DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Viviamo in un'epoca in cui le reazioni alla crisi del capitalismo non si manifestano ancora in una ripresa della lotta di classe, ma tendono ad assumere le categorie di “Popolo” e “Nazione”, viste come alternativa alle élites del capitale finanziario internazionale, detentrici delle leve del potere economico, che impongono ai governi politiche neoliberiste. All'origine di questa tendenza è l'obiettivo processo di proletarizzazione di strati sempre più ampi della società che tuttavia, perfino quando si esprimono in forme di ribellione violenta, conservano, per mentalità e cultura, l'illusione che un riscatto sia possibile entro l'attuale sistema economico, che un nuovo “benessere” possa derivare da una redistribuzione del plusvalore sociale operata da governi “sovrani”. La nazione diventa allora riferimento per un riscatto in cui si possono riconoscere gli strati popolari, dai ceti medi impoveriti al proletariato. Quali che siano le forme che assumono, queste reazioni di strati sociali minacciati dalla proletarizzazione sono sintomi di una crisi profonda, radicata nelle difficoltà del processo di valorizzazione capitalistica su cui poggia l'intero assetto economico-sociale, e pertanto destinata ad evolvere e aggravarsi.

 

Analoghi processi, innescati dalla paura delle mezze classi di decadere nella condizione proletaria, furono caratteristici dell'ascesa del fascismo in Europa. Weimar fu teatro di una violenta crisi che trascinò nella spirale inflazionistica, oltre al proletariato, ampi settori delle classi di mezzo, mentre una ristretta minoranza di magnati, accaparratori e affaristi ne ricavava immensi guadagni. La crisi, in quanto risultato anche della pressione economica e militare dei vincitori, diede alimento a spinte reazionarie, e ad altre più modernamente nazionaliste destinate alla fine a prevalere, non prima di aver schiacciato con la repressione un formidabile movimento operaio che fu a un passo dal conquistare il potere per l'unica via possibile, quella rivoluzionaria. Mentre la socialdemocrazia, convertitasi dopo la sbornia socialsciovinista a un ipocrita pacifismo democratico, si prestò ad adempiere ai compiti imposti dai vincitori – il primo dei quali fu la repressione sanguinosa dello Spartachismo – fu la componente rivoluzionaria a far proprio, in alcune fasi della crisi, l'argomento “nazionale”: i nazional-bolscevichi di Amburgo, per convinzione che il popolo tedesco fosse nel suo insieme ridotto alla condizione proletaria; e il KPD, in virtù di un'analisi della situazione internazionale che si avvicinò a considerare la Germania “nazione oppressa” e come tale legittimata a sollevarsi sotto la guida del proletariato contro l'ordine imposto a Versailles.

Dal punto di vista puramente tattico, l'argomento “nazionale” serviva a conquistare alla causa rivoluzionaria i settori della piccola e media borghesia influenzati dal fascismo nascente, che da parte sua non mancava di agitare nel campo proletario un ambiguo “anticapitalismo a base razziale”. Se è ovvio affermare che la crisi che il capitalismo sta attraversando oggi è per tanti aspetti lontanissima dalla crisi di allora, la attuale ripresa di temi “nazionali” in risposta a politiche di austerità imposte da forze esterne affonda, come ieri, in una crisi dei rapporti tra imperialismi e in una crisi sociale, entrambe riconducibili alle difficoltà del processo di valorizzazione capitalistico. Rispetto a quella odierna, la crisi del primo dopoguerra in Europa si presentò con ben maggiore intensità, e soprattutto pose l'alternativa tra rivoluzione proletaria e conservazione, risolvendosi alla fine in una precaria stabilizzazione capitalistica. Quella attuale non prende ancora la forma di scontro aperto, ma cova tensioni formidabili tra le classi e tra gli imperialismi. Per durata e profondità, essa è per certi aspetti più grave di quella di un secolo fa e aperta ad esiti altrettanto catastrofici. La storia del movimento proletario negli anni cruciali del primo dopoguerra europeo mostra alcune analogie con la situazione attuale, in cui riappare una rivalutazione del nazionalismo a sostegno di istanze popolari anche in formazioni  “di sinistra”, non escluse alcune che si definiscono senza pudore “comuniste”.

***

Una recente pubblicazione in italiano dedicata al cruciale 1923 (1) propone una rivisitazione a suo modo originale di quegli eventi.  L'argomento è tale da far tremare i polsi, giacché in quell'anno maturò la svolta fatale che segnò la sconfitta del movimento rivoluzionario mondiale e che diede la spinta decisiva al processo di degenerazione dell'Internazionale Comunista (IC) e al suo ripiegamento su  obiettivi “russi”. L'autore si è accinto all'arduo compito con l'intento di correggere quello che ritiene un vizio interpretativo della storiografia marxista che, nell'interpretazione finora corrente, con poche eccezioni, sarebbe viziata da una sottovalutazione dell'importanza degli accadimenti di quell'anno, che si può far risalire alla posizione che inizialmente prevalse nell'IC:  la rivoluzione in Germania non si era dispiegata perché le condizioni non erano mature, pertanto la direzione del KPD e i rappresentanti dell'Esecutivo dell’IC in Germania avevano deciso opportunamente di non ingaggiare una lotta votata alla sconfitta, conservando così le forze in vista delle battaglie future.

Sul fatto che ci sia stata inizialmente una sottovalutazione non si può che essere d'accordo. Solo in seguito nell'IC e nel KPD si prese atto della gravità della sconfitta. Trotsky  parlò di “crisi della direzione rivoluzionaria” in presenza di una tensione delle masse che aspettava solo di essere convogliata alla conquista del potere. In effetti nel 1924 la direzione dell'Internazionale (la cosiddetta troika composta da Zinoviev, Stalin e Kamenev) provvide poi a rimuovere la vecchia direzione del KPD – contro la volontà dello stesso Trotsky – e ad assegnarla alla “sinistra” del partito tedesco, attribuendo l'intera responsabilità del fallimento ai capi in cui l'Esecutivo dell’IC nei momenti cruciali aveva riposto piena fiducia. Simili manovre risentivano ormai fortemente dello scontro interno al partito russo, dove la troika si muoveva con estrema spregiudicatezza per isolare Trotsky, anche facendo proprie alcune sue posizioni allo scopo di privarlo dei suoi argomenti caratteristici. In realtà, il “cambio della guardia” alla guida del KPD non rimuoveva affatto le ragioni di fondo della disfatta che risiedevano certamente nella vecchia direzione del partito tedesco, ma anche negli stessi indirizzi dell'IC che la “sinistra” tedesca pure aveva condiviso (2).

Anche l'epilogo assai poco eroico dell'”ottobre tedesco” finì con lo sminuire il significato e l'intensità degli eventi precedenti, segnati da una fervida attesa della rivoluzione, tanto nelle masse proletarie quanto nel KPD e nell'IC. Non vi è dubbio che gli eventi di quell'anno meritino di essere studiati in modo approfondito, che ancora vi sia molto da dire e da scrivere in proposito, ed è pertanto degno di interesse ogni lavoro che riprenda un argomento di questa portata. Lo storico ci fa l'onore di considerare nell'ampia e autorevole bibliografia anche il nostro Quaderno n.7 (Nazionalismo e internazionalismo nel movimento comunista tedesco, 2014), sebbene classificandolo come esempio di “idee semplificatorie e liquidatrici di ultrasinistra, che purtroppo continuano a imperversare”. Tali idee “di ultrasinistra” – che ci pare imperversino invero solo nella fantasia dei destrissimi - vengono poi a loro volta liquidate in nota con il seguente giudizio riferito alla occupazione della Ruhr: “... dopo un inquadramento nello stile dell''economicismo imperialistico' (criticato da Lenin nel 1916) della guerra per la Ruhr degli inizi del 1923, [l'opuscolo] dedica uno spazio più che modesto agli avvenimenti del resto dell'anno” (3).

Non avendo noi “ultrasinistri”, da semplici militanti, ambizioni da storici, non abbiamo difficoltà ad accettare le critiche di chi si cimenta con la materia con la strumentazione dell'intellettuale, per quanto  soi – disant “militante”, dunque inteso a dare un contributo non alle proprie tasche, ma alle sorti della … rivoluzione mondiale. Siamo consapevoli che quel nostro lavoro non raggiunge le altezze della vera letteratura storica, e del resto fin dalle sue prime righe confessiamo apertamente che “non ci interessa dare un contributo storiografico e nemmeno un'interpretazione che rientri in una discussione tra 'esperti' più o meno ferrati in materia”Ben lontani dall'ambizione di dialogare alla pari con gli accademici, il nostro intento si limita a cercare di trarre dalla storia del movimento proletario gli insegnamenti che domani, al ripresentarsi delle condizioni per la rottura rivoluzionaria, dovranno guidare l'azione del partito di classe.  E' a questo scopo, e non certo per la gloria di un posto tra gli esperti riconosciuti della materia, che sottoponiamo di buon grado il nostro lavoro al vaglio della critica anche più feroce.

Passando a considerare “le idee semplificatorie e liquidatrici di ultrasinistra” per cui meriteremmo l'insufficienza, lo storico senza falsa modestia le attribuisce al fatto che prescindono dalla… sua originalissima valutazione complessiva degli eventi! (cfr. nota 3) Osserviamo per inciso che, poiché alla data di pubblicazione del nostro opuscolo quella lettura, “non [...] abituale nella storiografia”, non era ancora stata rivelata al mondo, saremmo autorizzati a chiedere clemenza. Purtroppo abbiamo sviluppato nel tempo tali e tanti anticorpi da renderci poco ricettivi di fronte alle rivelazioni e a ogni sorta di sorprendente novità interpretativa in campo “marxista”. 

Che il nostro Quaderno dedichi poco spazio al 1923 tedesco deriva semplicemente dal fatto che non si propone di affrontarlo in tutti i suoi complessi risvolti (argomento che di per sé merita ben altro che un opuscolo!), bensì di tracciare la continuità delle manifestazioni di nazionalismo nel movimento comunista tedesco, dal gruppo di Amburgo agli accenti nazionalboscevichi nel KPD, con analogie nell'ala sinistra della NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, il partito nazista), per tutto il periodo di Weimar. Questa continuità esiste ed è significativa: lega tutta la storia del movimento comunista tedesco e ne segna un tratto caratteristico per noi rivelatore di un limite teorico e politico irrisolto. La questione “nazionale” si ripresenta con l'occupazione della Ruhr e la ben nota “linea Schlageter” di Radek, ma gli eventi del 1923 e il fallimento dell'”Ottobre tedesco”, proprio perché meritevoli di una trattazione a sé, non potevano essere sviluppati nei confini dell'argomento trattato.  Forse lo storico si è limitato a cercare quello che gli interessava – il '23 in Germania – e non si è soffermato troppo sul resto, tanto più che il resto risultava in contrasto stridente con l'interpretazione che si accingeva a dare agli eventi, della quale diremo più avanti. Per chiudere su questo punto, e sorvolando sulla supponenza dell’autore, più da accademico che da “studioso militante”, archiviamo come del tutto gratuita l'accusa di essere dei semplificatori e dei liquidatori a proposito di un momento così decisivo della storia del movimento comunista. Quanto all'attributo denigratorio di “ultrasinistri”, che suona equivalente a estremisti anarcoidi e teste calde, lo misuriamo con la distanza tra la nostra lettura internazionalista e l'interpretazione invero “ non abituale” di chi ci accusa, che si colloca molto a destra. Appartiene alla tradizione della Sinistra Comunista la lotta contro ogni forma di opportunismo, di destra e di sinistra, ma anche la lotta contro la degenerazione dei metodi dell'Internazionale nel trattare le questioni tattiche e i rapporti con le sue sezioni nazionali (4). Nei congressi del Partito russo, dell'IC e poi, man mano che procedeva la bolscevizzazione, nei partiti aderenti, divenne usuale da parte della maggioranza unanimista attaccare le opposizioni qualificandole con appellativi che via via assumevano valore di deviazioni dall'ortodossia “leninista”, depositata in un ristretto gruppo dirigente. L'attacco al “deviazionista” era sintomatico del passaggio dal metodo di dirimere fino in fondo le questioni coinvolgendo tutto il Partito, al metodo democratico del compromesso e della manovra, il cui fine ultimo è il controllo dell'organizzazione. La questione riguarda il rapporto tra i mezzi e i fini: caratteristica della Sinistra è l'affermazione che i due momenti si condizionano dialetticamente, e dunque ogni scelta tattica dev'essere modulata in rapporto allo scopo finale. L'utilizzo della manovra, degli accordi sottobanco, degli attacchi personali e strumentali è sintomo e nel contempo fattore di un allontanamento dai principi fondanti del movimento e, ciò che è lo stesso, dai suoi fini ultimi. Allo stesso modo, affibbiare delle etichette assomiglia molto al metodo di cui sopra, altrettanto lontano dall'intento di chiarire le questioni con lo spirito che proprio nello scritto del 1916 Lenin raccomanda con forza: “insistere nel modo più reciso e categorico sull'obbligo di studiare a fondo e di chiarire definitivamente i problemi sollevati.”  Dato che il nostro studioso ha ritenuto l'accusa di economicismo a noi rivolta non meritevole di essere sviluppata e sufficiente l'etichetta, proviamo a occuparcene, seppur nei limiti consentiti da un articolo di giornale.

***

Dunque, la nostra lettura della Ruhr 1923 sarebbe affetta da “economicismo imperialistico”. Se Lenin fosse vivo, è sottinteso, ci prenderebbe a schiaffoni.  Nello scritto del '16 Lenin attacca la tendenza, inammissibile per un marxista (e conveniente solo per un ‘economista’ […]), a ignorare la lotta politica immediata, concreta, di oggi come di sempre.” E' la tendenza, in altre parole, a ridurre tutta l'azione del partito alla lotta economica sottovalutando le battaglie politiche contingenti per conquiste parziali, laddove non sia all'ordine del giorno l'unica battaglia che meriti di essere combattuta: quella per la conquista del potere e il socialismo. Così come gli economisti russi di fine Ottocento ritenevano che l'avvento del capitalismo azzerasse lo spazio di lotta politica per il proletariato, lasciandogli solo la lotta economica, per il nuovo economicismo l'avvento dell'imperialismo renderebbe superato l'utilizzo di parole d'ordine politiche democratiche. Al tempo la polemica di Lenin era rivolta contro Bucharin che negava in particolare che il diritto all'autodecisione delle nazioni e la difesa della patria dovessero rientrare tra gli obiettivi della socialdemocrazia rivoluzionaria.

Par di capire che l'etichetta affibbiataci si riferisca principalmente a questo: noi neghiamo che nella Ruhr la parola d'ordine patriottica, questa storica bandiera della borghesia, dovesse essere raccolta dal KPD. Non solo, ma sosteniamo che proprio gli scivoloni del KPD sul terreno del nazionalismo nel corso del 1923 furono tra i fattori del fallimento del tentativo rivoluzionario in quell'anno. Per l'etichettatore, le cose stanno proprio al contrario: l'errore del KPD sarebbe stato di non aver spinto fino in fondo i tentativi di approccio con i settori nazionalisti che culminarono nell'estate con comizi comuni tra comunisti e nazionalsocialisti e dibattiti pubblici che, com'era prevedibile, a un certo punto si chiusero per volontà dei vertici NSDAP. Un simile approccio comporta che tutta la prospettiva rivoluzionaria in Europa si ridefinisca come alleanza tra nazioni oppresse, in una visione che, archiviato l'internazionalismo proletario, l'autore stesso battezza come “geopolitica della rivoluzione”: al centro di questa prospettiva, l'alleanza tra Russia sovietica e Germania nazionalrivoluzionaria (o nazionalbolscevica), complementari nella diversità di sviluppo economico e nella dotazione di risorse: materie prime e derrate alimentari l'una, tecnologia industriale l'altra. Ciò che dovrebbe far propendere per quest’orientamento sarebbe una maggiore concretezza e realizzabilità storica, di contro alla… astrattezza dei proclami alla sollevazione proletaria internazionale destinati a cadere nel vuoto. Insomma, l'internazionalismo proletario applicato alla tattica sarebbe un'idea da creduloni affetti da “principismo” (da intendersi, ci par di capire, come cieca sudditanza ai princìpi). Di altra pasta sarebbero fatti i veri rivoluzionari, uomini di mondo, gente pratica, concreta, che bada al sodo!...

Ma torniamo a Lenin e alla sua critica all'economicismo imperialistico. Ciò che egli rimprovera a Bucharin è di non porre la questione della guerra e la questione nazionale storicamente. L'avvento dell'imperialismo non determina il superamento della questione nazionale e della “difesa della patria” in tutti i paesi e allo stesso modo, ma le ridefinisce in ragione del loro sviluppo e della loro collocazione nell'assetto imperialista internazionale. Si tratta allora di valutare quale fosse in questo assetto la posizione della Germania sconfitta, se davvero Versailles l'avesse ridotta da grande potenza a “nazione oppressa”, come vorrebbero i teorizzatori della “rivoluzione nazionale” mancata.  La sconfitta non aveva scalfito la natura imperialista della Germania. Weimar è anzi il contesto politico ed economico che consente il rafforzamento del grande capitale tedesco. La repubblica nasce con l'avallo della borghesia capitalistica che tiene salde le leve dell'economia e lascia alla socialdemocrazia il contenimento delle rivendicazioni politiche del proletariato entro i confini della democrazia borghese, coltivando nelle masse l'illusione di una “socializzazione” presto abortita. Le dure condizioni di Versailles sono prese a pretesto da settori importanti del padronato per sostenere una politica di spietato contenimento delle rivendicazioni operaie sul terreno economico, mentre l'inflazione favorisce lo sviluppo impetuoso dei cartelli tra i grandi gruppi per la fissazione di prezzi concordati. La concentrazione del potere economico comporta un obiettivo rafforzamento del capitale e vanifica le velleità del riformismo socialdemocratico di pervenire passo passo al socialismo attraverso un progressivo controllo statale della produzione. La forza del capitalismo tedesco è dimostrata dalla stessa politica aggressiva della Francia, per nulla rassicurata dalle pur durissime condizioni di pace: Poincaré tenta inutilmente di fomentare i separatismi e si spinge fino all'occupazione militare della Ruhr per indebolire l'avversario, sconfitto militarmente ma quanto mai vivo e dinamico nell'apparato industriale. Questi brevi cenni non possono esaurire un argomento così complesso (5), ma ce n'è abbastanza per affermare che la Germania di Weimar era ben lontana dall'essere una “nazione oppressa”. Versailles l'aveva ridimensionata territorialmente, ma rafforzata nella coesione nazionale dalla perdita di territori etnicamente misti; l'umiliazione contribuiva a far dimenticare le responsabilità della guerra e fomentava sentimenti ultranazionalisti anche nella classe operaia.

Il primo a sostenere che la lotta per l'abolizione del trattato di Versailles andasse presa con le pinze fu lo stesso Lenin ne L'estremismo. Egli raccomandava di non considerarla una rivendicazione prioritaria del movimento comunista, argomentando che come la Russia rivoluzionaria era stata in grado di reggere alla pace di Brest-Litovsk – disastrosa in termini “nazionali” ma necessaria per la sopravvivenza della rivoluzione – così la rivoluzione tedesca si sarebbe potuta sviluppare entro il quadro di Versailles, anche al prezzo di cedimenti sul terreno nazionale. Ennesima conferma, questa, che per Lenin l'obiettivo della rivoluzione proletaria internazionale mantiene una assoluta centralità rispetto ad ogni rivendicazione patriottica che, per quanto possa essere agitata a scopi propagandistici, rimane specifica del movimento nazionalista.

***

Weimar è terreno di uno scontro di classe tra un proletariato numericamente forte e organizzato, orientato a conquistare il potere e una borghesia altrettanto forte e ben determinata a conservarlo. Al suo vertice, la borghesia capitalistica è rappresentata da un'esigua minoranza di magnati e affaristi, ma si giova dell'appoggio dei ceti medi che, per quanto colpiti in misura maggiore o minore dall'inflazione, per mentalità e cultura rimangono tanto sensibili alle sirene nazionaliste quanto refrattari a riconoscersi nella condizione proletaria sul piano sociale ed ideologico. Il nostro storico attribuisce al KPD e all'IC l'incapacità, in quei frangenti, di superare una visione a suo dire “operaista” (6) e di assumere un ruolo “nazionale” di aggregazione attorno al  proletariato delle classi di mezzo influenzate dal nazionalismo. E' vero che alcuni settori delle mezze classi impoverite, animati da sentimenti nazionalistici, talvolta socialisteggianti, potevano essere sensibili alla propaganda comunista; tuttavia, i ceti medi nel loro insieme restavano massa di manovra a disposizione del grande capitale. Nelle sue Memorie, Victor Serge racconta i successi oratori del comunista Remmele di fronte a una platea di nazionalsocialisti, ma se, in applicazione della “Linea Schlageter”, era lecito sfruttare tutte le occasioni di propaganda, non se ne potevano trascurare le conseguenze entro il proprio campo di classe. La prima conseguenza fu l'immediato attacco della stampa socialdemocratica che colse l'occasione per denunciare il KPD di collusione con i fascisti. Questi attacchi, per quanto strumentali e senza fondamento, rafforzavano nei proletari ancora legati alla SPD l'orientamento a difesa di Weimar democratica, nata pur sempre dalla “rivoluzione dei consigli”, contro tutte le minacce, di destra e di sinistra. Ciò avveniva in un momento decisivo in cui le insostenibili condizioni di vita spingevano questi proletari alla radicalizzazione, a schierarsi dalla parte della rivoluzione imminente (e le cronache dello stesso Serge documentano forti segnali in tal senso).

Più ancora, per tornare sul terreno dei “principi”, così impervio per i pragmatici, non si poteva trascurare il rischio che un KPD “nazionalista” minasse alle fondamenta la prospettiva dell'internazionalismo proletario su cui si imperniava tutta la visione (bolscevica) della rivoluzione in Europa, e fomentasse analoghe derive in Francia e altrove. L'incombente rivoluzione, che si annunciava nella tensione altissima delle masse proletarie e nel montare della reazione, richiedeva che le energie del KPD, piuttosto che disperdersi in aleatori sforzi propagandistici, si rivolgessero tutte alla preparazione dell'insurrezione, e fu proprio in questo passaggio che il partito non fu all'altezza del difficilissimo compito. L'apertura alle forze nazionalrivoluzionarie fu, in questo contesto, un fattore di disorientamento che intaccò la fiducia delle masse proletarie in un partito dal quale mai come in quel frangente esse attendevano parole d'ordine chiare e inequivocabili. Il partito cercò di rispondere alle accuse di collusione con la destra estrema con l'indizione di una giornata antifascista, senza chiarire se si trattasse di una “dimostrazione politica” o se segnasse “l'apertura della guerra civile” che era ormai nell'aria (cfr. “La politica dell'Internazionale”, cit.). Le manifestazioni furono vietate in buona parte del Reich, e il risultato fu la dispersione di ulteriori energie.

La critica all'indirizzo tattico “nazionale” – che fu abbandonato perché non più praticabile in una situazione che precipitava rapidamente verso la guerra civile – non muove dunque da preclusioni “di principio”, da una visione astratta e non storica, ma prima di tutto da elementi di fatto entro il contesto generale dello scontro di classe internazionale. Ciò non toglie che un indirizzo tattico che, in vista di vantaggi immediati, non valuti gli effetti della sua applicazione sui fini, sulla ragion d'essere del movimento, si apra alle peggiori derive. Ammettiamo pure – in via del tutto ipotetica – che la supertattica “nazionalboscevica” (se possiamo così chiamarla) sfociasse effettivamente in una  “rivoluzione tedesca” vittoriosa. Quella rivoluzione, condotta in nome della “Nazione”, sarebbe stata ancora la nostra rivoluzione o si sarebbe aperta alle peggiori degenerazioni? Questa idea così finemente strategica della “geopolitica della rivoluzione” si risolve infine in una alleanza tra nazioni “rivoluzionarie” contro gli imperialismi vittoriosi, né più né meno quanto auspicavano i nazionalbolscevichi di Amburgo, uno dei principali gruppi fondatori del KPD nel '19. Ma gli amburghesi erano degli strateghi ancor più fini: avevano intuito che per percorrere quella strada bisognava arruolare i generali della Reichswehr, prospettando loro i vantaggi dell'interscambio con la Russia in vista di una rapida rimilitarizzazione della Germania. Più strateghi ancora, per formazione professionale, erano però gli stessi generali: figure come Gessler e von Seekt seppero abilmente conciliare la repressione antioperaia e anticomunista con l'apertura diplomatica più o meno segreta alla Russia sovietica. Il maneggio della geopolitica sembra davvero più affare dei generali, assai più pragmatici dei rivoluzionari come strateghi!

Vero è che, dal momento della sua nascita, allo Stato sovietico si pose la necessità dell'apertura a rapporti economici e diplomatici con gli Stati esteri, pena il soffocamento economico della rivoluzione. Tuttavia, almeno fino al cruciale 1923, la diplomazia sovietica fu sempre orientata ad approfondire le contraddizioni tra gli imperialismi per favorire le condizioni della rivoluzione internazionale. Calcoli geopolitici o internazionalismo rivoluzionario? Possiamo anche chiamarla “geopolitica della rivoluzione”, ma una politica rivoluzionaria non vive di solo calcolo. Non erano certo i calcoli geopolitici a guidare l'Armata rossa nella guerra russo-polacca del 1920, ma lo slancio internazionalista dei proletari russi in armi e dei tanti volontari internazionalisti alla conquista di Varsavia. Varsavia non cadde anche perché i comunisti polacchi non avevano condiviso il principio del diritto all'autodecisione delle nazioni, non ne avevano inteso la valenza internazionalista, lasciando in questo modo alla borghesia tutto l'armamentario ideologico della “difesa della patria”. Ciò che valeva per la nazione polacca, oppressa per secoli dallo zarismo, non poteva però valere per la Germania, il cui spessore di potenza imperialista era appena malcelato dal ridimensionamento territoriale e militare.

***

In conclusione, la tesi che la rivoluzione tedesca nel 1923 non fu perché non fu “nazionale”, nel suo preteso pragmatismo si rivela campata in aria. In realtà la tattica sottesa alla “Linea Schlageter” fu applicata con convinzione, anche dalla sinistra del KPD. Si interruppe in agosto sia per la proibizione della partecipazione ai dibattiti coi comunisti ordinata dai vertici NSDAP, sia perché il tempo della propaganda era finito e si avvicinava quello della battaglia finale, alla quale le forze della reazione si dimostrarono assai più pronte. Dovendo quindi “prescindere” da quella valutazione, siamo costretti a confermare le idee che possono risultare “semplificatorie e liquidatrici” soltanto al caratteristico approccio opportunista che sacrifica gli obiettivi finali del movimento al risultato concreto, immediato – foss'anche una rivoluzione tedesca dai tratti nazionalpopolari.

Non può essere casuale che simili interpretazioni della storia appaiano in coincidenza con la attuale riscoperta dei “valori nazionali” anche in formazioni che si dicono “di sinistra” e che si schierano in difesa della “patria” e del “popolo”, contro l'arroganza di istituzioni internazionali che rappresentano gli interessi della grande finanza e delle principali potenze (tra queste, guarda caso, la già derelitta Germania). Ecco le idee che oggi imperversano: non certo le nostre. Le valutazioni della Sinistra Comunista di quelle ormai lontane, ma quanto mai attuali, vicende si rifanno a uno scritto del 1924 da cui non si dovrebbe prescindere: “Il comunismo e la questione nazionale” (7). E' davvero sorprendente che un lavoro pur ricco di documenti e riferimenti bibliografici come Germania 1923. L'“Ottobre tedesco” e il suo fallimento non rechi traccia di questo testo fondamentale che entra direttamente nel merito della questione su cui si impernia tutta la fatica interpretativa dell'autore. Vi si può trovare la stessa attenzione alle relazioni dialettiche tra tattica e principi/fini del movimento bollata di “principismo”, lo stesso… “operaismo” inteso come centralità del proletariato internazionale nella definizione di ogni indirizzo tattico. Vi si ritrova, in breve, l'internazionalismo proletario e la condanna senza riserve del ricorso al nazionalismo. Chiudiamo allora, riportandone una citazione che, nella sua lapidarietà, posa una pietra tombale su tutte le forme di opportunismo:

“Parecchie volte, dalla parte nostra, dalla sinistra marxista, è stato svelato il trucco volgare dell’opportunismo. La sua pretesa avversione ai principi, ai dogmi, come cretinamente si diceva, si riduceva semplicemente ad un’osservanza ostinata e cieca di principi propri dell’ideologia borghese e controrivoluzionaria. I positivi, i pratici, gli spregiudicati del movimento proletario, si rivelavano nel momento supremo come i più bigotti fautori di idee borghesi, a cui pretendevano di subordinare il movimento proletario, ed ogni interesse dei lavoratori.”

NOTE

1- Corrado Basile, Germania 1923. L''ottobre tedesco' e il suo fallimento, Edizioni Colibrì, 2016

2- Su tutte queste questioni, rimandiamo ai nostri Quaderni nn. 7 e 8: Nazionalismo e internazionalismo nel movimento comunista tedesco (2014) La crisi del 1926 nell'Internazionale Comunista e nel partito russo (2016).

3– Germania 1923, cit., p.15, nota 17. Lo scritto di Lenin cui l'autore fa riferimento è “Sulla tendenza nascente dell''economicismo imperialistico” , agosto-settembre 1916 (Opere complete, vol XXIII, pp. 9-17).

4 – “La politica dell'Internazionale”, L'Unità del 15 ottobre 1925 (firmato Amadeo Bordiga).

5 - Rimandiamo in proposito a un classico studio, G. E. Rusconi, La crisi di Weimar (Einaudi 1977), ricco di dati sulle trasformazioni della struttura economica e sulla stratificazione delle classi nella Germania del periodo.

6 - Per “operaismo” si intende  comunemente quella deviazione opportunista del movimento operaio, il cui primo vizio sta nell'identificare la condizione “proletaria” in senso economico con l'arruolamento nel fronte della rivoluzione sociale. Qui lo storico rivela una certa… creatività nel maneggio delle idee, attribuendo al termine un significato affatto diverso: nel KPD e nell'IC avrebbe prevalso un orientamento “operaista” in quanto si sarebbero rivolti esclusivamente sulle masse operaie e sui proletari “puri”, trascurando l'attitudine rivoluzionaria delle classi di mezzo influenzate dal nazionalismo. E' significativo che proprio i nazionalboscevichi di Amburgo, la corrente comunista che per prima ha espresso la lettura “nazionale” della rivoluzione tedesca, fossero autenticamente “operaisti”, fautori del controllo operaio della produzione in cui risolvevano la “rivoluzione” economica e sociale. Si può arrivare al nazionalismo partendo da premesse diverse, ma la matrice è sempre la stessa: l'opportunismo.

7 - “Il comunismo e la questione nazionale”, Prometeo del 15 aprile 1924.

 

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                                                                           (il programma comunista)

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  • Israele: Nel baraccone nazional-comunista: vie nazionali, blocco con la borghesia ( Il programma comunista, n°20, 1967)
  • Israele: Detto in poche righe ( Il programma comunista, n°18, 1968)
  • Israele: Spigolature ( Il programma comunista, n°20, 1968)
  • Israele: Un grosso affare ( Il programma comunista, n°18, 1969)
  • Incrinature nel blocco delle classi in Israele(Il Programma comunista, n°17, 1971)
  • Curdi palestinesi(Il Programma comunista, n°7, 1975 )
  • Dove va la resistenza palestinese? (I)(Il Programma comunista, n°17, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
  • Cannibalismo dello Stato colonialmercenario di Israele(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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