DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Abbiamo cercato invano, nei giornali che si autodefiniscono del proletariato e socialisti della linea di Marx e di Lenin, le preziose ammissioni sulla prima guerra mondiale, che abbiamo letto invece, il 4 novembre, su un giornale arciborghese: Il Mattino edito a Napoli. Eccole, testualmente riprodotte:

«Diremo noi, che tutti i morti di Redipuglia furono necessari - oh, l'orribile parola! - ai fini della guerra? No; non lo diremo. Oggi, un po' per l'allontanarsi degli avvenimenti nel tempo che tutto attenua e scolora, un po' per la volontà di fare risaltare il contrasto tra le due guerre, quella del 1915 e quella del 1940, si tende a presentare la prima, quella del 1915, come una guerra preparata sapientemente e condotta con alta sapienza strategica. La verità è, peraltro, diversa. Anche in quella guerra, l'Italia entrò con una preparazione arretrata ed insufficiente; anche in quella guerra l'Italia entrò con una grande spaventosa scarsità di mezzi bellici (si ricordino gli uomini mandati, e proprio sul Carso, a tagliare i reticolati con le pinze tagliafili); e anche in quella guerra - siamo franchi fino all'ultimo - l'Italia entrò con una strabocchevole dovizia di generali inetti e incapaci, e con un Comando Supremo senza dubbio inadeguato al compito altissimo. E perciò, le divisioni italiane furono mandate troppo spesso all'assalto «tanto per fare», senza un piano lungimirante; e perciò le perdite italiane furono molto più forti di quelle che avrebbero potuto essere, sia pur computando il fatto che gli italiani erano quasi sempre all'offensiva; e perciò a Redipuglia giacciono assai più morti di quanti non ne chiedessero le dure necessità tattiche e strategiche inerenti alla guerra offensiva intrapresa».

Nell'immediato dopoguerra, negli anni dal 1919-20, i servi e le prostitute della borghesia italiana, annidati nelle redazioni e nei confessionali, benedicevano le rivoltellate sparate dalla canaglia fascista agli operai rivoluzionari che rinfacciavano allo Stato maggiore savoiardo le stesse medesime furfantesche incapacità, che, ironia del politicantismo, leggiamo oggi nella prosa «franca» del direttore del Mattino, Giovanni Ansaldo. Allora non era buon affare per la stampa borghese dire corna della preparazione militare e dell'operettistico Comando Supremo dei Cadorna e dei  Diaz; anzi si pagavano i teppisti fascisti perché facessero tacere, col fuoco e il saccheggio, la stampa «sovversiva», cioè comunista la quale, sulla linea leninista del disfattismo rivoluzionario (non del pacifismo eunuco, o porci picassiani!) e fustigando le vigliaccherie riformiste dei socialdemocratici, conduceva aperto assalto alle menzogne retoriche del combattentismo. Oggi, avendo da giustificare una guerra ignominiosamente perduta, la borghesia dominante può impunemente (specialmente coloro che del fascismo furono come Ansaldo, i propagandisti professionali, lo possono), ammettere che la seconda carneficina fu condotta con metodi e preparazione non peggiori della precedente. L'insipienza arrogante dell'ufficialato è dunque un dato eterno dell'esperienza bellica dello Stato di Roma ?! Meno male che siano a riconoscerlo gli stessi borghesi, anche se lo scopo delle mezze confessioni va ricercato nella incessante fatica di rendere produttive menzogne grandi. Poco importa quali conclusioni traeva Ansaldo alla chiusura dell'articolo. Le solite speculazioni sul patriottismo, l'unione nazionale ecc. Quel che importa è di vedere ciò che scriveva l' Unitàsulla stesso argomento.

Verso la fine dell'articolo di fonda intitolato «4 novembre» era scritto:

«Già due anni or sono il compagno Togliatti ammoniva: «il nostro esercito aveva raccolto nella guerra del 1915-18, un suo onore, una sua gloria militare. Aveva saputo resistere, sopportare duri attacchi e anche sconfitte, riprendersi, vincere. Questo era un patrimonio che in qualsiasi modo si fosse giudicata questa guerra, era comune a tutti gli italiani. L'onore militare del proprio paese è un bene di tutti i cittadini».»

Siano dunque arrivati a questo, che a svergognare se stessi ci pensano gli stessi uomini della borghesia. Dobbiamo leggere la prosa di un Ansaldo per scoprire, ammesso che non l'avessimo scoperto da trent'anni, quali vergogne e sozzure si nascondano dietro la retorica dell'onore militare che Togliatti definisce  «un bene di tutti i cittadini»! I giornali, come l'Unità L'Avanti  che, a tempo perso, si autodefiniscono antiborghesi e socialisti, di tali cose preferiscono non parlare. I generali buoni a nulla mandavano dunque sul Carso le divisioni italiane (cioè migliaia di proletari) all'assalto, senza un piano preciso, ma così, «tanto per fare», siccome dice Ansaldo, erano mandate contro i reticolati armati di pinze?! Ciò a Togliatti, preoccupato di blandire i pregiudizi militareschi dei borghesi, ad arruffianarsi, non importa un fico secco. Ma quando lui e i suoi luogotenenti entrarono, intruppati nell'ultimissima retroguardia, nel Partito Comunista d'Italia nel 1921, forse che esprimevano le stesse infatuazioni patriottarde e nazionaliste di oggi? L'avessero fatto, robusti piedi di proletari li avrebbero messi istantaneamente alla porta, mandandoli ad unirsi al fascista Nenni, al riformista Turati, al democratico Nitti. Ora che i proletari dormono, tutto è possibile...

I servi, si sa, sono sempre più svergognati e feroci dei padroni.

il programma comunista, n.4, 30 novembre - 4 dicembre 1952

 

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