DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Il nocciolo dell'argomentazione svolta nelle parti precedenti mirava a ristabilire le basi teoriche della critica di due "errori" inversi ma convergenti, l'uno deliberato e l'altro inconscio ma non per questo meno rovinoso per il Partito rivoluzionario di classe: quello di isolare l'organizzazione dall'insieme organico delle "categorie" che definiscono il partito – teoria, finalità, principi, programma, tattica – ed erigerlo ad assoluto come mezzo in sé valido e risolutivo, quasi che per noi l'organizzazione non avesse l'importanza che ha perché e in quanto è il necessario supporto dell'azione del partito diretta  dalla dottrina e dal programma, e della tattica vincolata ai principi, e potesse e dovesse essere salvaguardata anche se posta al servizio di fini, principi, programmi, teorie avversi. E quello, d'altra parte, di credere che, una volta stabilite in modo chiuso e definitivo quelle categorie fondamentali, l’organizzazione nasca, per così dire, da sé, senza una propria legge, a caso e di volta in volta: insomma, non ubbidendo anch'essa a principi invarianti  e non esigendo dall'insieme del partito lo stesso duro, rigoroso, inflessibile lavoro di difesa, di rafforzamento, di affinamento che ognuna delle sue "armi" esige.

Il primo "errore" è in realtà un aperto tradimento: lo consumò la socialdemocrazia quando mise il "gioiello" della sua rete organizzativa – non solo politica, ma sindacale e, in genere, economica – al servizio dell'”unione sacra” in guerra, giocando sul tradizionale orgoglio feticistico per le forme isolate dal loro contenuto e dal loro obiettivo, e per il loro fascino e peso materiale; lo consumò lo stalinismo nascente quando pretese di "bolscevizzare" l'Internazionale Comunista, servendosi di un'organizzazione fortemente centralizzata come mezzo caporalesco di imposizione di teorie e tattiche controrivoluzionarie e pretendendo ossequio e disciplina a essa comunque, a prescindere  dalla direzione nella quale stava proditoriamente volgendola: cioè nel senso opposto alle finalità e ai principi posti a base dell'Internazionale stessa nel 1919-1920.

Il secondo "errore" è più sottile e, soggettivamente, magari più... candido, ma i suoi effetti sono altrettanto perniciosi. Esso infatti introduce in quell'ordine rigoroso e serrato in tutte le sue parti che è il fondamentale bagaglio di teoria e di azione del Partito, in quel sistema scientifico che è l'ossatura della sua dottrina come della sua prassi, un elemento di indeterminazione, di accidentalità, di affidamento al caso e al "nuovo" – proprio quell'elemento che il marxismo ha espulso dalla sua visione del mondo e della storia, e proprio nel campo di più immediato contatto con la realtà, il che significa con le suggestioni di un ambiente sociale avverso e nemico e carico di pregiudizi – nella migliore delle ipotesi – sapientemente coltivati dalla classe dominante. È, in sostanza, una capitolazione al feticcio della spontaneità insondabile e indisciplinabile, all'idealismo della "vitalità" e dell'azione produttrici di forme sempre diverse.

Organizzazione e principi

È un "errore" che si nutre del facile inganno, in cui si cade spesso, di interpretare il giusto rifiuto di "codici" e "statuti", dalle regole eterne quasi fossero leggi scolpite sulle tavole del Sinai, come un rifiuto di principi fissi di organizzazione: fissi, per noi, almeno quanto i principi che presiedono all'azione tattica del partito per la buona ed elementare ragione che sono gli stessi principi.

È un principio la centralizzazione, perché è un principio la lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico centrale, e l'esercizio della dittatura a conquista avvenuta; perché, prima ancora, è un principio il carattere generale e non locale come non contingente della lotta rivoluzionaria di classe; perché, prima ancora, è tesi di dottrina che la classe è classe, al di là di vicissitudini alterne spaziali e temporali, in quanto si organizzi, cioè si accentri, in partito politico. È un principio la disciplina, per le stessissime ragioni.

È in base a principi irrinunciabili – non oggetto di ripensamenti né, tanto meno, di... consultazioni democratiche – che Lenin nel Che fare? distrugge la visione "laburista", "economista" e menscevica del Partito, e dà una prova smagliante della saldatura rigorosa fra organizzazione e principi e teoria, legando il suo schema di un partito di "rivoluzionari di professione" alla critica della spontaneità e dell'operaismo, che è poi tradunionismo (cioè laburismo, quindi politica borghese). È in nome di principi altrettanto fissi e irrinunciabili che noi, la Sinistra, opponemmo alla riorganizzazione delle sezioni dell'Internazionale sulla base falsamente bolscevica – in realtà, anti-bolscevica – delle cellule di fabbrica la stabilità della "forma" organizzativa territoriale, in cui si rispecchia (splendido esempio dell'inscindibilità di tutti gli anelli della catena teoria-fini-programma-principi-tattica) e quindi si potenzia la natura non locale, non corporativa, non aziendale, non volgarmente "operaista" e non contingentista, del partito di classe, e della battaglia per le finalità ultime della classe.

Si obiettò allora polemicamente che proprio noi avevamo sostenuto "non essere la rivoluzione una questione di forme di organizzazione"; ma il punto è che qui, cioè nel partito, forma e contenuto fanno tutt'uno, la prima non sta senza il secondo e il secondo cessa d'essere quello che marxisticamente è se non si dà la prima, ad esso conforme ed adeguata; e la rivoluzione è certo, benché non soltanto, "questione di partito". Si obiettò, ancora, che tale era lo schema tradizionale della socialdemocrazia, ma – a parte l'ovvia risposta che la socialdemocrazia era nata marxista e si era trascinata con sé nella rovina un guscio non suo adattandolo alla sua sporca bisogna, e quindi deformandolo non solo nelle sue finalità ma persino nel suo funzionamento (la "sezione territoriale" ridotta a parlamentino, a club di opinioni, a... circoscrizione elettorale!) – si potrebbe con la stessa... legittimità obiettare (e quante volte si è obiettato al marxismo, dai tempi della I ai tempi della III Internazionale, dai critici dell'"autoritarismo" di Marx ed Engels o da quelli del "giacobinismo" di Lenin!) che l'estrema centralizzazione è una scoperta delle rivoluzioni borghesi e dietro ad essa c'è l'ombra dei Cromwell e dei Robespierre (1), o – direbbero coloro che confondono i periodi storici – quella di Cavaignac, di Mussolini, di Hitler o di Stalin... (2).

Centralismo organico, ma centralismo!

Il nostro centralismo non è, certo, un guscio vuoto, buono a ricevere qualunque ingrediente. E’ il centralismo di un organo le cui membra (teoria, finalità, programma, principi, tattica) sono legate da nessi inscindibili e si muovono tutte nella stessa direzione, quella del nord rivoluzionario, pur nella diversità della loro struttura e del loro compito, al "vertice" come alla "base": al centro, che da un lato riceve gli impulsi della periferia ma li sintetizza e, se necessario per l'interesse generale dell'organo-partito, li respinge, e dall'altro irradia i comandi di cui la "periferia" ha bisogno come le fibrille nervose e i più delicati e minuscoli vasi sanguigni hanno bisogno degli ordini centrali, della disciplina globale, emananti dal cervello e dal cuore – organi tecnici, senza dubbio, e non da erigere a divinità, meno che mai da venerare come gli "unti del signore", ma non per questo meno indispensabili.

L'organicità del nostro centralismo non solo non toglie che questo sia centralismo, ma è condizione della sua massima efficacia, è impegno di riduzione al minimo degli attriti che tanto spesso intralciano il movimento unitario dell'organismo-partito come dell'organismo-uomo. Il carattere non arbitrario e non ottusamente furieresco del "centralismo organico", in quanto opposto a quella contraddizione in termini che è il "centralismo democratico" – anticamera, per l'impossibilità di far funzionare in modo omogeneo le cellule consultate una per una nel sacrario della loro "opinione", del centralismo alla Stalin, del centralismo del sì ad ogni capriola e ad ogni tradimento, nella migliore delle ipotesi ad ogni bestialità purché munita del bollo ufficiale – non solo non esclude ma postula, perché tale è il risultato cui tende e deve tendere, la struttura piramidale, gerarchica, verticale  del partito, specchio fedele della centralità della sua dottrina e della sua azione, del convergere di tutte le linee di forza della classe verso la conquista centrale  del potere.

Se fosse vero che l'organizzazione del partito rivoluzionario di classe, esattamente come la sua tattica, non obbedisce a specifici principi – principi dunque, fissi quali che siano le transitorie vicissitudini di norme "statutarie" la cui eternità il partito non ha motivo di riconoscere più che la rivoluzione e la dittatura abbiano motivo di riconoscersi vincolate da decreti – , perché mai, come abbiamo ricordato nella precedente puntata, avremmo appoggiato la nostra richiesta di escludere per qualunque sezione dell'internazionale l'aggregazione anche solo di parti di organismi estranei, necessariamente guidati da "funzionalità" che non erano né potevano essere le nostre, e che li costringevano a strutturarsi in modo conforme ai loro obiettivi, ai loro principi, ai loro moduli tattici democratici, legalitari, anti-rivoluzionari, anti-dittatoriali? Un organismo è per definizione un sistema articolato, ma centralizzato, di leggi di movimento e di sviluppo; quindi di principi. Fondato il Partito, chi se non noi rivendicammo come uno dei tre compiti del partito "in tutti i tempi e in tutte le situazioni" la "assicurazione della continuità della compagine organizzativa e della sua efficienza, e la sua difesa da inquinamenti con influenze estranee ed opposte all'interesse rivoluzionario del proletariato" (Tesi di Lione, I, 3), allo stesso titolo della difesa dei "postulati fondamentali programmatici, ossia della coscienza teorica del partito", affermando così che il partito si definisce non meno  per la sua struttura organizzativa e la continuità di essa, che per la sua teoria, il suo programma e le sue forme di azione, inseparabili dai principi?

Il partito, prefigurazione dello schieramento rivoluzionario del proletariato e del suo stato maggiore

Il partito rivoluzionario di classe, proprio perché e in quanto è una volontaria milizia, per giunta in lotta per la distruzione dell'ultima società di classe e per l'instaurazione di una società di specie, sviluppa certo nel proprio seno una capacità di integrazione dei singoli nel corpo unitario dell'organo-partito, per cui si può dire che – in piccolo e fra mille contrasti derivanti dal fatto elementare d'essere non solo fattore ma prodotto della storia e di vivere e lottare nel seno di un ambiente sociale opposto a quello per il quale esso si batte – anticipa la società futura (e si noti subito che in un senso analogo, cioè molto ristretto, la anticipa ogni associazione solidaristica, non legata a “interessi immediati e personali"). Ma non è questo il suo compito, perché non è la ragione del suo costituirsi, altrimenti ricadremmo nell'utopismo anarchico o... gramsciano dei ricercatori e costruttori di nuclei ed embrioni di comunismo entro le viscere maledette della società borghese e, non avendoli trovati... nei consigli di fabbrica o nei... comuni, ci metteremmo a sognare un partito di santi, di "primi cristiani" (come significativamente sognavano Bakunin ai tempi della I Internazionale e Gramsci subito dopo il II Congresso della III!), di apostoli in lunghe, candide vesti, intonanti le lodi di San Marx e così rivendicanti l'accesso al Paradiso. Dimenticheremmo che al fine del comunismo si perviene dialetticamente con i principi, impugnati in direzione capovolta ma non perciò mutati nella forma, della rivoluzione e della dittatura, cioè impiegando la violenza per spianare il terreno alla cessazione di ogni violenza, la coazione per rendere possibile l'assenza di ogni coazione, lo Stato per distruggere lo Stato, la guerra di classe per eliminare ogni guerra, la gerarchia organizzativa per seppellire ogni gerarchia non tecnica, perfino le capacità individuali legate alla perfida divisione del lavoro capitalistica per distruggere la divisione sociale del lavoro.

Per natura e destinazione, il partito è, questo sì, ma soltanto questo, la prefigurazione – o meglio la preparazione – dello schieramento rivoluzionario del proletariato, e del suo stato maggiore: lo è in dottrina, non può non esserlo nella sua specifica organizzazione. È questo il suo compito, è questa la sua natura perché è l'espressione della sua obbedienza ai principi. Non è un caso che proprio gli anti-autoritari, gli anti-organizzazione e gli anti-dittatura, cent'anni fa, vagheggiassero il sogno di se stessi come "primi cristiani" prefiguranti hic et nunc il comunismo di domani: era la condizione per buttare tra i ferrivecchi l'organo-partito! Non è egualmente un caso che sia stato l'autore dell'articolo famoso "Dell'autorità", Federico Engels, a distruggere il mito bastardo che degrada la milizia rivoluzionaria, sotto pretesto di "prefigurare il comunismo", a belante conventicola di candidati all'Eden, pronti a offrire l'altra guancia perché la "città futura" sia, già oggi e quaggiù. Si stampino nella memoria, i giovani militanti, le parole di Engels (Il Congresso di Sonvillier e l'Internazionale, gennaio 1872):

"Un’associazione operaia che sulle sue bandiere ha scritto innanzitutto la lotta per l'emancipazione della classe operaia, alla sua testa dovrebbe avere non già un comitato esecutivo, bensì un semplice ufficio statistico e di corrispondenza! Ma per Bakunin e soci la lotta per l'emancipazione della classe operaia è soltanto un pretesto; il vero fine che essi perseguono è di tutt'altra natura: ‘La società futura non dev'essere altro che la generalizzazione dell'organizzazione che l'Internazionale si sarà data. Dobbiamo quindi far sì che questa organizzazione si avvicini il più possibile al nostro ideale... L'Internazionale, l'embrione della futura società umana, è tenuta a esser già oggi l'immagine fedele dei nostri principi di libertà e di federalismo e a espellere dal suo seno ogni principio che tende all'autorità e alla dittatura’. Noi tedeschi ci siamo fatti una cattiva fama a causa del nostro misticismo, ma siamo ben lungi dall'eguagliare il misticismo che si esprime in questo documento. L'Internazionale concepita come il modello della società futura, in cui non ci saranno fucilazioni di Versailles, corti marziali, eserciti di leva, violazioni del segreto epistolare, tribunali come quello di Brunswick! Proprio ora che dobbiamo batterci con mani e piedi per salvare la pelle, il proletariato dovrebbe organizzarsi non in base alle esigenze della lotta che gli viene imposta ogni giorno e ogni ora, bensì in base alle concezioni che alcuni visionari si fanno di un'indeterminata società futura! Proviamo a immaginare che aspetto avrebbe la nostra organizzazione tedesca, se fosse costruita in base a questo modello. Invece di batterci contro i governi e contro la borghesia, mediteremmo se effettivamente ogni articolo degli statuti, ogni risoluzione congressuale è effettivamente l'immagine fedele della società futura. Invece del nostro comitato esecutivo, avremmo un semplice ufficio di statistica e di corrispondenza, confrontato con delle sezioni autonome, autonome al punto da non poter riconoscere neppure l'autorità dirigente creata dal loro stesso libero consenso; ciò facendo esse contravverrebbero infatti al loro primo dovere: essere un'immagine fedele della società futura! Di unione delle forze, di azione comune non se ne parlerebbe nemmeno più. Se in ogni singola sezione la minoranza si piega alla maggioranza, essa si rende colpevole di un crimine contro i principi della libertà e riconosce un principio che tende all'autorità e alla dittatura! Se Stieber e tutti i suoi compagni, se l'intero Gabinetto Nero, se tutti gli ufficiali prussiani eseguendo un ordine entrassero nella organizzazione socialdemocratica per distruggerla, il comitato, o piuttosto l'ufficio statistico e di corrispondenza, non dovrebbe in alcun caso impedirlo, poiché ciò significherebbe adottare un'organizzazione gerarchica e autoritaria! E per l'amor del cielo niente sezioni disciplinate! Nessuna disciplina di partito, nessuna centralizzazione delle forze in un punto, nessun'arma per la lotta! Dove rimarrebbe altrimenti il modello della società futura? Per farla breve, dove ci condurrebbe questa nuova organizzazione? All'organizzazione vile e strisciante dei primi cristiani, di quegli schiavi che accoglievano ogni pedata con parole di ringraziamento e che, a dire il vero, dopo trecento anni, proprio strisciando assicurarono la vittoria alla loro religione – un metodo della rivoluzione che in nessun caso il proletariato imiterà! Proprio come i primi cristiani presero il loro paradiso immaginario a modello della loro organizzazione, anche noi dovremmo prendere a modello il paradiso sociale futuro del signor Bakunin e, invece di combattere, dovremmo pregare e sperare".

E il partito è nato non per "pregare e sperare", ma per combattere e vincere! 

Ricapitolando

Quanto si è detto nelle pagine precedenti discende in linea diretta da tutta la nostra tradizione di partito e se ne può trovare la formulazione sintetica sia nelle Considerazioni sull'organica attività del partito quando la situazione storica è sfavorevole (1965), là dove si afferma che "la cosiddetta questione della organizzazione del partito [...] non è un settore isolato in un compartimento stagno, ma è inseparabile da un quadro generale delle nostre posizioni", sia nelle Tesi sul compito storico, l'azione e la struttura del partito comunista mondiale, secondo le posizioni che da oltre mezzo secolo formano il patrimonio storico della sinistra comunista (1965), là dove si ricorda che "le questioni [...] storicamente enunciate come riferite alla ideologia e dottrina del partito, alla sua azione nelle successive situazioni storiche e quindi al suo programma, alla sua tattica e alla sua struttura organizzativa, vanno considerate come un insieme unico".

Più in generale, esso si ricollega senza soluzioni di continuità alla visione materialistico-dialettica del marxismo, e alle storiche battaglie che proprio sul terreno dell'organizzazione ebbero a sostenere Marx ed Engels nel 1871-72 contro Bakunin, e Lenin nel 1902-03 contro i menscevichi, e che intanto videro schierati su fronti opposti i difensori di una struttura organizzativa rigida, chiusa e centralizzata e quelli di una struttura indefinita, federale, aperta o atomistica, in quanto i due schieramenti difendevano principi  e dottrine antitetici, solo apparentemente formulati in termini di "pura" organizzazione, ma in realtà abbraccianti l'intero, immenso arco della teoria della lotta di emancipazione proletaria, delle sue finalità del suo necessario percorso, dei suoi indispensabili organi e mezzi.

Come è antimarxista dichiarare indifferente alla dottrina e ai principi la tattica, e negare che il rapporto fra questa e "il multiforme sviluppo delle situazioni oggettive e, in un certo senso esterne al partito, pure essendo mutevole, deve essere dal partito ‘dominata e preceduta in anticipo’", così lo sarebbe il proclamare indifferente alla dottrina e ai principi quell'organizzazione che tuttavia della tattica è il necessario veicolo, e, tramite la tattica, il necessario veicolo della dottrina, delle finalità del programma del partito nelle alterne vicissitudini della storia. Se è vero che la tattica deve riflettere i principi o, se li contraddice (e li contraddirebbe anche solo ignorandoli), si ripercuote su di essi stravolgendoli, è altrettanto vero che principi e tattica comportano un'organizzazione a essi rigorosamente aderente, oppure questa si convertirà in cinghia di trasmissione di principi e tattiche, infine anche di teorie e di programmi, distruttivi della ragion d'essere del partito.

Ed è vero che sarebbe utopistico perseguire attraverso mezzi organizzativi l'ideale di un "partito perfetto", poiché tale "perfezione" – che poi non è se non l'avvenuta completa identificazione di partito storico e partito formale in rari svolti della storia delle lotte di classe – è il prodotto della completa aderenza di tutti i fattori di cui si compone la realtà del partito. Ma non è meno vero che sarebbe utopistico affidarne l'azione (coerente ai principi) al caso, all'accidente, all'indeterminazione: insomma, a una struttura organizzativa purchessia. Il grande insegnamento del Che fare? da un lato, della nostra battaglia in seno all’Internazionale Comunista dall'altro, è appunto che il dogmatismo in teoria (l'affermazione dell'invarianza della dottrina) deve tradursi senza soluzione di continuità, senza strappi né vuoti né sbavature, fin nelle più minute e "subalterne" attività e strutture del partito, mai intese come esistenti e valide per sé, sempre ricollegate e commisurate nella loro validità ai principi. Per cui è sacrosanto affermare che condizione di un buon funzionamento organizzativo del partito è la sua saldezza teorico-programmatico-tattica, quanto difendere questa saldezza nella costanza della struttura organizzativa e dei suoi principi ispiratori – presupposti l'una e l'altra dell'organico, unitario, rettilineo muoversi ed operare della milizia rivoluzionaria.

Dietro ogni deviazione organizzativa si nasconde una deviazione di principio. L'anticentralismo e antiautoritarismo dei bakuniniani era lo specchio fedele del loro individualismo e idealismo in teoria; il lassismo organizzativo dei menscevichi lo era del loro gradualismo e codismo in dottrina; il federalismo della II Internazionale decadente, del suo parlamentarismo e democratismo di fondo; la falsa "bolscevizzazione" 1925, basata sulle cellule di fabbrica, dell'avvio a una trasformazione dei partiti comunisti in "partiti del lavoro" prima, “del popolo” poi, con tutto ciò che doveva sciaguratamente conseguirne. E ognuna di tali deviazioni è stata madre di nuovi, radicali strappi alla dottrina, ai principi, alla tattica, perfino al modo d'intendere le finalità ultime – che, per esempio, nell'esasperazione estrema dell'anarchismo perde la sua ultima apparenza di identicità con la nostra dottrina e mostra di divergerne radicalmente così come la visione di una comunità di specie in quanto traguardo finale della nostra battaglia di comunisti diverge da quella, cara ai Proudhon e ai Bakunin, di una comunità di individui o, al massimo, di piccoli gruppi autosufficienti.

Per un’impostazione dialettica delle questioni di organizzazione

In tutti i nostri testi dedicati ai problemi organizzativi del partito (anche e, diremmo, soprattutto in quelli che condensano in forma più vigorosamente polemica le lezioni del passato) è costante un modo squisitamente dialettico di porre le questioni e di risolverle.

Forti di un bilancio storico più che cinquantennale [oggi, 2017, novantennale! – NdR], quei nostri testi e la nostra pratica da allora reagiscono alla malsana utopia di una "carta costituzionale" del partito che, in forza e virtù dei suoi congegni, ne assicuri il buon funzionamento e la salvezza dagli attacchi dell'opportunismo; ma non per questo avallano l'utopia inversa di un partito che non si crei, come deve crearsi, degli specifici congegni, i più conformi ai principi che ne reggono l'azione.

Mettono in guardia contro l'abuso dei formalismi; ma non per giustificare il ripudio delle forme e l'uso corretto dei formalismi organizzativi. Negano validità alla trasposizione meccanica della struttura di tipo militare che il partito dovrà necessariamente darsi nell'assalto rivoluzionario al potere e nella guerra civile, a fasi e situazioni che da quei traguardi sono lontane; ma, come negano che tale lontananza giustifichi l'adozione di tattiche non correlate all'obiettivo fissato dai principi del comunismo e non adagiantisi sulla via che ad esso conduce, ben sapendo che l'efficienza del partito e il suo grado di influenza sulle masse dipendono non solo dall'evolversi in senso favorevole delle condizioni materiali della lotta di classe, bensì (e in grado eminente) dalla continuità mai interrotta delle sue proclamazioni e dei suoi atti, così traggono dal sicuro possesso e maneggio della dottrina e dei principi i veri presupposti di una continuità il più possibile rigorosa della sua "serrata disciplina".

Come insegnano che vano è predisporre le armi teoriche e programmatiche per l'ora X della conquista rivoluzionaria del potere e del suo dittatoriale esercizio proclamati come inalienabili principi, se non ci si muove e non si opera anche nelle fasi di più drammatico riflusso sulla "linea spezzata" di una risalita finale, così insegnano che è vano predicare "l'arte [e nessuno meglio di Trotsky sapeva che ciò vuol anche dire "tecnica"] dell'insurrezione" e anticiparne gli strumenti pratici, se non ci si prepara fin da ora ad accoglierli e maneggiarli nel rigore, nella consequenzialità, nella "chiusura", della compagine organizzata del partito – per debole, piccolo e privo di influenze immediate che esso sia.

Condannano senza appello le "compressioni disciplinari" di triste memoria, usate per assicurare un’unanimità di comodo alle più sfrontate deviazioni di principio; ma perché cercano e additano nell'unitarietà, omogeneità, continuità, coerenza di indirizzo del partito, le premesse di una sana, sicura, "non cieca e non forzata", e però tanto più potente, disciplina: "I comunisti – proclamò la nostra corrente non appena l'Internazionale fu ricostruita sulla base dell'integrale restaurazione della dottrina e dei principi del comunismo – aspettano ordini" (Il Comunista, 14/XI/1920).

Proclamano e difendono – i nostri classici testi – il carattere impersonale del partito, sprezzante di "Migliori" [come era chiamato… Togliatti! – NdR] e di "Messia", non perché lo immaginino costituito di fantasmi (e pallidi fantasmi di "santi", "martiri" e "profeti") ma, tutt'al contrario, perché lo vedono (e solo così possono vederlo i marxisti) come "l'integrazione di molti individui in un organismo collettivo unitario" (Tesi di Roma, I, 1, 1922) che insieme li supera "nello spazio e nel tempo" e, integrandoli, li completa. Respingono – nella "distribuzione dei membri del partito fra le varie funzioni e attività che formano la sua vita" e "nell'avvicendarsi in tali funzioni" – ogni "scimmiottamento della borghese divisione del lavoro", ogni adozione di "regole analoghe a quelle delle carriere delle burocrazie borghesi" (Tesi supplementari, 1966), ma rivendicano altamente tale distribuzione e tale avvicendamento per un processo di selezione, non democratica né elitistica, ma organica, ben sapendo che il partito non è soltanto un sodalizio di uomini accomunati dalla stessa fede, ma una macchina volta "all'impiego delle energie in esso inquadrate" per il conseguimento di "obiettivi che superano gli interessi dei singoli gruppi, e i postulati immediati e contingenti che la classe lavoratrice si può porre" (Tesi di Roma, I, 1 e 2) e a maggior ragione superano gli interessi e i postulati dei singoli.

L'adesione al partito è volontaria nel senso che non è né può essere coatta; ma chi si è assunto l'onere di militare nelle sue file ha per ciò stesso (a meno che il partito cessi d'essere quello che era) identificato la propria "volontà" – non discutiamo ora se e in quali limiti reale – con la superiore volontà collettiva della comunità-partito. Non gli si chiede, come non si chiede a nessuno, il possesso integrale di una dottrina che scavalca generazioni e continenti, e di una volontà che opera nella storia solo come energia collettiva; ma al partito non sarà mai né può mai essere indifferente che la formazione dottrinaria e politica dei singoli militanti, la loro volontà di azione coerente a essa, il loro rigore di disciplina organizzativa, si avvicinino nel limite umanamente più elevato possibile al livello "ottimo" di una secolare milizia; che essi siano non puri numeri accanto ad altri numeri, ma forze agenti accanto ad altre forze agenti nel complesso organamento del partito.

I testi che abbiamo più volte citati rivendicano la preminenza del partito storico – quindi del programma – su qualunque vicissitudine contingente del partito formale, non tuttavia perché ci si adagi in esso come in un facile e, nella stessa misura, rassegnato rifugio, ma perché se ne tragga alimento nella lotta quotidiana tesa a superare "la contraddizione apparente tra partito storico, dunque quanto al contenuto (programma storico invariante), e partito contingente, dunque quanto alla forma, che agisce come forza e prassi fisica di una parte decisiva del proletariato in lotta"; forza che ha saputo e potuto darsi una forma come ha saputo e potuto difendere in un tormentato cammino il proprio contenuto.

Proclamano: "Che nel partito si possa tendere a dare vita ad un ambiente ferocemente antiborghese, che anticipi largamente i caratteri della società comunista, è una antica enunciazione, ad esempio dei giovani comunisti italiani fin dal 1912. Ma questa degna aspirazione non potrà mai essere ridotta a considerare il partito ideale come un falansterio circondato da invalicabili mura", giacché "il partito è al tempo stesso un fattore e un prodotto dello svolgimento storico delle situazioni, e non potrà mai essere considerato come un elemento estraneo ed astratto che possa dominare l'ambiente circostante, senza ricadere in un nuovo e più flebile utopismo" (dalle citate Tesi sul compito storico…, paragrafo 13). Se per Engels era squallido utopismo – e autentica rovina agli effetti della lotta rivoluzionaria di classe – la pretesa bakuniniana di ricalcare la struttura del partito comunista sul modello della "città futura" (anche in questo, bakuninismo e gramscismo, come varianti dell'utopismo piccolo borghese, confluiscono), non meno utopistico è chiedere al partito, o supporre che sia in suo potere, di superare non già – come è sacrosanto – le ignobili barriere della divisione sociale del lavoro, ma questa stessa divisione. La forza del partito non risiede nella mitica possibilità di costruire un'isola di comunismo entro le viscere dell'"ambiente circostante" borghese – un'isola in cui, fra l'altro, tutti sappiano indifferentemente fare tutto (3) – , ma appunto nell'integrare (nessun termine potrebbe essere più felice, nella sua accentuazione dell'elemento dinamico contro quello statico) le "energie", "i molti individui", le "macchine umane" inquadrate nella sua rete organizzativa – ciascuna con le sue doti naturali e le sue "specializzazioni" sociali – per farle servire alle finalità comuni in "un naturale adeguamento del complesso e articolato organo-partito alla sua funzione" (Tesi supplementari). Con grande vigore dialettico scrivono le Considerazioni (e le si legga attentamente): "Il senso dell'unitarismo e del centralismo organico è che il partito sviluppa in sé gli organi atti a varie funzioni  che noi chiamiamo propaganda, proselitismo, lavoro sindacale ecc., fino, domani, all'organizzazione armata, ma che nulla si deve concludere dal numero dei compagni che si pensa addetti a tali funzioni, perché in principio nessun compagno deve essere estraneo a nessuna di esse". Integrazione dinamica, conquista perenne, mai grigia equiparazione e pallido dato di fatto acquisito, l'organica vita del partito, come tende a farsi completa nell'esercizio delle sue funzioni specifiche, così tende a formare dei militanti – non degli "uomini"! – completi, esigendo da ciascuno la partecipazione all'integralità delle sue manifestazioni necessarie, chiedendo a ciascuno la subordinazione delle "competenze" ereditate da una divisione sociale del lavoro (alla quale solo il comunismo potrà sottrarli) alle necessità collettive e impersonali della milizia rivoluzionaria e quindi della classe nel suo storico cammino, pretendendo di più da chi più e meglio è in grado di dare, esaltandone l'apporto a un'opera che non promette ricompense personali, a nessuno accordando privilegi o esenzioni, meno che mai diritti e allori, non bandendo "concorsi nei quali si lotti per raggiungere posizioni più o meno brillanti o più in vista". La selezione, come la gerarchia, è nel partito un processo organico, ma selezione è e resta (si veda la parte I delle Tesi di Roma), e il suo contravveleno non sta nel negarla, ma nel mantenerne con fiera determinazione il carattere dinamico, non pietrificato, dialettico, non formalmente "logico", di "naturale adeguamento del partito alla sua funzione".

Il partito – lo si è ricordato più sopra – non è né un magma indistinto, né un aggregato di frammenti policromi (le due facce, anarchica e democratica, dell'idealismo borghese), ma un "organo complesso e articolato"; una struttura, non una tabula rasa; una piramide, non una superficie piana. Ma, fra tutte le membra di questo organismo, di questa struttura, di questa piramide, corre un filo unico di rigorosa coerenza nella dottrina, nel programma, nei principi, nella tattica, nell'azione – che è organizzata, o non è nulla. Su questo storico ponte esso cammina, non difeso da nessuna ricetta, ma tanto più capace di resistere e, un giorno, di vincere, quanto più in grado di svolgere armonicamente tutte le sue funzioni ed eseguire tutti i suoi compiti, alti o bassi, grandi o umili, perché tutti egualmente necessari. In definitiva, tutto nel partito è organizzazione, quando si intenda questo termine – come qui lo si deve intendere – non in senso esteriore, aridamente amministrativo e ottusamente "di ufficio", ma nel senso dialettico e fremente di vita di una integrazione globale – del presente nell'avvenire, del contingente nel finale, dell'individuo nella collettività, della tattica nei principi, della teoria nella prassi (4).

(2-Fine)

(Il lavoro qui pubblicato in due puntate comparve originariamente sulle pagine de Il programma comunista, nei numeri 6-7-8-10 del 1973: si trattava del testo presentato come rapporto alla Riunione Generale di Partito del settembre 1972).

 

Note

(1) Il che serve a ricordaci soltanto questo (e scusate se è poco): che, per breve ora ed empiricamente, cioè non scientificamente e "all’altezza dei principi” come è per noi, ogni classe chiamata a rivoluzionare il vecchio modo di produzione capisce di doversi disciplinare centralmente, se occorre col pugno di ferro, contro le proprie retroguardie non meno che, ovviamente, contro gli impazienti e scalpitanti "compagni di strada" di una classe destinata ad incarnare il futuro.

(2) I quali, diversamente dai Cromwell e Robespierre, hanno usato la centralizzazione dittatoriale e il terrore, strappandone il segreto a noi che non avevamo avuto modo di usarli a tempo, in funzione controrivoluzionaria!

(3) Scrive Lenin: "Il capitalismo lascia inevitabilmente in eredità al socialismo [e a maggior ragione al partito chiamato ad aprirgli la via – NdR] […] le vecchie distinzioni professionali e corporative fra gli operai che si sono stabilite attraverso i secoli... [Verrà giorno che] si passerà alla soppressione della divisione del lavoro tra gli uomini, all'educazione, preparazione, istruzione di uomini sviluppati e preparati in tutti i sensi, di uomini capaci di far tutto. A ciò tende il comunismo, a questo deve tendere e arriverà, ma soltanto dopo un lungo periodo di anni. Tentare oggi di anticipare praticamente questo futuro risultato del comunismo pienamente sviluppato, pienamente consolidato e formato, completamente florido e maturo, è come voler insegnare la matematica superiore a un bambino di quattro anni" (Opere, XXXI, p.40). La frase è tratta dall'Estremismo, ed è suggestivo ricordarlo perché tale fantasticheria nasce dallo stesso ceppo contro il quale fieramente si batteva il grande marxista – una fantasticheria che genera l'orrore dei "capi", della "gerarchia", degli "ordini" in cui in dati campi e svolti si convertono le direttive centrali: insomma, l’orrore della centralizzazione e della disciplina come fatto naturale di un organismo sano.

(4) Le Tesi citate si possono leggere nel nostro testo In difesa della continuità del programma comunista, Edizioni Il programma comunista, Milano 1989, e sono consultabili sul nostro sito di Partito: www.internationalcommunistparty.org.

 

Tattica e organizzazione sono inscindibili dai principi (I)

Partito comunista internazionale

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