DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Sin dal primo manifestarsi dei rivolgimenti verificatisi nel corso e dopo la seconda guerra mondiale nelle colonie, noi li abbiamo costantemente seguiti sforzandoci di inquadrarne la spiegazione entro la nostra concezione storica generale e dimostrare che essi non abbisognavano, per essere compresi, di altri criteri critici che non fossero quelli già scoperti dal marxismo e dal leninismo, considerando questo ultimo come il marxismo applicato alla fase imperialista del capitalismo.

Il nostro lavoro, più descrittivo che critico, non poteva che mettere capo alla definizione dei termini del problema posto dalle trasformazioni storiche avvenute nell'immenso spazio geo-sociale fino a pochi anni or sono coperto dal colonialismo capitalista. Una sistemazione teorica di tale vasto materiale sarà il compito di successivi lavori; ma intanto non sarà inutile prendere in esame talune obiezioni mosse, nello stesso campo rivoluzionario, alla nostra qualificazione storica degli avvenimenti registrati nelle ex colonie e alle posizioni politiche da noi prese nei loro confronti.

La principale obiezione riguarda la valutazione del ruolo giocato dalla borghesia indigena nei rivolgimenti anticoloniali. La liberazione dall'occupazione colonialista ha comportato, oltre alla fondazione di Stati indipendenti, la messa in movimento della rivoluzione sociale? Dalla risposta che si da' a tale quesito dipende la risposta da dare all'altro non meno importante: che parte ha avuto la borghesia indigena nei rivolgimenti? Ora, è chiaro che, se si accetta che la liquidazione del colonialismo storico e la fondazione dello Stato nazionale hanno aperto la strada a una rivoluzione, bisogna pure ammettere che la borghesia, o meglio la proto-borghesia indigena, ha svolto un ruolo rivoluzionario capeggiando la rivolta anticolonialista. Ebbene, noi riteniamo che lo sgretolarsi degli imperi coloniali abbia aperto, nelle ex colonie d'Asia soprattutto, una rivoluzione sociale destinata ad avere una grande influenza sulla lotta finale che il proletariato mondiale dovrà affrontare per porre fine alla dominazione capitalistica nel mondo.

La tesi dell'impossibilità del ruolo rivoluzionario della borghesia coloniale generalizza arbitrariamente la nota posizione assunta da Marx ed Engels all'indomani della caduta della Comune di Parigi del 1871. La borghesia europea, federandosi contro il proletariato rivoluzionario al di sopra delle frontiere nazionali e degli stessi fronti di guerra, aveva chiuso con ciò il periodo, storicamente necessario e quindi positivo, della convergenza rivoluzionaria della borghesia democratica e del proletariato socialista. La posizione di Marx ed Engels equivaleva a negare che, per tutto il futuro storico, la borghesia fosse ancora capace di azione rivoluzionaria, e quindi degna di ricevere l'appoggio del proletariato. Dopo lo schiacciamento della Comune, ottenuto mediante l'abbraccio del repubblicanesimo democratico di Thiers con l'assolutismo militarista tedesco, il ruolo rivoluzionario della borghesia europea poteva dirsi finalmente esaurito. Il ciclo storico borghese, cominciato in sede storica e critica con la battaglia dell'illuminismo, attuato con la Rivoluzione dell'89 e completato con le rivoluzioni del 1830 e del 1848, si chiudeva nel cimitero del Père Lachaise, sul luogo del massacro degli ultimi difensori della Comune.

La posizione marxista poteva tradursi così: l'esperienza della Comune ha provato che l'Europa borghese è divisa da una frontiera di classe, ben più reale e determinante che le frontiere fra gli Stati. Tale frontiera di classe che divide la rivoluzione dalla conservazione passa irrimediabilmente tra la borghesia capitalistica e il proletariato, avendo cessato ormai la reazione feudale di esistere come forza storica. Ne consegue che ogni movimento rivoluzionario, cioè ogni rivolgimento sociale capace di mutare il corso storico, non può essere che azione del proletariato diretto dal partito comunista contro la borghesia.

Il torto dei nostri critici sta nell'universalizzare arbitrariamente una posizione che in effetti era discriminatoria, in quanto non si applicava a tutto lo spazio geo-sociale del pianeta, ma soltanto ad una sua parte, e precisamente ai paesi nei quali la lotta di classe era definitivamente giunta allo «stadio borghese», cioè alla forma di società in cui il potere borghese dominante è ormai libero da ogni pericolo di ritorno offensivo del feudalesimo e si trova già di fronte un proletariato organizzato in classe.

Ebbene, quale era lo stadio della lotta di classe nei paesi coloniali all'epoca della rivolta anticoloniale? Non certo quello borghese. I rivolgimenti storici che hanno portato alla liquidazione dell'occupazione coloniale in quasi tutta l'Asia e in parte dell'Africa, si sono svolti in un ambiente storico che era e resta tuttora, in certi casi, il punto di partenza, e non già di arrivo, del moto che tende appunto ad introdurre in Asia e in Africa uno «stadio borghese». Cioè, nei paesi afro-asiatici siamo ancora lontani dall'equivalente storico di quanto l'hanno 1871 rappresentò nella storia dell'Europa occidentale. Le frontiere che dividono i nuovi Stati indipendenti sono ancora più importanti e profonde delle frontiere sociali che dividono la borghesia nascente e i primi elementi del proletariato industriale. Tutto il contrario avviene in Europa, dove per la borghesia il problema della difesa della frontiera di Stato passa decisamente in second'ordine di fronte a quello di mantenere efficiente la «federazione» delle borghesie dominanti contro il proletariato.

In pratica, l'occupazione straniera aveva portato, nei paesi coloniali, alla pietrificazione degli arcaici rapporti sociali. Vero è che il colonialismo capitalista (in ciò simile alle altre forme storiche di colonialismo) è stato costretto ad «importare» nelle colonie il modo di produzione capitalista: lo sfruttamento delle materie prime dei paesi d'oltremare chieste dalle industrie metropolitane ha imposto l'introduzione del lavoro salariale nelle colonie o semi-colonie (si veda il caso degli Stati del Medio Oriente produttori di petrolio). Ciò significa che la prassi colonialista ha portato di necessità l'imperialismo bianco ad introdurre in un ambiente storico pre-borghese il modo di produzione capitalista e quindi a gettare il seme della borghesia indigena. Ma l'imperialismo colonialista ha interessi contraddittori, in quanto tende a industrializzare le colonie solo nei modi che corrispondono agli interessi nazionali dell'economia metropolitana, interessi che risulterebbero danneggiati qualora il processo industrializzatore si allargasse fino a comprendere tutta l'economia locale della colonia. Si prenda l'esempio dell'India, nella quale l'imperialismo britannico aveva pure gettato le premesse della rivoluzione industriale capitalista, come appunto le ferrovie, ma non aveva promosso lo sviluppo di fondamentali branche dell'industria: solo adesso infatti sta sorgendovi una siderurgia. Il perché è ovvio. I monopoli siderurgici britannici non potevano permettere, finché l'India era sottomessa alla Corona britannica, che vi sorgessero imprese concorrenti.

Il colonialismo, agendo restrittivamente nei confronti del processo di industrializzazione che pure aveva iniziato, veniva a creare una convergenza tra gli interessi suoi propri e gli interessi degli strati conservatori delle colonie, della cui esistenza di classe l'industrializzazione avrebbe segnato la fine. Detto altrimenti, il campo della conservazione sociale e dell'antirivoluzione non conta nei paesi coloniali ed ex coloniali, soltanto l'imperialismo colonialista, ma vede affiancata ad essa la reazione feudale indigena. Lampante è il caso della Giordania, ove lo schieramento imperialistico-feudale si è mostrato, nella recente crisi, di una chiarezza assoluta. Le sollevazioni di piazza promosse dai nazionalisti hanno mobilitato automaticamente il campo della conservazione. E chi abbiamo visto entrare in esso? La VI Flotta USA e i beduini del deserto, cioè gli esponenti militari della più evoluta e potente borghesia capitalistica e, i sopravvissuti residui del feudalesimo asiatico.

Né le cose oggi debbono farci dimenticare quelle di ieri. È noto che, prima della concessione dell'indipendenza, poco più della metà dell'India era territorio britannico: il rimanente, con una popolazione pari a circa un quinto del totale, era suddiviso in 562 (diconsi cinquecentosessantadue) Stati e staterelli di diversissima entità. I rapporti tra la Corona e gli Stati erano regolati da trattati stipulati dalla Compagnia delle Indie, o più semplicemente da intese fondate sulla consuetudine. La sovranità era divisa in varia misura fra la Corona, subentrata dopo la grande rivolta dei Cipayes del 1875 alla Compagnia, ed il principe: ma, nei confronti di tutti indistintamente gli Stati indigeni, il governo britannico, quale «Paramount Power», manteneva il controllo esclusivo delle relazioni diplomatiche, della politica estera, della difesa. Ciò conferma la tesi che il colonialismo si reggeva, e si regge ancora, su una alleanza feudale-imperialistica. Per la vecchia India essa era impersonata dalla Corona britannica, rappresentante del capitalismo d'oltremare e dalla fungaia di principi interessati alla conservazione dei rapporti precapitalistici locali. Una situazione simile vige tuttora in Malesia, ove il potere è diviso tra Corona britannica e principi feudali.

L'essenza del problema posto dai rivolgimenti afro-asiatici sta tutto cui: nel riconoscere il fatto innegabile dell'esistenza nelle colonie, e nei paesi testé usciti dallo stato coloniale, di un duplice fronte che salda fra loro due baluardi reazionari: la conservazione imperialistica e la conservazione feudale. Se si riconosce ciò, cade ogni dubbio circa la natura dei rivolgimenti afro-asiatici. Lottando contro l'occupante imperialista, o contro i ritorni offensivi dello stesso, il campo democratico-indipendentista lotta simultaneamente contro la reazione feudale interna, che nell'imperialismo trova il suo sostegno. Quindi la lotta anticoloniale lavora ad attuare un trapasso di forme storiche nella produzione e nell'organizzazione sociale: questo trapasso è sinonimo di rivoluzione sociale. (Che poi nuovi stati borghesi nati nei paesi coloniali, e le loro borghesie, si alleino a loro volta all'imperialismo e un altro problema, che riproporrà ben presto anche per quest'area lo schema marxista dell'Europa dopo il ‘70).

In tali circostanze storiche, non è applicabile la discriminazione che Marx ed Engels operavano a carico della borghesia dell'Europa occidentale. La nascente borghesia di colore, quella che abbiamo chiamato la proto-borghesia indigena organizzata nel movimento democratico nazionale, si trova ad agire in condizioni equiparabili a quelle in cui operò la borghesia dell'Europa occidentale durante il periodo della sua ascesa al potere. Nei paesi afro-asiatici il moto democratico-borghese è impegnato a fondo nella lotta contro la reazione feudale, che resta tenacemente radicata a rapporti produttivi sopravvissuti ai secoli, se non addirittura ai millenni.  Non il proletariato, dunque, rappresenta l'immediato nemico dei nuovi Stati democratico-borghesi ma gli strati sociali che tendono a conservare i vecchi rapporti di produzione. E ciò non soltanto per il fatto che il proletariato industriale asiatico è ancora in gestazione ma anche (e appunto perciò) per il fatto che gli agglomerati proletari esistenti non hanno saputo esprimere dal loro seno programmi paragonabili a quello che si foggiò un alto partito proletario trovatosi a lottare anch'esso in un ambiente storico dominato da un'alleanza feudale-imperialistica: il partito bolscevico. È quello che vedremo nella seconda parte di questo articolo.

Deliberatamente abbiamo citato il caso del partito bolscevico. Bisognava parlarne perché è proprio di esso che si servono i nostri critici per porci sotto accusa di leso marxismo (!), perché affermiamo il carattere rivoluzionario del movimento anticolonialista pur sapendo che la direzione di tale movimento è nelle mani della borghesia indigena.

L'alleanza feudale-imperialistica non è un fatto nuovo, né è localizzabile nei soli paesi afro-asiatici. Anche in paesi non soggetti alla dominazione coloniale essa è storicamente reperibile. Infatti, una tipica alleanza feudale-imperialistica era quella che legava lo Stato zarista di Russia, poggiante politicamente su strutture sociali preborghesi, alle grandi potenze imperialistiche dell'Europa occidentale: la Francia, l'Inghilterra, il Belgio, ecc. Ed era alleanza tanto solida che il governo zarista non esitò, nel 1914, a buttarsi in guerra per difendere gli interessi mondiali di quelle potenze. Ancora prima dei casi offerti dalle ex colonie, l'esempio della Russia di Nicola prova come sia storicamente possibile un'alleanza tra classi dominanti che tendono a conservare, ciascuna per sé, modi di produzione e organizzazioni sociali diametralmente opposti.

Bisogna tuttavia vedere perché la borghesia russa, contrariamente alle borghesie delle colonie, fu incapace di un ruolo politico indipendente, e rifiutò di capeggiare la rivoluzione antifeudale.

Per abbattere il potere zarista, occorse la rivoluzione del proletariato comunista. La borghesia democratica, che pure aveva «tutto un mondo da guadagnare» dalla rovina dello zarismo semifeudale, si rivelò assolutamente incapace di azione rivoluzionaria; anzi, invariabilmente assunse di fronte alla rivoluzione un atteggiamento disfattista. Essa invocava per decenni, mediante i suoi intellettuali e politici, il rinnovamento della società russa, ma ogni volta che la necessità storica la spingeva nel campo dell'azione, si traeva indietro. Trovandosi ogni volta a contatto di gomito con proletariato rivoluzionario, essa si rimangiava i suoi stessi programmi e si rannicchiava dietro il potere zarista. Ciò comportò che all'alleanza feudale-imperialistica non si poté contrapporre mai l'alleanza insurrezionale democratico-socialista. Alla stretta dei conti, il proletariato dovette addossarsi tutto l'onere della rivoluzione e farla da solo, prima contro il potere zarista e in seguito, essendo questo già scaduto, contro la stessa borghesia.

La differenza nel comportamento politico tenuto dalla borghesia, rispettivamente nella Russia zarista e nelle colonie, cioè nello stesso ambiente storico caratterizzato sostanzialmente dalla dominazione della alleanza feudale-imperialistica, è da ricercarsi nel diverso grado di preparazione politica del proletariato. Ciò che ha privato il proletariato dei paesi coloniali di ogni possibilità di azione indipendente nella rivoluzione anticoloniale e ha permesso ai partiti borghesi e piccolo-borghesi di assumere la direzione è stato, e resta, l'assenza - per cause storiche che non possiamo analizzare – di un partito proletario educato al marxismo rivoluzionario. Detto altrimenti, nella rivoluzione anti-coloniale è mancato assolutamente un partito tipo bolscevico, vale a dire un partito marxista capace di agire in un ambiente storico, nel quale la strada della rivoluzione sociale è sbarrata da un potere feudale appoggiato dall'imperialismo straniero. Purtroppo, il proletariato afro-asiatico ha dovuto subire la guida dei falsi partiti comunisti fedeli a Mosca, che ormai da decenni hanno cessato di professare il marxismo ed il leninismo, anche se la loro pubblicistica è zeppa di citazioni di Marx e di Lenin.

Russia zarista e colonie

In Russia, il movimento marxista, in quanto a teoria e organizzazione di partito, sorse insieme con le principali correnti ideologiche e politiche della democrazia borghese. Il comunismo russo nasceva in circostanze felici, avendo alle spalle l'esperienza ancora fresca del socialismo francese nella Comune e la colossale produzione teorica della socialdemocrazia rivoluzionaria austro-tedesca. Era l'epoca in cui iniziava una fase di «alta marea» del movimento proletario rivoluzionario d'Europa e, grazie al fuoriuscitismo, potenti ondate penetravano sin dietro l'impero zarista. In tali condizioni, il comunismo russo guidato da Lenin era in grado di tallonare e sopravanzare decisamente i partiti democratico-borghesi. E quanto fosse potente la presa del marxismo sulle masse lo dimostra il fatto che la borghesia tentò di servirsene adattandolo alle sue esigenze con ingegnose falsificazione (struvismo). Accadeva dunque, nella Russia zarista - fatto mai verificatosi nelle precedenti rivoluzioni antifeudali - che la borghesia non fosse la sola classe munita di un programma rivoluzionario; anzi, che fosse sopravanzata, nel campo dottrinario e politico, dal proletariato. Si cominciò a vederlo inequivocabilmente all'epoca della fallita rivoluzione antizarista del 1905. La borghesia dovette allora constatare che la rivoluzione si metteva in moto non alla maniera da lei voluta, ma per effetto dell'impiego di un'arma esclusivamente proletaria: lo sciopero generale insurrezionale e convincersi con terrore che al benché minimo cedimento dell'impalcatura statale zarista avrebbe fatto la sua comparsa lo strumento del potere rivoluzionario operaio: il Soviet.

Chiunque sappia che ogni rivoluzione è guerra armata tra le classi comprende come la borghesia russa dovesse esitare a lungo e infine rifiutare di scendere in guerra sociale contro lo zarismo, sapendo di avere alle spalle un proletariato agguerrito che andava trasformandosi, per il lavoro delle organizzazioni marxiste, in nemico mortale. Per essa lo zarismo costituiva, è vero, una grave menomazione delle possibilità di predominio sociale e un ostacolo sul cammino verso il potere politico; ma il comunismo marxista rappresentava la negazione della sua stessa esistenza di classe. In tali condizioni diventava impossibile l'alleanza borghese-proletaria contro il potere zarista - alleanza che era stata invece possibile in Francia durante la Grande Rivoluzione -, e fu merito incancellabile dei bolscevichi e di Lenin combattere e disperdere i menscevichi che a tale alleanza credevano.

 Quale, invece, la situazione del movimento operaio nella rivoluzione anticoloniale? Il proletariato dei paesi coloniali, ripetiamo, non ha saputo né potuto esprimere da sé un partito veramente marxista, ed è rimasto prigioniero delle degenerazioni ideologiche dello stalinismo. Con ciò non intendiamo porre sotto accusa il proletariato delle colonie. Sarebbe ridicolo, soprattutto perché il fenomeno non si spiega con cause soggettive e neppure con circostanze locali. Il fatto è, anzitutto, che la rivoluzione antifeudale russa e la rivoluzione antifeudale nelle colonie sono maturate nel quadro di ben diverse condizioni mondiali della lotta di classe. Mentre la rivoluzione russa crebbe in un periodo di ascesa del movimento marxista internazionale - erano i tempi in cui i Kautsky e i Plekhanov non solo non avevano ancora tradito ma arricchivano il movimento operaio di preziosi contributi dottrinari, e la Seconda Internazionale prometteva quello che non avrebbe poi mantenuto - la rivoluzione anticoloniale è scoppiata in un periodo di pauroso declino del movimento operaio. Durante il periodo più buio della lunga storia del comunismo, essendo sradicate e disperse le ali sinistre dei partiti comunisti, stalinizzata ed evirate la Terza Internazionale, schiacciato e massacrato il bolscevismo in Russia, irreparabilmente avvelenato dalle ideologie partigiane e liberazioniste il proletariato dei paesi più evoluti del mondo. In secondo luogo, in una classe operaia concentrata in grandi complessi industriali cittadini, e quindi con un potenziale rivoluzionario altissimo. Non così nella maggioranza dei nuovi Stati sorti in Asia dopo l'ultima guerra.

In tali condizioni la rivoluzione antifeudale nelle colonie non poteva ripetere il modello bolscevico ma era condannata a rimanere al modello borghese e democratico delle rivoluzioni del 1700 e del 1800. Dietro la borghesia indigena, munita di un programma, sia pure espresso nelle ideologie fumose della democrazia borghese, doveva allinearsi un proletariato che non aveva un programma, o, se ne aveva uno, era una coppia mimetizzata del programma borghese che i partiti russo-comunisti gli presentavano sotto l'etichetta marxista. Inevitabilmente, ciò doveva determinare l'impotenza politica della classe operaia, l'impossibilità di una azione politica indipendente del movimento rivoluzionario. Per necessaria conseguenza, doveva restare nelle mani della borghesia indigena il ruolo direttivo nella rivoluzione anticoloniale.

I nostri critici, e veniamo alla conclusione, per difendere il loro principio secondo il quale non in Europa e in America ma in tutto il resto del mondo è impensabile una rivoluzione che non sia condotta dal proletariato, arrivano al punto di negare che i rivolgimenti verificatisi nelle colonie, e che ancora vi si stanno verificando, abbiano un contenuto rivoluzionario. Ma ciò significa chiudere gli occhi sulla realtà. Quanto da noi esposto circa il ruolo dei partiti borghesi o cripto-borghesi - quali sono i partiti «comunisti» asiatici - suonerebbe come una smentita della posizione presa da Marx all'epoca della caduta della Comune del 1871! È vero, invece, il contrario. La discriminazione di Marx interessava i paesi di compiuto capitalismo, cioè paesi in cui il ciclo storico borghese poteva considerarsi definitivamente chiuso, essendo lo Stato borghese completamente assestato e ogni pericolo di ritorno offensivo del feudalesimo definitivamente scomparso. In questi paesi, ogni futura rivoluzione non poteva essere opera che del proletariato, del proletariato soltanto: nei paesi in cui la rivoluzione borghese era di là da venire la questione restava aperta. Toccava al determinismo della lotta di classe il risolverli nelle aree che al 1871 erano ancora fuori della circoscrizione geo-sociale caduta sotto la discriminazione di Marx, cioè la Russia zarista e l'enorme spazio controllato dal colonialismo.

Se il marxismo è scienza del reale, sarebbe antimarxista negare il carattere e la portata rivoluzionaria dei movimenti afro-asiatici. Che siano state forze borghesi e piccolo-borghesi a capeggiare il movimento è cosa che il marxista spiega senza procedere a rimaneggiamenti e aggiustamenti della sua dottrina e delle tradizioni del movimento. Anzi, il fatto che la rivoluzione sociale che ferocemente viene ricacciata, da quarant'anni, nelle viscere profonde della società borghese d'Europa e d'America sbocchi ed esploda nell'area afro-asiatica, è una realtà che rafforza le convinzioni del marxista ed accresce la sua capacità di durare, resistere e attendere. Significa che l'imperialismo, ad onta delle sue armate e dei suoi ordigni apocalittici, non è in grado di rinserrare il mondo nelle maglie di ferro della conservazione e fermare il corso della storia. Se ciò che è vecchio e sorpassato crolla e sparisce in Asia, se le vecchie strutture sociali cedono il posto a nuovi rapporti di produzione, anche se si tratta di rapporti produttivi borghesi, ciò conferma la legge generale della dialettica storica. Anche in Europa e in America il Vecchio e il Sorpassato dovrà, presto o tardi, sprofondare.

(da «il Programma Comunista» nn. 11, 12 del 1957)

 

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