DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 
In tutta la storia del movimento operaio, lo sciopero è un atto di forza, e rivendicare un astratto «diritto di sciopero» non ha senso se il diritto non è tutt'uno con una manifestazione concreta di forza. Non è in nome di tavole del diritto che gli operai scioperano: scioperano se ed in quanto hanno la forza di scioperare e d'impedire che la classe dominante li metta, a sua volta con la forza, nell'impossibilità di farlo.
Per Di Vittorio e la C.G.I.L. ( non parliamo della C.I.S.L. o dell'U.I.L. che sono esplicitamente e dichiaratamente estranee alla ideologia e alla pratica della lotta di classe), lo sciopero è invece materia di articoli di legge, e la legge non è l'espressione di necessità e di interessi della classe che detiene il potere economico e politico; è qualcosa di galleggiante al di sopra delle classi, proprietà collettiva di «tutti gli uomini», ed è ― come sta scritto nei tribunali ― uguale per tutti. Non meraviglia quindi che, nel discorso tenuto il 31-1 a Torino in difesa del diritto di sciopero, Peppino abbia toccato tutti i tasti dell'evangelismo predicatore e moralistico, del cristianesimo umanitario e fabiano. A leggerlo, par di essere tornati ai tempi in cui i pronipoti del peggior laburismo in Italia esclamavano, levando umili occhi al cielo: «Educhiamo i nostri padroni!», ch'era il grande grido della debolezza, l'invito al capitalismo e ai suoi sgherri di bastonare gli operai.
Sentitelo: «Chiarisco a nome degli organi dirigenti della C.G.I.L. che abbiamo portato e siamo decisi a portare sempre nei rapporti sindacali sociali e politici un senso profondo di umanità (?). Anche oggi noi non desideriamo acutizzare i problemi del Paese... Per quanto possa dipendere da noi, portiamo sempre un contributo acchè anche i conflitti del lavoro... si svolgano in qualunque circostanza con un senso superiore di umanità». Il punto per Di Vittorio è uno: c'è la tavola scritta della Costituente, ed essa, non i capitalisti, deve governare l'Italia (ma di grazia, la società italiana è o no capitalista? E di chi sono le sue leggi se non della classe dominante? O esiste una legge che volge contro la classe dominante lo Stato in cui questa domina?) Difendiamo dunque la legge e, appunto perciò, agiamo «con superiore senso di giustizia». Siamo sul terreno del diritto, «della ragione, dell'umanità, della legalità», siamo i difensori dell'ordine costituito; voi, proprietari siete «pregati di avanzare».
La grande parola che l'organizzazione «sindacale» lancia agli industriali è quindi, logicamente, l'invito alla concordia, alla normalizzazione: «Noi vogliamo, non è da oggi che lo diciamo, l'abbiamo sempre detto, la normale disciplina sul lavoro; l'operaio nel tempo di lavoro, deve garantire un rendimento normale. Non intendo affatto intaccare il principio della disciplina del lavoro. Senza disciplina non ci può essere produzione e organizzazione industriale, e noi siamo per lo sviluppo della produzione industriale e della produzione agricola, noi siamo per lo sviluppo economico civile e culturale d'Italia e quindi siamo per assicurare assolutamente la disciplina necessaria sul lavoro. Ma vi sono vari modi per ottenere la disciplina del lavoro; v'è il modo della consapevolezza dei lavoratori della disciplina concepita come dovere, accettata come tale, e la disciplina imposta col bastone. Signori industriali, disciplina consapevole sul lavoro sì, bastone no».In altri termini, non il bastone, ma la carota.
Giacché è questo il succo del discorso: l'industriale italiano è rozzo, arretrato, inconsapevole dei suoi interessi. Crede nella forza bruta e sfacciata, nel bastone: insegniamoli la virtù  «cristiana» della «disciplina consapevole» e tutto tornerà nella normalità, nel rispetto del «diritto». «Auspichiamo rapporti normali fra lavoratori e industriali per il bene del nostro Paese perché dalla normalità o dalla particolare asprezza dei rapporti sindacali dipende anche un'ulteriore più grave tensione dei rapporti generali del Paese o una distensione di essi. Noi siamo per la distensione, e siamo per la normalizzazione dei rapporti sindacali e nell'interesse comune e, soprattutto, nell'interesse dell'Italia, io ancora auspico la normalizzazione dei rapporti fr le nostre organizzazioni sindacali e le organizzazioni padronali»; in base a che? Inutile dirlo, in base alla Costituzione...
State a Di Vittorio, e lo sciopero sarà liquidato nell'abbraccio generale della normalizzazione. Fate che la «disciplina consapevole» (con la carota, senza bastone) si instauri, e che bisogno ci sarà di scioperare? Conclusione esilarante: Di Vittorio va a Torino per difendere il diritto di sciopero: conclude a favore di una disciplina e di una normalizzazione in virtù della quale lo sciopero rimarrà, sì nell'art. 40 della Costituzione, ma nella pratica sarà soppresso. Il fine di Di Vittorio e degli industriali è lo stesso: è solo diverso il metodo...
Così, fra urla e minacce, Di Vittorio ha affidato alla legge, alla «umanità», alla «ragione», agli «interessi comuni» e alla «Patria», la difesa del diritto di sciopero. Se davvero questa fosse la voce della classe operaia, il capitalismo potrebbe dormire fra sette guanciali: sarebbe l'estremo grido della capitolazione di fronte alla «santità» dello Stato.
Ma Di Vittorio è un conto: la classe operaia è tutt'altro.
Il Programma comunista. n.4, 19 febbraio - 4 marzo 1953

 

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