godono e stanno bene. Questo movente è indubbiamente molto lontano da quello che noi po­niamo come forza di base nel comunismo nostro, nel terzo sta­dio. Noi vogliamo che il godimento di un altro uomo che può larga­mente soddisfare il suo bisogno sia non solo godimento no­stro, ma si identifi­chi col nostro stesso bisogno, e dimostriamo che solo ponendo fino da ora questo programma noi arriviamo alla sconfitta e distruzione del mondo della proprietà privata. Quella prima strada presa andava in direzione opposta, se faceva leva sul desiderio che l'altro uomo stia male, e non su quello che stia bene, come condizione del mio stesso benessere.

Il testo stigmatizza quindi vivamente le prime dipinture di una società che per raggiungere la eguaglianza riducesse tutti i suoi componenti entro un raggio di bisogni primitivi, e nega il carattere di una vera umana conquista a questo "ritorno alla semplicità, che è contraria alla natura, dell'uomo povero e senza bisogni, che non solo non è andato oltre la proprietà privata, ma che non vi è nemmeno pervenuto ancora". Siccome il passo im­puta a queste prime ingenue dottrine "la astratta negazione della cultura e della civiltà", i moderni ipocriti vorrebbero salire a cavallo di questa invettiva per giustifi­care le odierne loro smac­cate apologie della cosiddetta civiltà borghese, tec­nica e scienti­fica e superproduttiva, e creatrice di bisogni morbosi. Qui Marx ha di mira più che Babeuf lo stesso Rousseau, che voleva risol­vere la trage­dia dell'organizzazione sociale nefasta col ritorno allo stato di natura, maestro in questo a molti comunisti utopisti. Ma di tali autori Marx ha fatto sempre alti elogi, pur distin­guendone nettamente la nostra superiore teoria, e nel rifiu­tare la loro non sensata rinunzia non ha certo inteso passare dal lato della di­fesa della civiltà capitalistica, delle cui infamie è stato il primo denunciatore, anche se non aveva visto quelle tanto più enormi note alle nostre genera­zioni.

Ma questo tema della ricchezza egoistica e della gamma so­ciale delle umane conquiste è stato e sarà svolto. Quello che ora interessa è che la con­danna dell'ingenuo naturismo sia diretta contro l'invidia economica, motore spregevole degno degli im­mediatisti, ma non dei marxisti completi. Orbene, quel motore della invidia e della cupidigia non è la stessa cosa dell'incentivo materiale introdotto nei recenti congressi russi come movente della produ­zione per gli sventurati lavoratori russi salariati e per gli avventurati contadi­notti colcosiani?


Emulazione = concorrenza = invidia

La posizione di classe del proletario rivoluzionario comunista si può bene esprimere con la formula esecrata dal legalismo borghese - e ormai sconfessata dai filorussi - dell'odio di classe. Non vi è lotta colle armi senza che il combattente odii gli av­versari, e senza tale lotta il sistema capitalistico non cadrà. Noi qui odiamo la classe dominante anche e soprattutto quando sappiamo vederla non in un agglomerato di persone gaudenti (il che davvero è un socialismo grossolano) bensì in una potenza mondiale che forma osta­colo alla vittoria del partito rivoluzio­nario e quindi alla luce e alla gioia per tutti nella società co­munista futura. Chi ha colto il passaggio storico dialettico nella sua potenza non si ferma un istante in imbarazzo (sarebbe dav­vero pi­vello!) davanti alla abusata obiezione che stupisca di ve­dere odio generatore di gioia, e armata guerra di classe genera­trice di serena pace futura. Marx disse che egli non aveva sco­perto il fatto palese e generale della lotta di classe, ma il suo scioglimento futuro nella dittatura del partito classista; e ciò distingueva il suo sistema.

La spinta che chiama i seguaci del partito rivoluzionario a riunirsi in lui comprende l'attesa e l'ansia per questa lotta fi­nale, fino al terrore rosso; ma sarebbe pietoso ridurla alla posi­zione di chi si adira perché vede che non tutti soffrono come lui e vuole vendicare le sue sofferenze capovolgendo il rapporto. Nella società presente non occorre patente di rivoluzionario a chi si dibatte per togliere all'altro un po' di ricchezza. Questo povero che vuole divenire ricco ha il diritto di essere conside­rato un benpensante, perché si comporta come tutti i borghesi ed è guidato dalla dinamica della economia e anche della morale borghese. Marx in questo passo ha detto che questo sti­molo li­vellatore per anelito di cupidità ed invidia non differisce dalla concor­renza di una ditta o di un uomo economico contro gli al­tri, che è la leva stessa, in pratica e nelle ideologie, della eco­nomia borghese.

Dai primi passi del movimento operaio, e prima ancora che lo permeasse la sua propria integrale teoria politica, fu chiaro il contrasto tra la ideologia concorrenziale per cui il progresso collettivo nasce solo da questa gara tra singoli per scavalcarsi, e la solidarietà tra i lavoratori sacrificati. La concor­renza tra sala­riati sarebbe l'ideale per il padronato che, lusingandone ben po­chi per una elevazione del magro compenso, giungerebbe a rea­lizzare da tutta la massa un profitto maggiore. Alla potenza della classe dominante tra i cui membri vigeva la lotta di con­correnza, i lavoratori contrapposero l'arma della solidarietà, e tentarono di avanzare tutti insieme con un patto, una lega fra­terna, che condannasse la lotta economica dell'uno a danno del­l'altro. Molto più alta, ma nello stesso senso, di questo primo as­sociazionismo, va la dottrina socialista di partito. Condan­nando ogni concorrenza propria del bor­ghese e piccolo bor­ghese, il socialismo, e comunismo, non si riduce allo scopo in­dividuale di migliorare sé stesso, ma a quello di migliorare tutta la società, sola liberazione della classe dominata.

Quando in Russia hanno recentemente liberata la cupidigia del singolo agricolo (ed anche artigiano, piccolo commerciante, e così via), presentan­dole come cosa legittima la ambizione di salire più in alto nel reddito econo­mico, hanno reso omaggio a questo lievito capitalistico della economia, che è la maledetta strega "concorrenza", dando una prova cruciale che tutta la struttura sociale è mercantile, pecuniaria, bassamente capitali­stica. Con ciò quello che pretende essere il modernissimo co­munismo è dimostrato pieno delle pecche del comunismo di partenza, di quello rozzo e grossolano, il quale tuttavia nella sua ingenua rivendicazione di livellare tutti ad uno stan­dard eco­nomico umile non portò un attacco tanto disfattista alla solida­rietà ri­voluzionaria, quanto la campagna russa di piccolo bor­ghese egoismo perso­nale e domestico, oggi infocolata dall'ultima nequizia, la introduzione delle vendite a credito, stimmate squisita dello schiavo salariato contemporaneo.

E questo principio, che scatena all'interno l'incentivo a sca­valcarsi pecu­niariamente l'un l'altro, imbevuto della taccia peg­giore del comunismo in­completo e rozzo, trionfa poi quando la parola eufemistica di emulazione viene usata come foglia di fico sulla oscenità della concorrenza, ed applicata allo sviluppo in­ternazionale, ove non ha altro senso che di livellamento e pa­reggiamento tra i vari sistemi capitalistici, in tutta analogia col fatto che due padroni in concorrenza tra loro sono allo stesso titolo borghesi carogne.

Tavole programmatiche di partito

La nostra tesi conclusiva, che ha una portata oltre che cono­scitiva e teo­retica del tutto pratica ed organizzativa, è quella che il partito comunista non può condurre la sua lotta traverso la storia (come non lo potrebbe il proleta­riato senza la sua orga­nizzazione in partito, che una volta per sempre postulò il Mani­festo dei Comunisti nel 1848) se non subordina la sua azione per un percorso secolare addirittura a chiare tavole programmatiche. Queste, rac­cogliendo quanto di fondamentale presenta la teoria e la prassi del partito, possono considerarsi condensate in tesi precise fin da quell'epoca, di cui ci andiamo occupando, in cui fu evidente lo scopo e il contenuto della lotta sto­rica della classe operaia contro il capitalismo moderno.

La struttura di queste tavole fondamentali è insita in larga parte nel testo del Manifesto stesso. Ma il Manifesto costituisce una precisa norma di azione nel mondo di una data epoca, e non soltanto il bagaglio di azione e di dottrina comune a tutti i tempi, oltre che a tutti i paesi.

Quindi, il Programma base di tutto il movimento deve essere costruito collegando le tesi centrali che il Manifesto enunciò in modo pubblico a mezzo l'Ottocento, con quelle che figurano nei testi nostri classici come vi­sione generale della storia passata e futura della specie umana, in tutte le sue manifestazioni, e quindi con quel primo scioglimento degli eterni enigmi, che con audacia incomparabile (possibile solo in chi avesse del tutto svalutato la forza dei gesti rivelatori di un uomo singolo di pensiero o di azione) fu enunciata in questi Manoscritti. Il suo contenuto essenziale è la programma­tica descrizione dei caratteri propri di una società comunista, oggetto della nostra previsione e fine supremo della nostra battaglia.

Con lunga opera di molti anni abbiamo mostrato che una tale descrizione, rigorosa per quanto essenziale, è obietto delle opere tutte classiche di Marx e di Engels, e che i vari marxisti cui prototipo è Lenin la hanno sempre tenuta per definitiva ed immutabile. E se è potenza del nostro metodo definire la società cui arriveremo, lo è non meno il caratterizzare in linee invio­labili la linea luminosa che ad esso conduce.

Evidente è l'importanza d'azione di una simile "ricostruzione delle ta­vole" del movimento. La storia di esso e delle sue devia­zioni e crisi va utiliz­zata per dimostrare come si è sempre trat­tato nei lunghi smarrimenti - di cui la nostra critica ben sa in­dividuare e indicare le reali cause determinanti e tal­volta irre­sistibili - di avere preso una strada diversa da quella tracciata nelle teorie fondamentali. Nella vita di Marx e dopo, la reazione a queste sbandate tralignanti ha sempre avuto il contenuto di un ritorno deciso alle direttive ini­ziali. Tutto ciò ha avuto nel no­stro lavoro di quindici anni ampio svolgimento; ed è noto come abbiamo indicata la guerra del bolscevismo leninista, al tempo della rivoluzione, contro il tradimento esoso dei socialpatrioti e socialdemo­cratici, come l'esempio più alto di restaurazione to­talitaria del marxismo inte­grale, in che resta il più grande risul­tato della vittoria di Ottobre, indistrutto dalla terza ondata dei corruttori, che hanno invece travolto il risultato sociale, ossia lo Stato socialista di Russia, e il risultato organizzativo, ossia l' Interna­zionale Comunista.

La tradizione Lenin-Partito bolscevico-dittatura proletaria nel 1917, resta dunque, sia pure solo nel campo della teoria, la più grande delle vittorie del comunismo rivoluzionario integrale quale uscì verso il 1850, blocco incande­scente, dalla fucina della storia umana. Una tradizione così altamente conca­tenata non potrà essere cancellata mai, e i nomi degli Stalin e dei Krusciov coi lividi caudatari non faranno che aggiungersi alla serie squal­lida dei revisio­nisti e degli immediatisti, di cui le prime carogne furono vergognosamente in­chiodate sul tavolo anatomico dalla mano stessa di Carlo Marx.

La nostra opera presente ha l'indirizzo di rimettere in ordine le tesi do­cumentali tante volte insidiate, e di portarle nella luce della loro integrità, an­che se nell'attuale fase storica una simile terza restaurazione non ha ancora trovato il movimento reale di riscossa rivoluzionaria che se ne dovrà in futuro rivestire.

La facile derisione

Ben noto è il sapore che ogni pidocchioso spirito piccolo-borghese con­ferisce alle obiezioni e alle critiche a questa nostra ricerca per tornare alla originaria costruzione del marxismo. Noi prenderemmo, a dire di quei co­boldi, lo scritto di Marx come un verbo rivelato a cui si debba fede cieca, lo seguiremmo come un dogma che non è lecito discutere ma che si deve accet­tare a priori. Rinunzieremmo alla luce preziosa della libera critica in­dividuale del nostro intelletto e di quello di quanti ci seguano. Negheremmo che lo svolgersi dei fatti storici per oltre un secolo abbia potuto smentire o per lo meno modificare quelle posizioni dedotte utilizzando solo i dati della storia umana, anteriori a quell'epoca ripetuta di circa il 1850.

Ebbene, o imbecilli sorti dalla degenere cultura borghese, è proprio questo che noi pretendiamo e proponiamo! E abbiamo il diritto di farlo perché la nostra scoperta, il primo impiego della chiave formidabile che risolse le antitesi e gli enigmi che grava­vano sull'umanità, già conteneva la conquista scientifica e cri­tica che quei vostri richiami sono vuote ed inconsistenti men­zo­gne - a titolo più chiaro di quel che lo siano ancora più antiche posizioni dell'umano opinare che voi borghesi credete di aver sommerso per sempre sotto la fatuità della vostra retorica illu­minista. Sappiamo da allora, e per virtù di quella abbagliante luce che brillò di un colpo, che la masturbazione cere­brale del­l'opinione è via più imbelle per giungere al vero della più inge­nua delle fedi in verbi grossolani ma partoriti dall'utero vivo della storia. Appren­demmo da quella che in un certo senso fu una rivelazione, non soprannatu­rale ma umana nel senso della fecondità della consapevolezza sociale di cui Marx parla, che il progresso dell'umanità e del sapere del travagliato homo sapiens non è continuo, ma avviene per grandi isolati slanci tra i quali si inse­riscono sinistre ed oscure affondate in forme sociali dege­neranti fino alla pu­trefazione. Ci serviamo di una pagina scritta intorno al 1850 - non perché scritta sotto dettato di un Dio o perché la mano che la tracciava era quella di un superuomo, ma proprio perché fu scritta nel fuoco di quello svolto che aveva attinto la "fase" termica della rivoluzione teoretica, riflesso che non solo accompagna ma in quel dato punto critico anticipa quella pratica - per attribuire patente di idiozia all'uso che omenoni del 1950 fanno oscenamente dell'aggettivo rivoltante "progressivo".

Con non diversa risorsa attinta tanto dietro di noi ci por­tiamo al punto di fare spregio di ogni attuale superstizione per il metodo della conta delle opi­nioni personali equiponderate, e diamo allo stesso titolo del ciarlatano a chi lo impieghi alla scala della società, della classe, e perfino del partito; perché quel mi­sero o lestofante parla di classe e di partito come forze che tra­sfor­mano la società, ma le pensa come scimmiottate parodie di quella stessa so­cietà demoborghese dalla cui sozza poltiglia mai non si potrà disinvischiare.

Quando ad un certo punto il nostro banale contraddittore (che non sa di rimasticare lui senza originalità e senza vita anti­che scempiaggini che la dot­trina dei nostri testi ha da quel gran tempo liquidate senza salvezza, attin­gendo alla sola fonte in cui, a grandi tempi, la vita porta sul suo corso trava­gliato il soffio originale e nuovo, che è morte perdere all'attimo del suo pro­rompere) ci dirà che noi costruiremo così una nostra mistica, atteggiandosi lui, poverello, a mente che ha superato tutti i fi­deismi e le mistiche, e ci deriderà coi termini di prostrati a Ta­vole Mosaiche o Talmudiche, di biblici o coranici, di evangelici o catechisti, gli risponderemo che anche con questo non ci avrà indotti a prendere posizione di incolpati in difesa, e che - anche a parte l'uti­lità di fare dispetto al filisteo in tutti i tempi rina­scente - non abbiamo motivo di trattare come un'offesa l'affer­mazione che ancora al nostro movimento, fin quando non ha trionfato nella realtà (che precede nel nostro metodo ogni ulte­riore conquista della coscienza umana) può essere adeguata una mistica, e se si vuole un mito.

Il mito nelle sue innumeri forme non fu un vaneggiare di menti che ave­vano occhi fisici chiusi alla realtà - naturale ed umana inseparabilmente come in Marx - ma è una tappa inso­sti­tuibile della sola via di conquista reale della consapevo­lezza, che nelle forme di classe si costruisce per grandi e distan­ziate lacerazioni rivoluzionarie, e che avrà libero sviluppo solo nella società senza classi.

In tutte queste lunghe tappe in cui schiere di avanzati veg­genti proce­devano tra le tenebre lottando senza posa e risor­gendo da ogni rovescio, nelle loro menti non era scienza, ma un mito, e la loro volontà rivoluzionaria non era ancora sapienza, ma mistica soltanto. Ebbene questi miti e queste mi­stiche erano Rivoluzione, ed il rispetto e l'ammirazione per essi, in quanto lotte che costituivano i rari e lontani scatti in avanti con cui la
società umana ha proceduto, non è in noi sminuita dal fatto che le loro formulazioni sono ca­dute, e quelle della nostra dottrina sono di ben altro contesto.

I credi delle forme politiche

Non si vede perché il nostro programma storico comunista non dovesse essere ordinato in tavole stabili da rispettare in tutto il corso della lotta per quella conquista che la dottrina an­ticipò al momento del grande svolto; quando gli stessi borghesi si riportano a principii - sanciti nelle dichiarazioni di diritti dell'uomo, del cittadino, e dei popoli, e nelle varie storiche co­stitu­zioni - che alcuni secoli fa ebbero un vero contenuto di lotta rivoluzionaria, ed ancora oggi vengono invocati in formule ad ogni passo chiamate sacre ed eterne malgrado la tremenda usura del tempo. Assistiamo anzi allo scandalo della presente epoca, per cui i sedicenti marxisti che assumevano di avere sca­valcato lo stadio di quelle invecchiate superstizioni liberal-po­po­lari e pa­triottiche, proprio quando pretendono di aver ag­gior­nato il verbo marxista, cadono soltanto a rimasticare le massime umanitarie e pacifistiche proprie dello svuotato pen­siero bor­ghese, come per la razzamaglia stalinista.

L'ideologia della forma borghese, quando si formò nel pe­riodo della vi­tale e prorompente crescenza, respinse indignata le tradizioni cristiano-sco­lastiche degli antichi regimi di diritto divino, e nel suo giovanile slancio sem­brò aver liquidato ogni spirito religioso. Tuttavia dopo la vittoria generale e mondiale la borghesia ricadde sempre più nel rispetto al vecchio fideismo e alle tavole bibliche della morale sociale; che diciamo? Oggi per­sino i marxisti che volevano andare oltre Marx sono insieme ai borghesi indietreggiati al pietismo millenario e hanno spergiu­rato il dogma comunista per genuflettersi a quello illuminista borghese prima, e poi indegna combutta con questo al vecchio dogma della credenza religiosa o - che vale lo stesso - della tolle­ranza per essa, non solo nello Stato, ma come Marx Engels e Lenin a sangue fustigarono, nello stesso partito.

Tutta questa catena dialettica di fasi storiche sta a dimo­strare che le forme più stabili e durature dovettero il loro vi­gore in tutte le fasi, di diverso poten­ziale, ossia antiformista, che riformista e infine conformista, al loro legame alla sistema­zione iniziale in tavole stabili e tradizionali del movimento.

La stessa caduta del movimento nostro in tranelli immani sta a dimostrare quale forza difensiva siano state per la borghesia le sue tavole ideologiche illuministe, che hanno suggestionato in vere tragedie della storia i proletari suoi successori ed affossa­tori in potenza.

Quanto alle precedenti forme feudali e medioevali la loro ideologia mo­numentale di partenza ha dato le sue prove resi­stendo quasi duemila anni, e dimostrando la sua potenza nella organizzazione delle chiese (prima quella cattolica) che dopo tante tempeste ancora incombono e minacciano, e sovra­stano an­che i popoli dove poté un giorno vincere nonché la rivolu­zione borghese, quella proletaria.

Questi movimenti e queste organizzazioni hanno potuto di­mostrare il loro peso gigante nella società e nel dramma della sua vita nel tempo, grazie al tener ferma la loro dogmatica e l'ossatura dottrinale della loro predica­zione, agitazione ed orga­nizzazione.

Questo carattere delle grandi forme di ordinamento della società e di convinzioni generali si riecheggia con ben altro ritmo e potenza della nostra forma, il cui accanito antiformismo per la prima volta (chiusura della umana preistoria) prelude alla fine delle forme di classe, e non a "conformismi".

Ma ciò a più forte ragione impone la esigenza del movi­mento di fondarsi sull'inviolabilità di un corpo di tavole dottri­nali e programmatiche, a cui nelle urgenze terribili della lunga lotta va, nel seno dell'organizzazione politica di classe, chiesta una obbedienza ed una disciplina (ecco la odiata parola, che è però comoda anche agli "arricchitori"!) senza eccezioni.

Sterile sarebbe ogni disciplina di organizzazione se essa non avesse per base la disciplina stretta ideologica e teoretica. La prima corre il rischio di es­sere derisa facilmente come sogge­zione ad uomo o a persona che da fascina­trice per breve china diviene funesta; la seconda non si può ridurre ad omaggio futile a nomi o a genti, ma non può che riferirsi ad un testo scritto, il quale, sia pure in una forma materiale oggi più umile degli an­tichi incunaboli o della monumentale epigrafica, attinge l'altezza di esprimere un potenziale non individuo, ma proprio della col­lettività combattente, di un esercito di classe, che per il nostro movimento e per la prima volta nel corso dei secoli identifica in sé - appunto nel possesso geloso di quel credo - la vera consa­pevolezza illuminata umana che sarà data solo ad una società senza divisioni di classe.

Nel senso di questa sarà risposto per ciascun essere pensante all'enigma insolubile della contraddizione tra determinismo di classe e libera critica. Oggi l'uomo, schiavo del capitale della proprietà e del danaro anche quando sta come singolo tra i loro detonatori, non può gustare la gioia serena della umana consa­pevolezza aperta senza pericoli in tutte le direzioni. Il problema della conoscenza che tormentò le vigilie del pensiero nei secoli è per noi ri­solto in quanto oggi la scienza universale futura ha ac­cesso nel seno di un partito, che solo dà il nome alla classe che anticipa il domani. Come il partito sta ancora a mezzo tra la finzione dell'individuo e la meravigliosa conquista "umana" del­l'universalità, così nella storia il cemento ideologico che lo con­traddistingue sta al di là degli antichi errori che gli versarono il tanto di verità per cui sorsero e dovettero cadere, ma guida e conduce con un sistema di principii che può essere definito an­cora una mistica, l'ultima delle mistiche, per cui si lotterà e si cadrà da tanti e tanti non solo nel supremo sacrificio della vita, ma in quello maggiore della gioia di tutto controllare prima di credere, che solo dopo la vittoria alla generazione superstite sarà stata largita da quella ultima che ha avuto la missione di vindice guerriera, in guerra di uomini con­tro uomini.

 

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  • Israele: Detto in poche righe ( Il programma comunista, n°18, 1968)
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  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
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  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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