DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

1. PESSIMISMO COSMICO

Non è un mistero per nessuno, neanche per chi ritiene il capitalismo una categoria dell'eternità, con i suoi inevitabili pregi e difetti, che la società in cui viviamo convive con le crisi. Queste tuttavia vengono presentate alla stregua di fenomeni naturali transitori, come le malattie di un organismo in crescita. Il conformismo imperante non concepisce il paragone con malattie letali e definitive, altrimenti se ne dovrebbe concludere che il capitalismo è mortale, cosa anch'essa non contemplata ed esclusa a priori. Se poi chiedi perché proprio al capitalismo è riservata la sorte dei vampiri (calzante, l'associazione!) e non anche al feudalesimo, agli imperi coloniali, otre che a tutte le forme di vita, ti rispondono che è sempre esistito e sono pronti a rintracciarne le forme in tutte le epoche dell'umanità.

 

Così, se sulle vicende umane l'indagine rimane in superficie, onde non sollevare dubbi sulla inevitabilità delle condizioni presenti, su tutto il resto i conformisti non si sbilanciano, lasciano l'argomento alle scienze naturali, ché quelle umane dicono essere d'altro genere. Forse però, sotto sotto sono convinti che anche la natura è intimamente capitalista, che in tutte le manifestazioni dell'Essere sia tutto un dare e avere, un tornaconto senza il quale l'erba non crescerebbe, i vulcani non erutterebbero e le galassie si spegnerebbero per mancanza di… incentivi economici. Che ci si… “guadagna” a esistere? Per gli umani di fede monoteista c'è sempre da guadagnarsi un paradiso, una bella eterna vacanza del tipo “turista per sempre” a ricompensa per i mancati introiti in vita. Magari anche le galassie hanno da guadagnarsi il loro Eden, e così stan lì a far il loro mestiere, un po' misterioso, da vere professioniste. Chi può dirlo? Dunque è plausibile che il capitalismo, nel suo perenne distruggere e costruire, oltre che essere tremendamente reale abbia il segno dell'universale. Perfino le più recenti teorie sull'universo portano contributi a conferma di questa ipotesi (1). Pare infatti che l'universo sia quanto di più mutevole, precario e incline alla catastrofe si possa immaginare. Altro che stabilità, immutabilità, certezza nella vile materia. No! Ciò che abbiamo sotto i piedi, tocchiamo e respiriamo è frutto di un fragile equilibrio, precario appunto, che potrebbe da un istante all'altro rompersi e cancellare, assieme a ogni certezza, anche l'esistenza nostra e del mondo conosciuto. Non siamo astrofisici (e qui tornerebbe utile il contributo di quel Pannekoek, comunista olandese, che si era sì fissato sui “consigli operai”, ma da astronomo conosceva bene la materia) e non siamo pertanto in grado di discutere la teoria su basi scientifiche. Non ci sfugge però la sorprendente analogia tra “l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo”, e come la teoria scientifica sembri trasporre sul piano cosmico i tratti di una società ormai chiaramente avviata alla catastrofe. Di che si può lamentare un precario dei giorni nostri, se il suo destino è quello dell'universo tutto? Che accetti dunque la sua condizione naturale e universale: c'è poco da fare... E lo stesso valga per la mancanza di certezze, le crisi e le catastrofi di un mondo sempre sull'orlo dell'abisso. Signori miei, le guerre, l'inquinamento, i mutamenti climatici, i sinistri della moderna decadenza borghese, con il pieno affermarsi del dominio del capitale son divenuti fatti naturali dai quali non si può sfuggire, sono manifestazioni dell'eterno e dell'universale, e se catastrofe finale sarà, bellica o ecologica, sarà l'inevitabile portato di quella piena realizzazione della natura che è il capitalismo… Non vogliamo dire che quella teoria dell'universo sia bassa apologia, ma è quanto meno curioso che la visione che propone presenti molti tratti essenziali dell'attuale modo di produzione, precario, in perenne crisi e sull'orlo dell'abisso... Insomma, noi che del capitalismo abbiamo sempre denunciato l'opposizione tra natura e società e considerato possibile la loro armonizzazione solo nel comunismo, dobbiamo ricrederci: l'universo tutto altro non è che una specie di gran capitalismo galattico... finché dura.

 

Mentre la scienza avanzatissima proietta fasci di luce mercantili nel buio degli spazi intergalattici, qui sotto i fatti economici rimangono invece avvolti nel mistero. E sì che ne hanno reclutati, di fisici, per costruire modelli di funzionamento dei mercati in grado di prevederne i movimenti! Nessuno però è in grado di includere l'eventualità della catastrofe che puntualmente arriva. Anche i più grossi calibri tra gli economisti annaspano in questi “territori inesplorati” che si sarebbero aperti dopo la grande recessione che data ormai un decennio. C'è rimasto molto da esplorare anche quaggiù, ma per l'astrofisico è più semplice: può spararla grossa su ottime basi scientifiche senza far un gran danno. L'economista, invece, deve trovare soluzioni a questa maledetta crisi che non passa, attorno alla quale si arrabatta invano. L'economia dovrebbe ripartire, ma c'è qualcosa che non funziona: il motore non sia avvia, con tanto di serbatoio pieno di carburante monetario... Mah! Alla disperata ricerca delle cause, qualche temerario si azzarda a rispolverare Marx, ma a piccole dosi, per non dover concludere che il motore è proprio da buttare (lo era già ai tempi di Carlo!). Di fronte all'evidenza di una crisi che non molla, le migliori menti sono impegnate in studi e ricerche econometriche e statistiche... Ci dovrà pur essere un rimedio! Tra i frutti di questo fervore intellettuale, un rapporto del Cers ( Comitato europeo per il rischio sistemico), pubblicato dalla Bce, rendiconta il succedersi in Europa dal 1970 ad oggi di 50 crisi finanziarie “sistemiche” e quasi altrettante “non sistemiche”, cioè di minore impatto sull'economia (2). Alla faccia! Il calcoletto ne conteggia, tra gravi e meno gravi, in media circa due all'anno. Qui l'astrofisico trova la conferma che anche a terra si balla sull'orlo dell'abisso, e il team di economisti va giù ancora più duro rilevando in questa evoluzione i “sintomi di un cambiamento epocale in essere“: tendenza alla deflazione, rendimenti reali ai minimi storici, produttività, produzione e investimenti sotto i livelli pre-crisi… Viene a rinforzo di questo pessimismo cosmico il contributo del centro ricerche Llewellyn Consulting (mai sentito prima, ma senz'altro autorevolissimo): “Alcune considerazioni strutturali: l'invecchiamento della popolazione, un rallentamento del progresso tecnologico e della produttività; la decentralizzazione delle economie; l'indebolimento della spesa sulle infrastrutture; la prudenza degli investimenti privati; la disuguaglianza e il divario tra ricchi e poveri, gli spiriti animali ormai fiacchi...”. Di fronte a tanta decadenza, verrebbe da compiangere queste povere bestie imbolsite del capitale, troppo grasse e vecchie per aver fame di profitti come ai tempi d'oro. Ma alla fine tanta scienza partorisce il consiglio salvifico: “politiche fiscali con orizzonti temporali che guardino ai prossimi decenni e che siano mirate a scoraggiare il prepensionamento e promuovere innovazione e investimenti in R&S, per prevenire l'impatto negativo dell'invecchiamento della popolazione sulle prospettive di crescita economica a lungo termine.” Caspita! Date le premesse, ci saremmo aspettati un prontuario di riforme epocali: invece, scopriamo che è sufficiente spostare in avanti l'età di pensionamento. Quando finalmente sarà fissata a 80 anni potremo celebrare l'abolizione del sistema pensionistico, ridotto a zavorra dall'evidente ringiovanimento della popolazione, frutto dell'ultimo miracolo capitalistico: l'abolizione della vecchiaia. E i giovani? Ma i giovani sono à la page con l'universo, sono precari e felici di esserlo. Il posto fisso? Roba da vecchi, finché esistono...

 

In conclusione, non si rottama il catorcio capitalistico, lo si tiene; non si sostituiscono i lavoratori anziani con i giovani disoccupati, li si tiene. Quale sia la logica di tutto questo bel piano di sopravvivenza del capitale è presto detto: per far marciare il rottame bisogna spremere fino alla morte i lavoratori vecchi e sfruttare all'osso i giovani precari e sottoccupati, sottoposti al ricatto perenne della miseria. La chiamano senza pudore “solidarietà intergenerazionale”! Ecco la salvezza, la luce in fondo al tunnel. Il mostro capitalistico si nutre esclusivamente dello sfruttamento del lavoro vivente, e la tecnologia – quella partorita dalla “R&S” – è lo strumento per intensificarlo. La ricetta ripropone e arricchisce gli ingredienti di sempre: intensificazione dello sfruttamento del lavoro umano e sua estensione (qui prolungata a tutto l'arco dell'esistenza) dall'addestramento gratuito dell'alternanza scuola-lavoro alla morte per esaurimento delle energie vitali. Et voilà, la versione aggiornata del welfare “dalla culla alla tomba” è servita. In questo modo, nulla va sprecato dell'esistenza di un individuo, se non la vita stessa, tutta dedita a soddisfare l'appetito dell'Insaziabile.

 

Da questi risibili programmi di salvataggio del capitale trapela il fattore che decreta la loro inconsistenza: la crescente difficoltà nel perpetuare lo sfruttamento su basi nuove e allargate. La logica che promana dai centri studi dell'economia demente si allontana sempre più dal semplice buon senso, perché è lo stesso capitalismo ad aver perso ogni ragion d'essere. La soluzione di incatenare i vecchi alla fatica del lavoro e dissipare le energie giovanili tra disoccupazione e lavori a termine non potrà dare una grande spinta alla valorizzazione; piuttosto, aggraverà la decadenza avvicinando il momento in cui l'odio di classe degli sfruttati spingerà finalmente il Bestione nell'abisso.

L'astronomo scruti dunque con attenzione lo spazio: da qualche parte, dovrebbe profilarsi il meteorite rivoluzionario!

 

Note

1) G. Tonelli, “Universo precario in equilibrio sul baratro”, Il fatto quotidiano, 25 maggio 2017.

2) I. Bufacchi, “Cosa imparare dalle ultime cento crisi”, Il sole-24ore, 18 agosto 2017. I successivi virgolettati sono da attribuire allo stesso articolo.

 

 

2. IN PUNTO DI MORTE

Non cercheremo di capire quali siano state le “cento crisi sistemiche e le 43 crisi finanziarie non sistemiche” che hanno “a volte distrutto, a volte scosso i sistemi bancari nazionali e che hanno rallentato duramente o fatto crollare l’andamento economico dal 1970 ad oggi”, secondo l’autrice dell’articolo pubblicato il 18 agosto dal Sole-24 ore, che abbiamo citato sopra. Non cercheremo di capire come si riesca a separare con disinvoltura le crisi economiche produttive da quelle finanziarie, bancarie, valutarie, debitorie, etc., le crisi sistemiche da quelle non sistemiche. L'analisi macro-prudenziale (distinta da quella micro-prudenziale a livello di azienda) di cui l’autrice si serve, è – secondo Wikipedia – “un'analisi rivolta a saggiare la stabilità del sistema finanziario nel suo complesso”: il che implica l’utilizzo di un elenco multiforme di “sintomi, segnali, scenari, come li chiamano, che dovrebbero rappresentare le manifestazioni strutturali e sovrastrutturali delle crisi nei loro parametri fondamentali e derivati. Nemmeno cercheremo di capire (è del tutto inutile farlo) se l’analisi ha a che vedere con la realtà o con la probabilità o con una proiezione immaginaria. “Significativi” sarebbero stati nel tempo i risultati delle analisi, nei 28 paesi dell’Unione europea, delle “sei crisi finanziarie, non sistemiche, nei periodi 1973-’79; 1981-’83; 2008-‘011 e, infine, le tre crisi sistemiche, una negli anni 1991-’97 e due tra 2011 e il 2013”.

Questa periodizzazione non coincide ovviamente con quella che noi abbiamo rilevato (con dati e grafici) nelle decine di articoli sulle crisi capitalistiche e sui cicli economici comparsi nella nostra stampa, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale. La differenza sostanziale è dovuta al fatto che quei nostri dati riguardano sempre: 1) l’intera economia mondiale; 2) la crisi economica in quanto tale, da cui derivano, in seconda… e ultima istanza, le forme delle cosiddette “altre crisi”; 3) il fatto che la finalità del nostro lavoro non è mai stata volta alla ricerca della stabilità del sistema economico-finanziario, bensì alla riconferma della instabilità del sistema capitalistico. Nel concetto di stabilità, noi non ci sottomettiamo al carattere prudenziale dell’analisi, perché non siamo legati né alla contingenza, né alla scommessa della probabilità, né all’ammiccamento verso i signori del Capitale. Nei nostri lavori, la periodizzazione delle crisi economiche dal 1970 si presenta in questo modo: 1974-’75; 1981-’82; 1991-’92; 1997-’98; 2000-’01; 2007-2013. L’analisi scientifica, come esposta ne Il Capitale di Marx, basta e avanza per comprendere che il crollo del capitalismo è segnato nei dati, nella storia economica capitalistica e nella lotta di classe tra proletariato e borghesia. E tuttavia l’analisi “prudenziale” dell’autrice non è esente dal timore di un crollo catastrofico.

 

Quanto sono costate le crisi dal 1970 a oggi

Il costo delle crisi dal 1970 a oggi per l’UE è stato elevatissimo, scrive sempre l’economista di cui sopra: ha procurato una perdita media del Pil dell’8,5% (con picchi del 12% con le crisi del debito sovrano e del 9% con le crisi bancarie) e un peggioramento del 21% del rapporto deb/Pil come media dei diversi tipi di crisi (dati di ricercatori ed economisti della BCE e delle Banche centrali nazionali). Gli studi economici di cui sopra servono a individuare, secondo l’autrice, “i segni premonitori delle prossime potenziali crisi, identificando i modelli e le variabili che causano degli stress finanziari periodici estremi”: per esempio, il credito facile e le bolle speculative immobiliari. Suggeriamo all’autrice, per non perdere tempo, di buttare in discarica le sue analisi “prudenziali”. Le evidenze sono tali e tante, dopo dieci anni dall’inizio dell’ultima crisi, saldandosi alle precedenti, che l’autrice rischia di sprofondare in un buco nero. Quest’ultima crisi, detta “la Grande Recessione” e la crisi bancario-finanziaria che l’ha accompagnata – leggiamo ancora nel medesimo articolo – potrebbero non essere crisi passeggere, ma “sintomi di un cambiamento epocale, crisi strutturali e permanenti dell’economia dei Paesi avanzati, scenari del tutto scollegati dalla forma dei mercati e delle economie degli ultimi 50 anni”. Accanto alla riduzione del Pil e alla crescita del debito sul Pil, i dati dei rendimenti reali dei titoli di Stato in calo dagli anni ’80 del ‘900 sono ai minimi storici (la rappresentazione grafica presente nell’articolo mostra una loro caduta dal 5% ai valori negativi del 2015-16). Ugualmente importanti sono i dati della bassa inflazione che rimane molto al di sotto del 2%, dopo la deflazione degli anni precedenti. A loro volta, i dati della crescita economica, della produttività e degli investimenti sono rimasti sotto i livelli pre-crisi, nonostante 18mila miliardi di dollari di iniezioni di liquidità (Quantitative Easing) forniti dalle banche centrali, fenomeni questi che potrebbero essere “non più temporanei ma duraturi e che potrebbero estendersi per un periodo molto prolungato nel tempo”. Le crisi sistemiche scaturite dal rischio del debito sovrano hanno avuto tutte un impatto molto più forte sul rapporto deb/Pil, peggiorandolo del 39%.

 

Complessità e ondate delle crisi

Ancora: l’autrice distingue le crisi sistemiche europee per complessità e ondate. La complessità ha una natura composta – dice – caratterizzata da molte rischiosità e problemi, nel settore bancario, nella bilancia valutaria, nei pagamenti, nel rischio sovrano e nella violenta correzione degli asset finanziari, soprattutto quelli immobiliari. Esiste un indice di stress finanziario associato alle crisi sistemiche – dice sempre – che anticipa o coincide con un declino prolungato dell’attività nell’economia reale. Or dunque: ci dica, dottoressa, il malato terminale è morto o è poco morto? In quanto alle ondate, esse sono avvenute soprattutto negli anni ’90 e poi dal 2007. La prima onda è stata generata dalla crisi del sistema monetario europeo SME in vigore dal 1979, dalla transizione dei paesi dell’Europa centrale e orientale da economie pianificate a economie di mercato e dalla crisi della Russia del 1998. La seconda onda è stata provocata dalla crisi dei subprime Usa e dall’insorgere del rischio sovrano e quindi dalle crisi bancarie in molti paesi europei, poi dal 2006 dal crollo dei prezzi degli asset finanziari e l’impennata del debito pubblico.

 

Dopo la Grande Crisi

Quali cambiamenti di portata strutturale si potranno avere dunque nei prossimi dieci anni? “Il mio elenco – dice sempre l’“economista” – potrebbe sembrare provocatorio in quanto in primo luogo i rendimenti reali dei titoli di Stato dei paesi del G7, a breve e a lungo termine, in calo da 35 anni, non fanno presagire l’arrivo di una conversione a U dell’economia”. Dunque, prudentemente, ci dica: la bestia è in punto di morte? Nessuna risposta. Inoltre, nonostante gli sforzi delle banche centrali, i tassi, l’inflazione e la crescita economica viaggiano su livelli ancora storicamente bassi e potrebbero rimanere tali per un lungo periodo per molte cause concomitanti. Le cause? Eccole (!): 1. Invecchiamento della popolazione; 2. Rallentamento del progresso tecnologico e della produttività; 3. Decentralizzazione delle economie; 4. Indebolimento delle spese infrastrutturali; 5. Ristagno degli investimenti privati; 6. Diseguaglianza e divario tra ricchi e poveri; 7. Infiacchimento degli “spiriti animali” del capitale; 8. Incertezza politica. Or dunque: il suo elenco è solamente prudentemente indiziario o, come Cassandra, lei anticipa un disastro che si compirà in proporzioni immense? Altri analisti – ci viene detto – valutano le stesse grandezze, soprattutto l’impatto negativo sulla demografia in Europa, la stagnazione secolare, i tassi d’interesse in calo dagli anni ’80 e su livelli storicamente bassi dopo l’ultima crisi finanziaria globale. Il pericolo più grande sarebbe, secondo quest’analisi, che le banche centrali potrebbero avere armi spuntate sulle future politiche monetarie, sulla gestione e valutazione dei rischi sulla stabilità finanziaria a causa di tassi troppo bassi. Non per nulla essi suggeriscono politiche fiscali che guardino ai prossimi decenni e che siano mirate a scoraggiare il pre-pensionamento e promuovere investimenti, per prevenire l’impatto negativo dell’invecchiamento della popolazione sulle prospettive di crescita economica a lungo termine. Ammazza che bastardi! Al capezzale del porco morto, con un coltellaccio in mano, non ci resta che finirlo!

 

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