DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

I partiti opportunisti sono per definizione “aperti” nel duplice senso che non hanno un programma rigorosamente delimitato poggiante su fondamenta sicure, e a volte neppure finalità stabilite in modo indiscutibile, e che – ma le due cose si condizionano a vicenda – hanno una struttura organizzativa sciolta, plasticamente adattata via via, come il programma, al flusso mutevole delle situazioni esterne. Il fatto che, per essi, “il movimento è tutto, il fine nulla” ha per necessaria conseguenza che nulla sono anche i principi, il programma, la tattica, la organizzazione: la loro pretesa è d’essere “concreti”, di “mordere” nella realtà quotidiana e, in questa misura, di trasformarla; la loro realtà è l’adattamento servile al “fatto”, la supina acquiescenza al lasciarsene trasformare, insomma il codismo. Sono case senza muri, sono finestre senza vetri: tutto indifferentemente vi penetra, tutto indifferentemente può uscirne.

Dalla polemica fra Lenin e Martov al 2° congresso del POSDR (per non dire degli statuti della Prima Internazionale), il partito rivoluzionario marxista è, proprio all’opposto, “chiuso” – nell’invarianza del suo programma, nell’immutabilità dei suoi fini, nel possesso di un piano tattico, nell’inviolabilità della sua disciplina organizzativa. È una fortezza murata: parte, o meglio organo, della classe nella sua lotta di emancipazione, è una forza selettiva e sintetica, non una “gelatina” indifferente – e deve esserlo in quanto guida, in prospettiva, alla conquista del potere e all’esercizio della dittatura. Non vi entra chiunque, perché il suo armamentario non è un’esposizione al pubblico di oggetti intercambiabili secondo il gusto dell’acquirente, ma un patrimonio unico e vincolante, non affidato a “scelte”, non esposto alle vicissitudini della contingenza storica.

Caratteristica dei partiti opportunisti è l’eterogeneità, l’indeterminatezza, l’assenza di confini; caratteristica del partito rivoluzionario marxista è – ma non si tratta di un fatto acquisito, bensì di una realtà da difendere – la demarcazione verso l’esterno, l’unità verso l’interno. Nei primi, la classe come entità dinamica si stempera dissolvendosi, e non solo perde la visione delle sue finalità storiche e della via per raggiungerle, ma assorbe finalità estranee e si adatta a cammini non suoi; nel secondo, la classe integra le proprie energie in un organismo operante in una sola direzione lungo una sola strada: il partito, che precede la classe, non la segue; la dirige, non ne è diretta; è anzi, in senso proprio, la classe vista nel suo percorso storico, non nelle accidentalità del tempo e dello spazio.

* * *

Solo l’incapacità di servirsi della dialettica può scoprire una contraddizione fra “chiusura” del partito come fatto di coscienza e volontà, come programma e come milizia organizzata, e la sua candidatura a dirigere le grandi masse proletarie e, prima ancora, a conquistarle alla propria influenza. Eppure, se c’è un “manuale” di proiezione del partito verso l’esterno è il Che fare?, ma, al tempo stesso, non v’è “manuale” di azione pratica e di milizia attiva che più di esso parta dalla difesa del chiuso “dogmatismo” di partito per giungere alla definizione della molteplicità dei suoi compiti “aperti”, cioè rivolti al “di fuori”.

La verità è che, in antitesi diretta alle pretese dell’opportunismo, la “chiusura” del partito rivoluzionario marxista nelle rigide muraglie del programma, dei principi, dei fini, del “piano tattico”, dell’organizzazione, è premessa necessaria della sua capacità di agire, appunto, come forza sintetica delle innumerevoli spinte che nascono dal sottosuolo sociale e che, abbandonate a se stesse, si perdono nei rivoli della lotta quotidiana e dei suoi immancabili riflessi nell’empirismo ed eclettismo opportunista. Il partito rivoluzionario pone la sua candidatura alla guida delle masse – cioè alla loro direzione con un metodo unico verso un unico punto, attraverso l’affasciamento di strati proletari spinti sull’arena delle lotte sociali da determinazioni obiettive e, nella grande maggioranza, inaccessibili alla comprensione del suo programma, non diciamo poi dei suoi fini, ma polarizzati intorno ad esso dall’incontro fra la sua azione, non ispirata a interessi settoriali e mutevoli, e la pressione inesorabile di esigenze vitali a tutti comuni –, proprio perché, tendenzialmente, realizza al suo interno la massima unificazione di energie selezionate e “dirette”. Non è lusso intellettuale o, peggio, morale che traccia i suoi “confini”: è un’esigenza di lotta. In quei confini, non ci si chiude per adagiarsi nella compiaciuta esistenza di un’elite pronta ad agire solo quando la storia abbia decretato la sua comparsa in scena; protetti da quei confini, si esce per conseguire il massimo di unità della classe consentito dai dati della situazione oggettiva, in funzione di una saldatura, che non cade dal cielo anche se non si costruisce ad arbitrio, tra le finalità storiche e il movimento reale della classe. Si legge, in un articolo della nostra corrente dedicato nel 1921 al Fronte Unico (obiettivo oggi lontano, ma davanti agli occhi in ogni circostanza): “Dimostrerebbe di nulla avere inteso del programma nostro chi trovasse una contraddizione tra l’invocazione all’unione di tutti i lavoratori e il fatto di staccare una parte di essi dagli altri, organizzandoli in partito con metodi che differiscono da quelli degli altri partiti, anche di quelli che si richiamano al proletariato e si dicono rivoluzionari; poiché in verità quei due concetti non hanno che la stessa medesima origine.

“Le prime lotte che i lavoratori conducono contro la classe borghese dominante sono lotte di gruppi più o meno numerosi per finalità parziali ed immediate. Il comunismo proclama la necessità di unificare queste lotte, nel loro sviluppo, in modo da dare ad esse un obiettivo e un metodo comune, e parla per questo di unità al disopra delle singole categorie professionali, al disopra delle situazioni locali, delle frontiere nazionali o di razza. Questa unità non è una somma materiale di individui e gruppi, quando questi sentono di costituire una classe, ossia di avere uno scopo e un programma comune.

“Se dunque nel partito vi è solo una parte dei lavoratori, tuttavia in esso vi è l’unità del proletariato, in quanto lavoratori di diverso mestiere, di diversa località e nazionalità, vi partecipano sullo stesso piano, con le stesse finalità e la stessa regola di organizzazione. Una unione formale, federativa, di sindacati di categoria, o magari un’alleanza di partiti politici del proletariato, pur avendo maggiori effettivi di quelli del partito di classe, non raggiunge il postulato fondamentale della unione di tutti i lavoratori, perché non ha coesione e unicità di scopi e di metodi”.

E, illustrando l’azione svolta dal Partito in vista e a favore dell’unificazione dei sindacati classisti dell’epoca, l’articolo prosegue, attualissimo: “Altrettanto energicamente, i comunisti sostengono, anche prima di raggiungere questa unità organizzativa […], la necessità dell’azione d’insieme di tutto il proletariato, oggi che i suoi problemi parziali economici, dinanzi all’offensiva dei padroni, si fondono in uno solo: in quello della comune difesa. Ancora una volta, essi sono convinti che, mostrando alle masse che unico è il postulato, ed unica dev’essere la tattica per fronteggiare la minacciata riduzione dei salari, la disoccupazione e tutte le altre manifestazioni di offensiva anti-operaia, si renderà più agevole il compito di dimostrare che il proletariato deve avere un programma unico di offensiva rivoluzionaria, e che questo programma è quello tracciato dalla Internazionale Comunista: lotta condotta dal partito politico di classe contro lo Stato borghese, per la dittatura del proletariato. Dal ‘fronte unico’ del proletariato sindacalmente organizzato contro l’offensiva borghese sorgerà il fronte unico del proletariato sul programma politico del Partito Comunista, dimostrandosi, nell’azione e nell’incessante critica di esso, insufficiente ogni altro programma.

* * *

Nel Che fare? come nel 1903, Lenin vedeva la cittadella murata del partito al centro di una rete di lose organisationen, di una miriade di organizzazioni intermedie libere, aperte a tutti gli operai; e gli additava il compito di penetrarvi e stringerle intorno a sé, come i cerchi via via concentrici di un’influenza crescente. Solo così, un giorno, la classe operaia avrebbe potuto – come poté – , anch’essa compatta e chiusa verso la classe dominante e le sue servili appendici, muovere all’assalto del potere.

Consideratelo, se vi garba, un paradosso, voi che siete immersi nell’ideologia della classe nemica: solo i rivoluzionari – arroccati nella loro organizzazione minoritaria, gelosi della sua indipendenza, avversi a ogni ibridismo fra partiti, convinti della labilità e insufficienza di ogni conquista parziale nell’ambito della società borghese – hanno tuttavia il diritto di parlare di unità della classe operaia contro il capitale, di fronte proletario contro borghesia e opportunismo uniti, di lotta conseguente in difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro delle masse sfruttate.

Ne hanno essi soli il diritto; devono acquisirne la forza.

 

Partito comunista internazionale

                                                                          (il programma comunista)

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