DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Del movimento dei gilets jaunes abbiamo già scritto nel numero scorso di questo giornale. Non intendiamo dunque tornare più di tanto sull’argomento, anche perché il movimento sembra ormai attestato sulla routine degli “atti” del sabato pomeriggio, che – a fronte d’un sempre massiccio e trucido dispiegamento/intervento poliziesco – vedono una partecipazione decrescente, sebbene, a quanto pare e almeno per il momento, il sostegno continui a essere diffuso nel corpo della società francese (scriviamo a metà marzo) e gli scontri con le “forze dell’ordine” proseguano in maniera anche acuta (per esempio, a Parigi, il 16 marzo scorso). Possiamo tuttavia ribadire che si tratta di un movimento “popolare”, interclassista, nato sicuramente dal peggioramento generale delle condizioni di vita e attraversato da istanze e parole d’ordine diverse, spesso ambigue e contraddittorie (non escluse alcune apertamente “di destra”), in cui anche la (peraltro relativa) partecipazione proletaria – per lo più, bisogna sottolineare, a livello individuale – non si è potuta distinguere dal resto della mobilitazione quanto a obiettivi e metodi di lotta. Un movimento che dunque da un lato ha riportato in primo piano il profondo e diffuso disagio sociale e, dall’altro, qualche problema ha anche finito per crearlo sia alla classe dominante e al suo governo sia alla loro gestione dell’“ordine pubblico”, mostrando una volta di più che – al di là degli ormai scontati rituali dei casseurs – non è con la retorica del “dialogo” e della “pace sociale” che si possono avanzare rivendicazioni e perseguire obiettivi che non siano destinati ad affogare rapidamente nella melassa del “discorso democratico”.

Potremo tornare in futuro sui reali risultati conseguiti dal movimento, non appena si delineino con maggiore chiarezza, ben oltre la tipica demagogia messa in campo dal governo con il suo “Dibattito Generale Nazionale”, gli orientamenti della classe dominante in merito alle rivendicazioni avanzate; possiamo comunque già anticipare che qualunque “concessione” data con una mano verrà presto ripresa dall’altra, ma con ulteriori peggioramenti di una già grave condizione sociale. Invece, in questa nota, vogliamo soffermarci brevemente sulle reazioni che, da subito e in maniera insistente, si sono levate e continuano a levarsi a proposito dei gilets jaunes da parte della variegata Armata Brancaleone della cosiddetta “sinistra”, specie di quella che ancora si qualifica come “rivoluzionaria”. Nell’arco di tutti questi mesi, abbiamo infatti assistito allo sproloquio di una “sinistra extraparlamentare” che vede nei gilets addirittura una manifestazione moderna della potenza del 1905 russo come precorritrice dell’Ottobre 1917 (bum!); abbiamo visto l’iniziale prudenza di alcuni lasciare spazio a uno sproporzionato entusiasmo interventista (completo di invii in Francia di spaesati drappelli di “solidali” italiani); abbiamo registrato la diffidenza di certi “militanti di professione” davanti alle contraddizioni della realtà in merito ad alcuni attacchi xenofobi (che avrebbero qualificato questa lotta come esclusivamente “di destra” e vicina al Rassemblement Nationale, ex Front National); abbiamo ripetutamente assistito all’infantile esaltazione della “disorganizzazione organizzata” e “sistematizzata” dei gilets jaunes come ennesima riproposizione, dura a morire, di uno spontaneismo anarcoide (o “democratico dal basso”). E via di seguito, a dimostrazione che… grande è la confusione che regna sotto il cielo.

Vediamo dunque alcuni esempi, fra i tanti, di queste reazioni più che scomposte. E partiamo proprio dalla Francia. Tralasciamo pure Jean-Luc Mélenchon e la sua France Insoumise (“La Francia che non si piega”: tutto un programma!) che nell’occasione ha mostrato davvero che “il re è completamente nudo” e prendiamo invece in considerazione altre due formazioni, una più recente e l’altra attiva da decenni su suolo francese. Così, il Nouveau Parti Anticapitaliste, nato nel 2009 come evoluzione della trotzkista Ligue Communiste Révolutionnaire, dopo significative iniziali esitazioni, guarda con favore al movimento dei gilets jaunes e soprattutto alla sua “evoluzione politica”. In un articolo intitolato significativamente “La convergenza necessaria” (dal sito dell’NPA, 10 dicembre 2018), quest’organizzazione individua quelli che sarebbero i punti positivi di quest’evoluzione in rivendicazioni come: la redistribuzione delle ricchezze (!!!), la lotta all’ingiustizia fiscale, l’opposizione all’aumento dell’IVA, la critica del “disprezzo sociale dei ricchi e dei politici al loro servizio” (!!!), culminando nel lamento sulla “democrazia confiscata da questo pugno [di sfruttatori] ai danni della maggioranza” (!!!)… tutte “questioni politiche che si sintonizzano con quanto l’insieme del movimento operaio rivendica da decenni” (!!!). La ciliegina viene però dopo. Leggiamo infatti che “E’ più che urgente che le collere sociali convergano per far arretrare” il governo, che per il momento “si rifiuta di prendere dal capitale dei suoi amici per darlo al gran numero del resto”, utilizzando provocazioni e repressione. In parte (e qui NPA strizza l’occhio alla CGT e a Solidaires), questa “convergenza” s’è già verificata, con manifestazioni in comune: e così, “nello spirito che anima ciascuno e ciascuna, l’estensione di questa convergenza diventa una necessità assoluta di fronte a un governo che rimane sordo alle rivendicazioni. […] Abbiamo dunque tutte e tutti, nelle nostre diversità e senza rinunciare alle identità di ciascuno e ciascuna, una responsabilità importante per la buona riuscita di questa congiunzione: sviluppare gli scioperi su rivendicazioni di emancipazione sociale”. Insomma, tutti insieme appassionatamente, come ai tempi del mitico e mai dimenticato Fronte Popolare… purché a pagare siano i proletari che dovrebbero scendere in sciopero per tali obiettivi! Che dire di più?

E passiamo a Lutte Ouvrière, che – una volta di più, vien da dire! – s’è distinto per aperto opportunismo, tra frasi roboanti e pratiche di piccolo cabotaggio riformista. In una serie di prese di posizione uscite sul settimanale omonimo (per esempio, LO del 19 novembre 2018), s’individua subito il… nemico: “gli azionisti delle grandi imprese [che] continuano ad ammassare miliardi di profitti […], i padroni [che] prendono la decisione di chiudere la imprese per fare ancora dei profitti”, mentre “i lavoratori sono costretti a sopravvivere con salari troppo bassi o sussidi di disoccupazione”… Il “nemico” sono dunque “le grandi imprese quotate in Borsa” (il cosiddetto CAC 40), contro le quali i lavoratori devono condurre “una lotta di grande ampiezza”, loro che “esigono di vivere degnamente del loro lavoro, loro che fanno girare l’intera società, o che l’hanno fatta girare e poi si sono ritrovati privi del posto di lavoro o in pensione”. E su queste basi, in questa lotta, si ritrovano da capo tutti insieme: “lavoratori (in genere), artigiani, padroncini, contadini, subappaltatori” e in più i “piccoli commercianti, la cui sorte è legata a quella dei lavoratori” (!!!), insomma tutti coloro che subiscono “la dittatura dei grandi gruppi capitalisti e delle banche” (LO del 21 novembre 2018 e del 3 dicembre 2018). Che fare dunque? “L’insieme delle classi popolari [???] ha interesse a controllare che cosa se ne fa lo Stato del denaro [ricavato da tasse e imposte]. Ma questo controllo deve estendersi alle imprese. I capitalisti dicono che non possono aumentare i salari, che non possono assumere? Imponendo la trasparenza e il controllo dei conti, i lavoratori avranno i mezzi per vedere dove vanno a finire i miliardi provenienti dallo sfruttamento del loro lavoro”. E ci sembrava che il “controllo, ormai nemmeno più operaio, ma popolare” dovesse tornare a far capolino! Insomma, “Lavoratori e mezze classi, unitevi… per controllare i conti!”. Il tutto poi, come nel caso dell’NPA, ovviamente, guarda avanti. Sì… alle prossime elezioni europee!

Ma lasciamo, con pochi rimpianti, “La Douce France”. Ripassiamo le Alpi e torniamo nella “Bella Italia”. E qui le note sono altrettanto dolenti – forse anche più dolenti, vista la propensione dei “sinistri” nostrani ad accogliere a bocca aperta tutto quanto avviene all’estero (ricordate il sandinismo? i no-global? il popolo di Seattle? gli indignati? Syriza? una lenzuolata di miti e illusioni, poi più o meno tristemente dimenticati per strada…). Ordunque, un po’ a caso e senza potere (né volere) esaurire tutti i possibili esempi, vediamo qualche chicca sparsa.

Così, “OperaiContro”, in un articolo intitolato “La politica del ferro e del fuoco” (n.24 del 24/2/2019), ci spiega che la “piazza”, quella che “regge gli scontri con la polizia, quella che tutti i sabati, dal mese di novembre fino ad ora, sfila per le vie di Parigi mettendo a sottosopra gli eleganti Boulevards e saccheggiando le raffinate boutique del centro cittadino, scontrandosi con la polizia in assetto di guerra”, sta fondando “un nuovo modello di confronto politico che esce dal classico sistema di intermediazione politica. Per ora ha spezzato la logica della delega alla trattativa, affermando una politica nuova che si basa sulla lotta di strada”. Benissimo. Ma vien da chiedersi: “nuovomodello di confronto politico”? “politica nuova”? “Nuovo”? Dovevano arrivare i gilet gialli perché “OperaiContro” vivesse quest’inebriante illuminazione? dovevano scendere in piazza le mezze classi per insegnarcelo? Quanto poi agli obiettivi, “OperaiContro” li sintetizza così: “Quella piazza ha decisamente stabilito che il proprio nemico è Macron. Quella piazza ha deciso senza tentennamenti il principio di accettare solo ed esclusivamente [corsivi nostri – NdR] che Macron ed il suo esecutivo vadano a casa definitivamente”. Ma… non è un po’ poco?

D’altra parte, il “poco” si… spreca, in queste prese di posizione. Così, “Nuova Unità” del 28 dicembre 2018, in un articolo intitolato “Francia. Bentornata lotta di classe. La battaglia dei gilet gialli” (è proprio vero: il maltempo si vede dal mattino!), ci dice che “La radicalizzazione della lotta, gli scontri di piazza, hanno affinato gli obiettivi, facendola diventare da lotta economica una lotta politica”. Eh, sarebbe bello che fosse così! Lenin c’insegna invece che la lotta economica non diventa lotta politica per una dinamica a essa interna, ma solo attraverso l’intervento, a lungo praticato, del partito rivoluzionario: ma, si sa, la memoria è debole! Poi, in quest’entusiasmo che non conosce confini, si dice che il “movimento […] si è saldato con i figli delle banlieues, operai e lavoratori delle lotte contro la ‘loi travail’”, e qui, davvero, lucciole per lanterne, perché non c’è dubbio che, a livello individuale, nel movimento siano stati presenti “operai e lavoratori” oltre che “figli delle banlieues”, ma non basta questa “presenza” a fare del movimento un esempio di… “bentornata lotta di classe”. Così però si può affermare addirittura che il movimento “rappresenta un pericolo mortale per la borghesia”, ci si può entusiasmare per le “classi sociali unite nel ‘popolo’ dei gilet gialli” (ahinoi, bisognerebbe dire!) e per (udite! udite!) “un fronte interclassista fatto di proletari, sottoproletari e piccoli borghesi, cioè quelli che fanno fatica ad arrivare a fine mese anche lavorando con salari da fame, gli immiseriti dalla crisi economica e politica, i disoccupati che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena, a cui si sono aggiunti gli studenti, hanno dimostrato – anche a costo di mettere a ferro e fuoco le strade e le piazze – che si può lottare e anche vincere”. Dunque, ben venga il “fronte interclassista”: eccolo di nuovo il… “blocco delle quattro classi” di maoista memoria! Ecco il “Fronte Popolare” riverniciato!

Se poi passiamo ad… altri lidi, non è che la musica cambi molto. Leggiamo per esempio un lungo documento datato 1 gennaio 2019 e firmato “Nucleo comunista internazionalista”. Già il titolo la dice lunga: “Gilet gialli di Francia: La gente, la nostra gente, ne ha pieni i coglioni. Via il governo Macron, via il ‘Governo dei ricchi’. Una prima sommaria cronaca politica”. “La gente”? Ora, non è che vogliamo far le pulci… linguistiche: ma quando mai i comunisti hanno parlato di “gente”, sia pure… “la nostra”? Bah! Andiamo avanti, che c’è dell’altro. Fra altre frasi roboanti, critiche (anche giuste e necessarie) alle formazioni di “sinistra” francesi (ma pure con ripetute strizzatine d’occhio ai “compagni di Lutte Ouvrière”), l’illusione di una “crescita di coscienza e di forza complessiva dell’insieme [corsivo nostra – NdR] del movimento” e ulteriori sopravvalutazioni della reale presenza proletaria in esso, ecco che la montagna partorisce il topolino. Criticando tutti coloro che si oppongono a “ogni tentativo di utilizzo politico” del movimento (e fin qui può anche andar bene), l’NCI afferma: “Noi vogliamo invece che la gente, che la nostra gente faccia politica! Che nel movimento si imponga una politica, la nostra, quella rivoluzionaria e di classe e non quella controrivoluzionaria degli altri, controrivoluzionari di destra e di sinistra”. E quali sarebbero gli obiettivi di questa “politica rivoluzionaria e di classe”? Semplice, come non averci pensato prima? “Strappata e imposta con la forza la propria ‘legittimità’, il movimento dei gilet gialli pone innanzi la somma rivendicazione politica: via il governo ‘dei ricchi’, via questo governo del Capitale [abbiate pazienza: qui e dopo, il grassetto è il loro – NdR]”, “l’istanza di lotta politica racchiusa dalla parola d’ordine ‘Macron demission’ sorta spontaneamente dal fuoco della lotta”. Certo, riconosce l’NCI, questo non basta: “Per metterci che cosa? Per sostituire il porco Macron con che altro tipo di governo? Nessuno lo sa!”. Che fare, dunque? Ecco che, ancora una volta, la confusione regna sovrana. Da un lato, si proclama “la nostra soluzione politica risolutiva – ossia l’instaurazione della Comune, il potere di classe, il potere ai soviet, la dittatura del proletariato” (e tralasciamo d’intervenire a questo proposito, perché ci sarebbe comunque molto da dire); dall’altro, si riconosce che ciò non è “‘di questo mondo’ nelle presenti condizioni”. E allora, visto e considerato che non si ha attualmente “la forza complessiva […] per instaurare il nostro governo, il nostro potere sull’intera società”, che cosa bisogna fare? Presto detto: “è fondamentale che il prossimo governo della borghesia, qualsiasi forma politica esso prenda, abbia il fiato della mobilitazione popolare sul collo e non sia instaurato previa smobilitazione e divisione del fronte di lotta”. Bene, e cioè? Risposta: “Il movimento che ha strappato e conquistato con la forza la sua ‘legittimità’ deve, dovrà, poter esprimere i suoi propri organi autonomi, indipendenti dalle istituzioni statali attraverso i quali controllare i governi della borghesia, attraverso i quali poter ficcare il naso nei famosi ‘conti dello Stato’ sul cui ruotare di numeri e percentuali la borghesia stessa quotidianamente tenta di rincretinirci. L’umile pensionato, il semplice lavoratore, la semplice donna di casa (la cuoca di Lenin! […]) devono poter controllare e ficcare il naso, attraverso un loro organismo indipendente, nei conti e nei segreti di Stato”.

Ora, lasciamo perdere il fatto, ben noto a qualunque comunista, che “la cuoca di Lenin” era chiamata a gestire, attraverso la partecipazione diretta nei soviet, il potere proletario e dittatoriale, diretto dal Partito Comunista, dopo l’abbattimento della dittatura della borghesia e non prima… Qui invece non si fa altro che disegnare un’ennesima variazione sulla frusta illusione del “contropotere”, che alla fine non può far altro che identificarsi con una sorta di blando… riformismo radicaleggiante!

Potremmo continuare con altri esempi, ma vogliamo fermarci qui, almeno per il momento. A questo punto, ci par di sentire il clamore che si leva in fondo alla sala: “Insomma, voi vorreste che si stesse a guardare!”. Eh, no, cari “ultra-sinistri”! Noi operiamo, nei limiti delle nostre forze e della presenza sul luogo, affinché torni ad affermarsi l’indipendenza di classe del proletariato, come passo necessario e inevitabile se si vuole che si riapra una prospettiva davvero rivoluzionaria. E lo facciamo sia a livello teorico (con l’analisi del reale, con la critica delle impostazioni altrui, con la riaffermazione del programma comunista) sia a livello pratico (con l’intervento, ovunque ci sia possibile, nelle lotte dei proletari: ma non per seguirle contribuendo ad affogarle nella melma interclassista, bensì per orientarle e, se e quando sia possibile, dirigerle). Il resto, volenti o nolenti, altro non è che l’ennesima riproposizione – non importa quanto ammantata di fraseologia ultra-radicale – del solito, maledetto ritornello alla Bernstein: “Il movimento è tutto, il fine è nulla”.

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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