DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 
Lenin aveva scritto in «Stato e rivoluzione» che la classe dominante, dopo aver combattuto in vita i rivoluzionari corre dopo morte a trasformarli in icone. Stalin ha imbalsamato Lenin, e del suo mausoleo ha fatto, ancora vivo, il piedistallo alla sua leggenda. Ora che anch'egli se n'è andato, l'adulazione, il mito, la iperbole della deificazione, raggiungono le vette del parossismo, sia nel campo filorusso sia in quello filo-americano, entrambi interessati a mantenere nella classe operaia il culto delle santità false e bugiarde, l'adorazione del capo fuori dall'adesione a una continuità di programma che il capitalismo teme perché è il programma della sua distruzione.
Non cederemo dunque alla tentazione di smontare la leggenda di Stalin «capo del comunismo» o «benefattore del genere umano» né a quella di tessere romanzi d'appendice intorno alla sua vita di tecnico del massacro della vecchia guardia bolscevica. Abbiamo già scritto che la «ferocia di Stalin» (e in questo bel mondo bellico e post bellico, chi è senza ferocia scagli la prima pietra), è la ferocia della controrivoluzione; che la controrivoluzione ha sempre i suoi boia, comunque essi si chiamino, strumenti ciechi e servili della sua legge, e che al proletariato non la figura fisica e temporale dell'esecutore interessa ― come oggetto di odio e di lotta ― ma la classe, la forza storica reale che ha ordinato e ordina, finché sarà in vita, l'esecuzione dell'avversario. Non facciamo, a rovescia, il giochetto della classe dominante, non eleviamo come questa un monumento alla «grandezza» dell'uomo, un monumento alla sua infamia. Infame è il capitalismo; infame la colonna sulla quale i suoi falsi eroi si ergono. La gigantesca battaglia internazionale che si combatté dal 1925 in avanti fra le pattuglie sempre più esigue del proletariato rivoluzionario e lo stalinismo va ben oltre le figure dei personaggi che portò di scena: era la lotta senza quartiere  fra rivoluzione e controrivoluzione, fra proletariato e borghesia, fra l'Ottobre rosso e il capitalismo ancora saldo, nonostante le tempeste del primo dopoguerra, nei suoi gangli vitali dell'Occidente europeo e americano. Questa lotta si scelse uomini e strumenti, portò in primo piano le figure che meglio rispondevano alle sue esigenze, abbatté quelle che non le servivano, continua, oggi, a sostituir persone a persone, senza che il dramma cessi.
Perciò, abbiamo detto, non è la scomparsa di una di queste figure a cambiare di un millimetro lo schieramento di forze obiettive sullo scenario internazionale delle lotte di classe. Morto Stalin rimane lo stalinismo, questo raffinato prodotto della controrivoluzione capitalistica, questa terza edizione della corruzione opportunistica del movimento proletario, mille volte più rovinosa per quest'ultimo, delle antiche corruzioni riformistiche. Il capitalismo vittorioso su scala mondiale nell'epica lotta dell'altro dopoguerra fu vittorioso in Russia attraverso questa nuova e virulenta forma d'infezione revisionista; e fu vittorioso non soltanto nel senso di interrompere e invertire l'ondata rivoluzionaria ma di aprire alla sua espansione mondiale i giganteschi spazi dell'Asia. Stalin non ha fatto che servire questo poderoso gioco di dilatazione mondiale del regime borghese nelle torpide estensioni dell'Oriente, e di smantellamento del movimento proletario in Occidente.
Il fenomeno è storico e ha radici e natura obiettive. Ogni rivoluzione vittoriosa ma rimasta chiusa in ambiti nazionali è condannata a morire e a generare dal suo seno ― per la pressione esterna dell'ambiente capitalista ― la mala pianta dello stalinismo (o come diavolo si chiamerà domani in obbedienza a dure esigenze di espressione). Il mancato sviluppo di questo germe non è condizionato da virtù o da debolezze di uomini, ma da situazioni obiettive da un lato e dal grado di autodifesa ― nel senso della rabbiosa conservazione della propria continuità programmatica ― che il partito della rivoluzione avrà sviluppato nelle sue stesse file, dall'altro.
Perciò, se per un partito rimasto fedele al programma della rivoluzione e della dittatura proletaria il compito permanente rimane la lotta contro l'inquinamento staliniano, come ieri la lotta contro l'inquinamento socialdemocratico, la vittoria sullo stalinismo non sarà consumata sul piano della convinzione individuale o della «coscienza», ma solo su quello dei rapporti di forza. La morte dello stalinismo è legata alla morte del regime borghese, al crollo dei centri mondiali su cui si regge la sua dominazione in tutti i paesi: la sua vita ― per quel tanto che gli sarà concessa ― è assicurata finché la struttura internazionale del regime borghese rimane intatta.
Cambieranno i nomi, cambieranno le forme esteriori; il fenomeno è, purtroppo, ancora vivo e vitale. Alla leggenda di Stalin e dello stalinismo, creata ad arte per ubriacare i cervelli operai con tutto ciò che può servire ad annebbiare la visione dei rapporti sociali, noi contrapponiamo la limpida visione dello scontro storico fra le classi. La posta della battaglia non è la testa di un uomo, è la testa e il corpo del capitalismo.
Il Programma comunista, n. 6, 19 marzo - 2 aprile1953

 

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